Vale sempre la pena piantare un giardino da qualche parte della terra
SPECIALE MECENATE '90. In estate abbiamo accolto l’invito di Mecenate ’90 ad ospitare una riflessione, una rilettura corale severa e costruttiva sull’innovazione in corso delle politiche culturali, per cogliere il susseguirsi dei cambiamenti nel disegno riformatore ispirato dal Governo. Dove stiamo andando? Abbiamo lo sguardo lungo? Siamo ad una svolta? Dove ci sta portando la “sempIificazione amministrativa”? I contributi autorevoli sono stati numerosi, numerosi i lettori. Ledo Prato, segretario generale dell’Associazione, propone di far crescere il ragionamento indagando il ruolo delle città moderne, in particolare quelle medie che vanno ripensandosi, con uno sguardo largo che arrivi alla dimensione europea, toccando l’innovazione nella socialità, nuovi protagonismi, cittadinanza attiva. Oltre la logica del consenso. Un contesto nel quale si giocano scelte decisive per lo sviluppo locale, alimentando una cultura del partenariato “multiattoriale e multilivello”. “La dimensione urbana può quindi essere il terreno di coltura delle nuove sfide dell’economia della cultura nel tempo della green economy, della sharing economy, il livello a cui riportare e valutare le riforme anche sul versante dei beni culturali, l’ambito entro il quale si ricompongono le innovazioni sociali e culturali e fanno tessuto comunitario, il laboratorio per costruire modelli di sviluppo e forme di convivenza, valorizzando il policentrismo del Paese”
Vale sempre la pena piantare un giardino da qualche parte della terra. Questo pensiero mi è tornato in mente dopo aver ascoltato e letto gli interventi legati al dibattito aperto per iniziativa di Mecenate 90 sulle colonne del Giornale delle Fondazioni in merito all’innovazione delle politiche culturali. In queste settimane in tanti hanno “sfogliato” il Giornale, hanno condiviso, apprezzato e partecipato al nostro dibattito, aggiungendo analisi, riflessioni, considerazioni, suggerimenti, nuove piante. Hanno arricchito il punto di vista di tutti. Era quello che volevamo. A questo risultato hanno contribuito l’autorevolezza delle argomentazioni riflessive degli autori che per questo ringrazio di cuore. Tutti hanno portato dentro il dibattito la loro esperienza professionale, il loro punto di vista, senza veli, senza remore. Per questo vale la pena considerare tutti i contributi un patrimonio a cui potremo attingere ancora nei prossimi mesi. Non giova riprenderli in questa sede, commentarli o richiamarli. Sarebbe come scalfirne il valore, il significato.
Ora dobbiamo individuare un approdo per i temi sollevati, trovando uno spazio perché possano essere verificati e piegati nel difficile compito di indicare una prospettiva per le politiche culturali in un Paese ed in un contesto internazionale che sembrano non avere punti fermi, schiacciati su un lungo presente che non ci lascia intravvedere scenari incoraggianti. L’approdo può essere un tema, una chiave di lettura dentro la quale ricomporre il quadro dei processi che possono generare cambiamenti veri e verificabili nel medio periodo.
Nella nostra discussione ho avanzato la proposta di organizzare un incontro pubblico entro l’anno sul ruolo delle città, in particolare quelle medie, con uno sguardo largo che arrivi alla dimensione europea. Questo è il tema che potrebbe aiutarci a sottoporre ad un vaglio approfondito e severo gran parte delle riflessioni che hanno contraddistinto il nostro dibattito. Ci troviamo nel bel mezzo di una situazione nella quale si va diffondendo una sorta di assuefazione generalizzata alla crisi, come se essa fosse ormai concepita senza fine. E tuttavia questa condizione non ci impedisce di cogliere un susseguirsi di cambiamenti di cui avvertiamo il valore, il significato e ne verifichiamo gli effetti nelle nostre vite quotidiane. In molti casi ne siamo persino i protagonisti. Forse nelle crisi che abbiamo conosciuto nel passato siamo riusciti a scorgere più facilmente le promesse di futuro, i cambiamenti reali che in qualche modo lasciavano prefigurare. In questo lungo presente, ci riusciamo meno. Eppure, se proviamo a guardare intorno a noi con occhi più attenti, non è difficile scorgere tracce di cambiamenti che non disegnano un futuro immediatamente intellegibile ma almeno i contorni, quelli sì. Il “luogo” da indagare è la città moderna con le sue innovazioni e le sue contraddizioni. Le trasformazioni di questi anni ci restituiscono un quadro complesso che ha messo a nudo un modello, un’idea di città che pure ha retto per molti decenni se non per secoli. Basta fare qualche esempio per trovare conferma. Nelle città italiane ci sono stati luoghi che hanno avuto funzioni persino lungo secoli. Le caserme, le piazze, gli edifici pubblici, le scuole, i musei, i teatri, i palazzi storici, le stazioni, le fabbriche, le case, l’edilizia popolare e persino i luoghi della socialità erano tutti ben identificati nelle loro funzioni e, in molti casi, riconoscibili per le loro architetture. Persino i rapporti fra città e campagna, fra centro e periferia avevano contorni definiti, verificabili. Oggi, in molti casi, in molte città, non è più cosi.
Ancora qualche esempio. Molte caserme sono state dismesse e si sono trasformate secondo nuove vocazioni urbane; le piazze storiche, luoghi di aggregazione e di vita comunitaria, in alcuni casi si sono svuotate di senso mentre ne sono nate altre sostanzialmente anonime; alcune fabbriche, soprattutto quelle inserite nel tessuto urbano, sono state dismesse e sono diventate sedi universitarie, grandi supermercati o luoghi di aggregazione sociale e culturale; i teatri si sono moltiplicati e in molti casi le attività si sono spostate in edifici dismessi, in scuole chiuse; molti palazzi storici sono alla ricerca di nuove funzioni d’uso o già trasformati in bed and breakfast di lusso; gli edifici pubblici si vanno progressivamente svuotando per razionalizzarne l’uso attraverso la realizzazione dei Federal Building promossi dall’Agenzia del Demanio; nascono musei e spazi culturali in luoghi non “convenzionali”; ci sono centri storici che si sono svuotati dei residenti perdendo funzioni ed identità; le cosiddette aree periurbane si sono popolate di esperienze di socialità come, ad esempio, gli orti urbani; persino le case cantoniere e i fari, così come le stazioni impresenziate, sono alla ricerca di nuove funzioni mentre in alcune città le darsene o i porti storici sono oggetto di profonde trasformazioni. Questi sono solo alcuni degli esempi che testimoniano le innovazioni urbane ma non ci danno ancora un quadro completo. Uno scenario in continuo e straordinario cambiamento sta costringendo le città ad aggiornare costantemente le proprie prospettive di sviluppo. Le policy consolidate negli anni della crescita sembrano inadeguate e presentano crepe vistose. Le città a cui ci riferiamo sono per lo più classificate come capoluoghi di provincia. Quindi sedi, un tempo, di centri e funzioni al servizio di un territorio di dimensione almeno provinciale.
Qui si annida un altro nodo. Il processo di semplificazione avviato dalle recenti leggi che portano i nomi dei Ministri Del Rio e Madia hanno portato, fra l’altro, all’abolizione delle Province, ad una nuova disciplina normativa delle aree metropolitane, alla riorganizzazione delle Prefetture ed hanno generato, con un effetto domino, l’autoriforma delle Camere di Commercio, un diverso modello organizzativo dei sindacati, di Confindustria e di tutte le associazioni di rappresentanza di interessi generali, con accorpamenti e chiusure di sedi. L’impatto di questi processi si è avuto soprattutto proprio sulle città capoluogo ed ha contribuito da un lato a impoverire i livelli di rappresentanza e dall’altra a ridisegnare la geografia dei poteri locali. Policentrismo e rappresentanza dei territori ne sono usciti indeboliti.
Le vocazioni delle città medie – il tema assume connotati diversi se si declina con le aree metropolitane – vanno ridefinendosi o comunque vanno ripensate. Esse possono avere un atteggiamento passivo o cercare di diventare laboratori originali e sperimentali, agendo sulle leve che anche i fattori esterni, apparentemente ostili, offrono sempre. Proprio in relazione a questo ultimo aspetto è utile aggiungere un altro tassello al mosaico. I processi a cui abbiamo sinteticamente fatto riferimento, soprattutto se visti dal lato delle dinamiche sociali, hanno generato nuovi protagonismi.
Molte delle trasformazioni urbane avvengono sotto l’impulso di associazioni, gruppi, cooperative, imprese, cittadini che si organizzano per innovare, sperimentare nuove pratiche sociali e culturali. Una analisi sommaria dei progetti presentati in occasione di bandi promossi da Fondazioni di origine bancaria, da Fondazioni private, dalla Fondazione con il Sud e persino da Ministeri ed enti pubblici riferiti al recupero e valorizzazione di spazi dismessi e abbandonati, confermano questi dati. Anche in questo caso si possono fare numerosi esempi e, dato piuttosto raro, essi si possono rintracciare in egual misura in ogni area del Paese, anche nelle aree metropolitane. Non serve richiamarli in questo contesto ma non c’è dubbio che rappresentano esperienze significative di cura delle città che hanno sedimentato un tessuto di cittadinanza attiva che in molti casi ha contribuito ad un cambiamento significativo delle policy locali. Aspetto questo tutt’altro che marginale perché ha indotto molte Amministrazioni locali a un ripensamento delle politiche urbane, uscendo dalla logica della ricerca del consenso a breve per misurarsi con una dimensione progettuale che prende forma nel tempo e non sempre si conclude con esiti positivi.
La democrazia della partecipazione ha generato quindi, in molti casi, policy territoriali o urbane in grado di affrontare al meglio le sfide. I processi partecipativi sono stati uno stimolo persino per le comunità svantaggiate perché hanno agevolato la valorizzazione del pieno potenziale delle risorse endogene e dei suoi abitanti. Se siamo ad una svolta è difficile dirlo ma, per ora, i buoni esempi non mancano. Le politiche di sviluppo locale, le politiche culturali devono quindi fare i conti con un contesto che abbiamo cercato di descrivere sinteticamente e che è in continua trasformazione.
Torno su quanto ho scritto all’inizio di questo articolo: una riflessione sulle città, in particolare su quelle medie, può essere una occasione per declinare le molte proposte che sono state fatte dentro un contesto in cui oggi si giocano alcuni dei fattori decisivi per lo sviluppo locale ispirato dalle politiche culturali. Non si tratta di coltivare una idea oppositiva fra centro e periferia, fra Stato ed Enti locali, fra pubblico e privato. Piuttosto bisogna promuovere ed alimentare una cultura del partenariato “multiattoriale e multilivello” capace di generare una cooperazione fra le istituzioni e fra queste e il largo mondo del privato, del privato sociale dove oggi si coltivano e prendono forma le innovazioni che generano politiche di sviluppo sostenibili, si ridisegna la partecipazione dei cittadini, si sperimentano politiche culturali e sociali con esiti misurabili nel medio periodo.
La dimensione urbana può quindi essere il terreno di coltura delle nuove sfide dell’economia della cultura nel tempo della green economy, della sharing economy, il livello a cui riportare e valutare il disegno riformatore ispirato dal Governo anche sul versante dei beni culturali, l’ambito entro il quale si ricompongono le innovazioni sociali e culturali e fanno tessuto comunitario, il laboratorio per costruire modelli di sviluppo e forme di convivenza, valorizzando il policentrismo del Paese.
In fondo sono appunto le città il luogo dell’innovazione delle metamorfosi. Forse è questo il contributo che possiamo dare per accompagnare i molti attori di questo processo a ritrovare nella riscoperta delle vocazioni delle città un terreno comune di lavoro, provando a fissare delle tappe, a costruire nuove reti, a far emergere nuovi protagonisti.
Le città dei prossimi decenni sono obbligatoriamente costrette a decidere l’intensità e la direzione del proprio protagonismo sulle scene regionali, nazionali ed internazionali, senza prescindere dal proprio passato e al tempo stesso consapevoli dei molti fattori e presupposti che determineranno il prossimo presente per la loro economia e le loro comunità. Le politiche culturali, l’economia della conoscenza, le industrie culturali e creative stanno dentro questi processi ma sono tutt’altro che scontate.
È finito il tempo dello sviluppo locale assistito, dei progetti che durano il tempo del finanziamento. Il territorio locale del futuro è esso stesso il propulsore dell’innovazione, è un potente motore di nuove economie circolari e condivise, è un efficace promotore culturale della nostra identità. Le rotte di navigazione sono quindi indispensabili. Per questo vale la pena provarci!
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