UNA FOTOGRAFIA DEL PRESENTE. INCONTRO CON LORENZA CASTELLI (MIA PHOTO FAIR)
Abbiamo incontrato Lorenza Castelli, exhibition director di MIA Photo Fair di Milano, per fare il punto sui confini mobili della fotografia fra nuovi continenti, terre promesse e Stati Generali. La sua fruizione passa attraverso paesaggi sociali in cambiamento e scenari di mercato che vedono il MIA in un lavoro di rete che cresce, si articola e può influire sullo sviluppo del settore. Tra gli aspetti di rilievo della kermesse, la bella sezione fotoeditoriale che accoglie il visitatore, il focus sull’Africa (con spin-off a Palazzo Litta), il consolidarsi del protagonismo di main partner come Eberhard & Co., Lavazza, BNL/BNP Paribas. (E novità in arrivo per l’ambito formativo-professionale)
Mentre il mercato d’asta nel 2017 ha visto fiorire la domanda di vintage e gli investimenti in fotografia, MIA, al quarto anno al The Mall, ai piedi della sede di Porta Nuova dello sponsor BNL/BNP Paribas, è rimasta molto equilibrata nella composizione di epoche e categorie differenti: la fiera è un termometro (quest’anno ha avuto un’ampia partecipazione di gallerie estere).
Abbiamo chiesto a Lorenza Castelli, exhibition director, quali tendenze ha maggiormente riscontrato: “Il lato delle opere contemporanee ha sempre maggior successo al MIA. È una questione di valori: i nostri collezionisti sono spinti verso opere il cui prezzo rimane nel range dei 3.000/10.000 €. Il vintage si piazza più nella fascia dai 20.000 € in su. Tenuto conto che è difficile avere informazioni sulle vendite, e gli acquisti si concludono non d’impulso ma fuori dal momento fieristico (le opere, vincolate a permessi di temporanea esportazione, necessitano di rimpatrio e sdoganamento) si può dire che il pubblico agli stand ha sì mostrato interesse molto più alto per il vintage, ma ha confermato la tendenza all’acquisto di contemporaneo.”
Tra incontri per conoscere il collezionismo d’eccellenza, momenti di autoformazione e di allineamento a buone pratiche del settore, MIA prova a dare una base a chi si avvicina a questa passione in ambito fotografico.
“Dal 2011 a oggi – aggiunge Castelli – abbiamo creato una base di collezionisti che non esisteva in Italia, e formato il nostro pubblico – dalla distribuzione del glossario, all’informazione sulle regole specifiche che governano l’ambito della fotografia d’arte – per raggiungere questo risultato. Fra gli operatori presenti in fiera quest’anno, c’è la percezione che il pubblico di compratori sia molto più preparato. Inoltre, la fotografia è sempre più amata dal grande pubblico: MIA è anche una mostra e un’occasione di diffusione di cultura. Credo che la tendenza al contemporaneo sia un problema di solo spending, e di scarsità numerica di collezionismo di settore. Le fiere di Paris Photo e Londra assorbono grandi gallerie che da noi hanno contatti ma che non si presentano, perché il giro di collezionisti di peso è ancora affezionato ad esse, col risultato che restano lì, spendendo di più, ma con l’aspettativa di un altro tipo di ritorno. A Milano (dove la Design Week e, prima, l’Art Week – con MiArt e le aperture che avvengono in contemporanea – attirano operatori di alto livello, ma dove la Photo Week è fissata a giugno, in un periodo inadatto, a ridosso delle date di grandi fiere, come Basilea) l’impulso può venire da un riallineamento di calendario, spostando MIA nei giorni di MiArt – con cui, del resto, non siamo in competizione. Non è una scelta semplice. Se avessimo le “spalle più larghe”, come la Fiera di Milano, potremmo fare dei veri e propri inviti...".
Uno dei fattori di successo di MIA arriva dal fatto di essere nata prima del moltiplicarsi delle iniziative di settore (Monaco, capitale del Principato, e Basel tra le photo fair di recente arrivo) ma, più di altro, conta la sua adesione a un modello tutto italiano: il nome di Castelli (Fabio e la figlia Lorenza, fondatori di MIA) appartiene all'ambito dell’imprenditoria, delle gallerie, del collezionismo e richiama quel protagonismo familiare che è imprinting della storia culturale del Paese. MIA rassicura, nel solco di un’espansione equilibrata in cui si consolida senza sovradimensionarsi, dà fiducia a chi vi partecipa: e soffre dei problemi di scala tipici dell’impresa media italiana che, per i limiti di contesto, resta spesso ancorata in porto, davanti a un orizzonte di potenzialità. C’è, infatti, un problema di sistema.
Pensando agli Stati Generali, guidati per MIBACT da Lorenza Bravetta con l’intento di reimpostare le azioni di riprogettazione e coordinare ruoli, compiti e contributi dei player di settore, pare di essere arrivati a un giro di boa. Ma, come tutti i giri di boa, la parte più difficile è tornare a riva. “Ho trovato gli Stati Generali organizzati molto bene: hanno diffuso una conoscenza sommersa, come un megafono, all’intero Paese. Per quel che ci riguarda, nell’ambito della formazione, c’è un’iniziativa che spingerà a nuove soluzioni per le future figure professionali del settore della fotografia: siamo stati contattati dal capofila di progetto, l’Università degli Studi di Milano – che col sostegno di Fondazione Cariplo, sta dando vita al polo d’eccellenza internazionale sulla fotografia – per collaborarvi. [Seguiranno approfondimenti sul numero di maggio in occasione della presentazione ufficiale del polo n.d.r.]. Questo mi pare vada nella direzione più volte sottolineata, nel corso dei lavori, di sopperire alla carenza culturale nell’ambito della preparazione accademica. Un aspetto più rilevante, ora, della gestione degli stessi archivi.” Proprio perché propedeutico e indispensabile al suo stesso svolgimento.
Per gli archivi, MIA procede con Eberhard & Co. sul sentiero della conservazione, col Premio Archivi Aperti (a cui collaborano associazioni professionali, media, imprese), dando manforte alla digitalizzazione e valorizzazione di fondi meritevoli e spesso non autonomi o in grado di costituirsi in fondazioni. Primo premio all’Archivio Carla Cerati (il cui patrimonio è anche in centri di documentazione come quello di Parma) e due menzioni, per Fondazione Gian Paolo Barbieri e per Paola Mattioli, il cui sguardo oscilla fra narrazione etnica, di genere, e di protesta: si dà spazio ai temi sociali, dalle lotte per i diritti delle donne, alle lotte politiche degli ultimi cinque decenni, dalla denuncia della condizione manicomiale al ritratto di una Milano che cambia sotto la pressione della crescita economica anni ’60.
C’è da rilevare però come MIA, attraverso il contemporaneo, abbia aperto lo sguardo su scene culturali cruciali: è il caso, tra i vari focus, dell’Africa e della temporanea AfricaAfrica a Palazzo Litta su design e fotografia africana, ora conclusa; Maria Pia Bernardoni, curatrice di progetti internazionali per il Lagos Photo Festival – a cui partecipano istituti di cultura nazionali, fondazioni d’impresa, marchi e privati, sotto la guida di African Artist’ Foundation – ha fatto da trait d’union per questo ambito. La maggior parte dei fotografi coinvolti nel focus africano, interviene corporeamente nell’immagine: auto-rappresentandosi, re-incorniciandosi in contesti costruiti ad hoc, alterandola, introducendovi elementi di simulazione, travestimento: in una sorta di re-enacting antropologico si manifesta tutta la criticità di un’africanità divenuta un marchio pesante per chi ci si confronta da dentro, guscio svuotato dal tempo.
Per capire quanto fuoriesca dai canoni del realismo la rappresentazione del cambiamento africano: Maurice Mbikayi, congolese, si ritrae su sfondi costruiti ad arte, indossando abiti eleganti e poveri, in “maglia di plastica”, tessuto di tasti ricuperati dagli scarti di tastiere da pc in discariche di rifiuti elettronici; per la stessa galleria (Officine dell’Immagine), Mounir Fatmi, marocchino, sovrappone all’immagine di una sala operatoria contemporanea il dipinto “magico” della Guarigione del Diacono Giustiniano, del Beato Angelico, mito in cui è coinvolto un personaggio di orgine etiope; Kyle Weeks, namibiano, già vincitore del Magnum Award con la serie della popolare estrazione (proibita) di linfa da una specie di palma oramai protetta, si dedica alla descrizione dell’Africa post-coloniale con approccio documentario e, al tempo stesso, volutamente paradossale; Gosette Lubondo della scuderia L’Agence a Paris, si ritrae fra passato e futuro, in una sovrapposizione multipla di sé, in vesti di personaggi-fantasma di una società congolese perduta per sempre, sullo sfondo di vecchi luoghi pubblici in stato di abbandono, ripopolandoli; il nigeriano Uche Okpa-Iroha ripropone i fotomontaggi di frame di film americani (Il Padrino) in cui i neri sono quasi assenti, in cui s’inserisce in “ruoli da nero”; Andrew Tshabangu, sudafricano, da decenni cattura in scatti b/n di rara densità d’informazioni e simbolica, un’Africa nella sua struttura di abitudini, fedi, fragilità, con stile vòlto a rievocarne i fantasmi pur partendo da un lavoro di documentazione giornalistica; e così l’italiano Nicola Lo Calzo, in un’indagine sospesa fra ritrattistica artistica e di reportage si tuffa nel mondo nascosto, sopravvissuto sotto la pelle del colonialismo, negli ambiti di trasferimento di proibite tradizioni rituali (p.e. il woodoo), provenienti dalla schiavitù, che danno l’illusione di continuità con la cultura della terra di origine, ai discendenti della diaspora, in Europa e nelle Americhe: immagini da una gabbia postmemoriale (Hirsch, 1997) che può essere chiave di lettura dell’intero paesaggio africano del MIA. Così Siwa Mbogoza (Semaphore) scelto come immagine della fiera, non fa eccezione: in una sorta di camouflage, dove egli stesso si rappresenta come soggetto su sfondi a tema naturale – coperti l’uno e gli altri di brandelli geometrici di tessuto colorato che impediscono la distinzione della figura umana dal fondale, il fotografo si richiama alle opere pittoriche della tradizione occidentale: “Si tratta di brandelli di stoffe utilizzate dalle donne, specialmente quelle che han fatto il passaggio all’età adulta, e dalle spose; sono stoffe che, benché prodotte fuori dal paese, e in condizioni di sfruttamento, sono diventate base degli abiti riconosciuti come tradizionali, i vestiti dei nostri riti importanti” – dice Siwa, sudafricano cresciuto in molti altri paesi, nella prima parte della sua vita, e che tornato in patria si è sentito più straniero di prima – “Mi sono serviti a incarnare diversi soggetti conosciuti durante i miei studi, tra cui le Damoiselles d’Avignon, che poi – dimentichiamo – sono prostitute”. Ricoprirsi, sparire nella propria immagine, citare i capisaldi artistici e culturali occidentali e africani per denudarne e farne riemergere gli aspetti contraddittori e rimossi – ritrarsi, in costume, nel mezzo di uno spoglio negozio di arredi e oggetti sacri antichi africani, prima luogo di preghiera, in cui Siwa si fa oggetto fra gli oggetti – tutto sottolinea la centralità di questa dismissione violenta, di quest’auto-profanazione della tradizione, e la crisi finale del mito di mondo primitivo (che nel gergo di Siwa è Africadia). “Questa linea è puramente artistica.” – dice Castelli – “Potremmo dire lo stesso di Gonçalo Mabunda che, nel suo Mozambico, con gli oggetti reali che ha rinvenuto (proiettili e kalashnikov usati) ha creato un trono, esposto a Palazzo Litta. O dei dittici Translation di Joana Choumali: il racconto della differenza tra quotidianità africana e occidentale, la porta a ritagliare da immagini di città occidentali e città africane i rispettivi personaggi per ricucirli (letteralmente) gli uni nelle altre.”
Anche l’Occidente ha un problema: la difficoltà nel riconoscere il valore condiviso dell’immagine, ora che le collettività decidono (in semi-autonomia di scambio e produzione) quali diventano icone, alla pari di soggetti un tempo intermediari – e prima soli a selezionare, valutare ed essere committenti per tutta la comunità. “Spero che la cultura aiuti i più giovani a discernere, e capire quel che è da tenere o da cancellare.” – afferma Castelli. Se le immagini che scambiamo, pur basate su modelli consolidati da secoli, sono base anche di processi di accettazione sociale dell’individuo, quanto può essere pervasiva l’influenza di una collettività che rischia di pesare come un collezionista silenzioso sul futuro e la scelta di ciò che erediteremo. L’urgenza di diffondere strumenti di lettura e narrazione visiva sembra avere un certo peso. “La capacità di scelta dell’individuo è sempre dipesa dalle competenze, dalla personalità, dal modo di leggere la realtà. È sempre stato così. Si torna però al tema dell’education sollevato da molti, negli Stati Generali: sono le istituzioni a dover provvedere a far fronte all’esigenza di formazione partendo dalla diffusione di possibilità e competenze di lettura adeguate, strumenti per comprendere quale sia un’immagine di qualità e quale no. I curatori, anche, hanno un ruolo chiave nel selezionare, raccontare e dire cosa vuole trasmettere l’artista. Noi ci proviamo nel nostro piccolo.” Che il MIA sia rimasto terreno vergine rispetto al costume di curatorializzare le fiere (già in declino) è un aspetto di equilibrio importante. "È chiaro che la fiera è una vetrina ‘multietnica’ di quello che c’è, e il ruolo di un curatore non può prevedere che possa dettarne le linee guida: il nostro comitato di curatori seleziona i progetti, con rigore, perché rispondano a canoni di qualità e adeguatezza. In posizioni diverse un curatore può far male a una fiera facendone occasione di propria espressione”. Oltre all'attività di selezione. l'edizione 2018 – dagli incontri con collezionisti, a quelli su misura, tecnici, per i professionisti del mercato, da quelli sul ruolo assunto dal tridimensionale, a quelli sugli aspetti psicologici della fotografia – vede appuntamenti che rispondono a necessità formative e di aggiornamento: e il contributo curatoriale già così porta moltissimo di ciò che serve (pensando invece ai molti talk delle grandi fiere gestiti come autopromozionali vetrine a beneficio univoco di partner e promotori).
Tornando al tema della diffusione digitale, e pensando a ciò che è accaduto alla musica leggera contemporanea, con la fruizione in rete, al fenomeno Spotify, ci si chiede se ci sia spazio per un futuro parallelo al mercato attuale per la commercializzazione di massa digitale d’immagine di qualità: ma Lorenza Castelli non è convinta. “Rispetto alla musica la fruizione della fotografia comporta che la si veda su schermo o a parete: Spotify l’ascolti ovunque. Come per la video arte, che ha problemi a essere ben fruita, e trova ritrosia nei collezionisti circa la visione da schermo, non è facile vedere un futuro fuori dal mercato di nicchia. Certo in un mercato futuribile, in cui le spese si abbassassero e i costi del diritto di riproduzione sul dispositivo digitale, permettessero di vendere un’opera anziché a 3.000 € a 30 €… ma non tutti collezionano fotografia o arte: sono nicchie per chi ha capacità di spesa e sicurezze economiche.” Nel web però ci sono anche campagne di crowdfunding per la produzione di progetti fotografici. “Ecco: il libro, le case editrici, possono sicuramente avvantaggiarsi da questo punto di vista, con una diffusione molto ampia”, aggiunge. In epoca di mercato editoriale spezzato fra le fiere di Roma, Milano, Torino, e di richiesta di attenzione per le specificità dell'editoria fotografica, MIA ha riservato uno spazio, all’ingresso del Mall, ad alcuni espositori di case editrici indipendenti. Può farsi centrale, il libro, in questo frangente di mercato e dar corso a una simbiosi capace di offrire vantaggi competitivi al MIA grazie alla sua capacità ricettiva di nuove leve, e tendenze, in linea con le ricerche più radicali. “Vogliamo dare uno sguardo al mercato a 360° e, queste case editrici, Rorhof, Witty Kiwi, La Fàbrica, Artphilein e molti altri, sono eccellenze, economie piccolissime ma con cura del dettaglio e passione, anche se restano un ambito di nicchia. Pure il collezionismo di libri fotografici o d’artista è una nicchia: nicchie di nicchie: un collezionista di William Klein compra pure il libro, ma un collezionista dei nostri, acquirente di contemporaneo, fa fatica, perché il libro è complicato, ti devi sedere, leggere: la fotografia è più facile.”
Eppure, dopo che le istituzioni da alcuni decenni hanno storicizzato tutto, da Giotto all’Arte Povera, alle cui inaugurazioni si presentavano in poche decine, ci si chiede perché la storia non possa farla anche la diffusione d’immagine di qualità attraverso il libro di fotografia, nei canali educativi: snicchiato al fine di produrre valore condiviso. “Potrebbe essere la nuova avanguardia! Quest’editoria nasce proprio con l’obiettivo di rendere più democratica l’arte attraverso il prodotto-libro. Spero che funzioni. C’è una fascia di giovani interessatissima a questo mondo, e sono felici di quello che fanno. È una possibilità di democratizzazione che resta nell’ambito di nicchia anche perché l’economia non funziona: non ci sono i numeri. Le grandi case editrici, non possono permettersi lo stesso grado di rischio di questi piccoli editori senza avere certezze in termini di numeri di copie, e quindi perdono la possibilità di un valore di prodotto come quello di Rorhof.” Il paradosso è che i piccoli editori hanno una capacità di sperimentazione altissima che le grandi case non hanno, ma non possono distribuirsi e alle grandi non conviene: così non si distribuisce qualità. Chissà a che punto saremmo oggi se in questi anni libri come Hidden Islam o Prison Photography fossero stati utilizzati nelle scuole del nostro Triveneto, a scopo divulgativo. “Il punto è: a chi tocca prendersi l’onere della diffusione? Di nuovo la risposta: tocca alle istituzioni.” E se negli Stati Generali si è fatto spesso riferimento al modello francese della Mission photographique (con Mitterand ministro o Presidente), per mettere a sistema questo valore dovremmo ispirarci alle forme francesi di sovvenzione (p.e. dei teatri) che obbligano a inserire in programma e sostenere le produzioni di nuove leve artistiche. “La Francia ha un’altra impostazione nel campo dell’arte, a livello politico. Con un patrimonio come il nostro, dovremmo risolvere i problemi dei grandi musei, da Brera a posti come Pompei, prima di arrivare all’arte contemporanea e alla fotografia: c’è così tanto lavoro da fare che, forse, non ci saremo.” Pressati dall’agenda di un heritage da valorizzare a ogni costo (verso cui c’è una crisi di interesse collettivo) lasciare la fotografia a sé stessa, quando può essere volano di partecipazione più efficace, è così intelligente? “Ci sono territori, come Reggio Emilia, già patria dei nostri grandi fotografi, per cui la fotografia è un elemento di riconoscimento territoriale, e Cortona, Lucca, Modena, poi Lodi per la fotografia etica, che ha un compito divulgativo importante. Con il Premio RaM, Sarteano ha scelto di connotare il bene culturale della sua rocca trecentesca con la bandiera dell’arte fotografica. Ma se l’esigenza è recepita bene a livello di istituzioni locali, su cui si può lavorare, a Roma è difficile smuovere qualcosa, a livello centrale.” E c’è da ricordare la spaccatura fra nord e sud in termini di produzione e fruizione di eventi culturali. “Anche se nell’ambito delle collaborazioni con il Sole 24 ore e Università Cattolica del Sacro Cuore, vedo crescente interesse nei giovani che arrivano qui per studiare management culturale: questo fa ben sperare.” Se la condivisione pubblica dell’immagine e il suo valore condiviso ne influenzano il valore economico, si può pensare a quale circolo virtuoso potrebbe scaturire dal sostegno e dall’uso mirato dell’immagine in quei contesti naturali o sociali che chiedono di essere visti (fotografati) in modo nuovo, curati, ricostruiti, protetti?
Il main sponsor Lavazza, attivo sotto il profilo della promozione della fotografia, impegnato con la sua fondazione in progetti vòlti a innovare gli approcci e rendere sostenibili i contesti di produzione dei piccoli coltivatori nelle terre di raccolta (non ha mai richiesto certificazioni fair e si attiva in prima persona, invece, nella misura che ritiene più efficace), porta al MIA il calendario “2030: What are you doing?” con cui richiama all’adozione in prima persona di buone pratiche. Il World Press Photo, Platon, passa qui dai leader politici, veterani, militanti dei diritti civili e dalla pubblicità, a una ritrattistica di contro-potere in 17 scatti di leader e testimonial di organizzazioni che agiscono contro squilibri sociali ed ecologici. Un richiamo che fa riflettere. L’immagine può molto, ma può farci deviare dai nostri obiettivi, illudere che li stiamo perseguendo, dissimulare risultati insufficienti, ingannare sulla natura delle nostre azioni, offrire un racconto parziale, alterato, del reale. Forse dobbiamo assumerci la responsabilità di questo strumento e iniziare, guardandoci in faccia, a chiederci cosa vogliamo fare di noi, attraverso la fotografia. Cominciare, ognuno col proprio ruolo, dai margini, dove la fotografia non arriva, se non vogliamo che la condivisione resti solo un’immagine.
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Ph: Portrait of Siwa Mgoboza by Gerda Genis
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