Gli operatori in prima persona parlano delle proprie iniziative: la parola a Giuliano Segre
Le Fondazioni di origine bancaria hanno compiuto vent’anni. La legge che ha originato il fenomeno è del 1990 ed ha trovato attuazione negli anni immediatamente successivi. Tuttavia molte Fondazioni hanno invece la venerabile età di centonovanta anni o giù di lì. Cerchiamo di capirci: le Casse di Risparmio trovano la loro origine storica nei fenomeni di filantropia sociale dell’inizio del XIX secolo, quando la rivoluzione industriale fece esplodere il diffondersi del lavoro salariato, iniziando però a lasciare spazi di vita personale di miseria perché non sufficiente, oppure precario per la chiusura per qualsiasi causa delle fabbriche o per il sopraggiungere dell’età avanzata.
La necessità di atti di risparmio appunto previdenziale per gli anni del ritiro dal lavoro (per quanto allora misurati da una vita mediamente assai breve), obbligò a costruire delle apposite «casse-forti» nelle quali i risparmi fossero al sicuro dalle ingenti perdite allora frequenti nei numerosi fallimenti bancari.
Ecco dunque le Casse di Risparmio, che due secoli dopo espulsero, in Italia per legge, dal loro interno l’azienda bancaria, conferendola in una specifica società per azioni e ritrovandosi nude, ma ricche a cercare una nuova ragione esistenziale. Per i primi tempi si videro nei panni di nuovi «principi» benevolenti, addetti a distribuire zecchini a un contorno operoso nei tanti temi delle società moderne, dalla cultura all’assistenza.
Ormai sempre più frequentemente abbandonano quei panni per assumere quelli più manageriali dell’operatore in prima persona, investitore del proprio patrimonio al fine di raggiungere direttamente quei risultati sociali prima affidati all’opera, non sempre efficiente, di terzi. Innovatori insomma, proprio nel periodo nel quale la crisi finanziaria dello Stato apre crepacci importanti nella capacità pubblica di intervento. Ma innovatori davvero, non solo supplenti di quanto va perdendosi. Nei ventun settori previsti dalla legge, l’intervento a dono delle fondazioni dovrebbe, in accordo alle esigenze contemporanee, essere sostituito da un investimento diretto nel settore stesso, producendo esiti di sviluppo non disgiunto da utilità sociale da ritrovarsi anche nella crescita dell’occupazione. Gli investimenti che consentono, unitamente alla generazione di una adeguata redditività, di perseguire i propri obbiettivi di missione (i c.d. MRI, Mission Related Investment) si presentano come il campo più utile per quelle che, fra le 88 Fondazioni, vogliano accompagnare il Governo appena costituito nell’opera di risanamento della finanza pubblica italiana, esaltando il principio di sussidiarietà che possono degnamente prefiggersi di azionare da sole o in collegamento
con la Cassa Depositi e Prestiti della quale alcune sono azioniste complessivamente al 30%.
L’ultimo rapporto edito da Acri ha aperto una finestra sui MRI, rinvenendovi investimenti specifici per 3,3 miliardi di euro e enumerando un cospicuo numero di iniziative che, per quanto assai disperse nel metodo di intervento, hanno comunque lo stesso grande merito: portare innovazione in importanti spazi del Paese. Ad esemplificare uno degli approcci di metodo, ovviamente noto a chi scrive, la Fondazione di Venezia sta investendo, avendone verificato e certificato la redditività complessiva, in una grande operazione di rigenerazione urbana nella parte di terraferma del Comune lagunare, dove un ettaro di terreno rimasto chiuso per secoli alla fruizione dei cittadini in pieno centro urbano, verrà riaperto nel 2015 con funzioni culturali, commerciali e direzionali. Il progetto M9 è già stato ampiamente illustrato dalla stampa specializzata e lo studio internazionale Sauerbruch & Hutton di Berlino ne sta completando la progettazione. Oggi la Fondazione sta lavorando per questo progetto, nei limiti della propria forza operativa che non è poi così grande, dovendo comunque, come tutti, contenere i propri costi generali. Ma l’obiettivo del progetto è uno solo ed è ben definito: riportare alla vita civile e sociale uno spazio nel pieno centro della città di terraferma, da sempre precluso ai cittadini, con un’operazione che si lega ad un importante fine culturale. Non vi possono essere obiettivi intermedi di speculazione immobiliare per una fondazione: per essa il «guadagno» dell’investimento finanziario che sta compiendo è il centro museale che sorgerà. Per un investitore edilizio il guadagno consiste in un incremento del proprio patrimonio; per la fondazione è invece l’incremento di cultura che produce. È questo il suo «mestiere », come legge e statuto richiedono.
© Riproduzione riservata
Giuliano Segre
è Professore Ordinario di Scienze delle Finanze all’Università Ca’ Foscari
di Venezia e Presidente della Fondazione di Venezia dal 1992.