Un museo pronto a ripensarsi nel presente per incontrare i bisogni dei privati, cittadini e imprese.
Nata a Ivrea, Enrica Pagella, direttrice del Museo civico d’arte antica di Torino, Palazzo Madama, ha alle spalle «la giovinezza di un bambino Olivetti, che pensava a un mondo tutto moderno, rivolto al futuro, ottimista, pulito, efficace…». Figlia di un dipendente del grande Adriano, ha il retroterra di una comunità legata a un’impresa dove «cercare di migliorare, quindi di innovare» era un obiettivo sempre presente. Dopo la ristrutturazione del Museo Civico di Modena negli anni ’90, torna in Piemonte per occuparsi della riapertura del Museo di Palazzo Madama di Torino in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006. Da storica dell’arte medievale, Pagella si è costruita sul campo manager culturale. Ci offre uno sguardo sul ruolo dei musei, sulle difficoltà della macchina pubblica, sulla necessità di intraprendere la strada del «nomadismo culturale», cioè essere pronti a leggere e far emergere i bisogni dei privati.
Quale ruolo oggi riveste il museo?
Il museo ha attraversato molte stagioni. Dopo gli anni '60 e '70 in cui si è elaborata la funzione sociale del museo con sperimentazioni e approdi di estremo interesse e attualità, gli anni ’80 e ’90 ci hanno portato verso un'idea più superficiale del museo-spettacolo, in concorrenza con le mostre, un concetto che spesso ha tradito alcuni principi fondanti: la conoscenza (quella lenta e profonda), l'educazione, la partecipazione. Il nostro scopo, attraverso la ricerca, lo studio, il restauro, è consentire l’acquisizione di conoscenze specifiche, poco frequentate dal nostro sistema scolastico, e di favorire lo sviluppo di una sfera molto intuitiva dell'intelligenza, il piacere estetico. Il vedere viene prima della parola, ed è una componente essenziale dell’idea che ci costruiamo del mondo che ci circonda. Inoltre, il museo può avere un ruolo fondamentale anche nello sviluppo del senso di comunità, di appartenenza e di cittadinanza. Se manca questo, anche l’attività di ricerca e di conservazione perde le sue finalità ultime.
Una ragion d’essere sociale, così chiara e definita, agita e comunicata, può trovare sostenibilità anche in tempi complessi.
Nella misura in cui il museo viene sentito come necessario, come la soddisfazione di un bisogno che non sarà tra i primari, ma che è essenziale come è essenziale sapere, pensare e sognare. Bisogna trovare la misura che renda possibile il dialogo, che porti a realizzare iniziative per pubblici diversi, che non abbiano il solo e semplice scopo di far trascorrere tempo di qualità. Coniugare il rigore dell'approccio disciplinare con la mediazione sui bisogni non è sempre facile. Siamo passati da un modello di conoscenza autorevole a un modello di una conoscenza condivisa. Sappiamo ormai che il sapere del museo deve fare i conti con il sapere che si costruisce nella mente dei visitatori e che quindi gli approcci devono essere molteplici, almeno quante sono le loro intelligenze.
250mila visitatori nell’anno che celebra il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Un grande successo di pubblico. Da dove deriva?
Dall’aver fatto lo sforzo di considerare noi stessi come normali cittadini, mettendo le nostre competenze storiche e museali al servizio di problemi attuali. Un esempio. Attraverso l'esperienza di «Sarà l’Italia. La ricostruzione del primo Senato», abbiamo restituito ai visitatori l’emozione di un luogo scomparso da un secolo e riletto la storia dei dibattiti parlamentari in una chiave che ha molti punti di contatto con le nostre esperienze di oggi. L’aula è diventata un vero e proprio «forum»: si è parlato di democrazia, di Europa, di condizione femminile; si sono letti e commentati classici italiani e celebri orazioni politiche da Demostene a Obama, con una costante attenzione all’attualità e al senso civico. Un’operazione di grande impegno progettuale con i nostri partner scientifici, di dialogo con il pubblico, a costi realizzativi molto contenuti, che ha permesso il coinvolgimento di diverse fasce di cittadini, dalle creative di «Madama Knit», agli interpreti del «Circolo dei Lettori» alle migliaia di studenti che hanno sperimentato le regole della democrazia nell’esperienza «Senatori per un giorno», ai visitatori che hanno partecipato con entusiasmo a conferenze, dibattiti, spettacoli. Un laboratorio sociale e, per noi, una grande occasione di crescita. Ci sembra di aver incontrato i bisogni della comunità: un ritorno ai valori, un ripensamento della nostra democrazia, la ricerca delle ragioni delle conflittualità presenti, che abbiamo visto riverberata nelle conflittualità passate in modo appassionante: i dibattiti nel Senato della prima Italia sul traforo del Frejus, sul matrimonio civile, sulla scuola pubblica, sulla tassa patrimoniale, sulla guerra di Crimea, hanno ancora molti punti di ricaduta sulle discussioni di oggi.
Il pubblico viene rimesso al centro.
Dobbiamo venire incontro ai bisogni del pubblico, non quelli di superficie, non quelli che può soddisfare una certa tv, ma di conoscenza, di trasformazione, di futuro, di speranza e di felicità e costruire con le nostre competenze delle offerte che siano ben ibridate con la domanda. Il nostro lavoro, specie in questa crisi, deve essere una militanza. Nel 2008 abbiamo iniziato a studiare in maniera sistematica il nostro pubblico, sia autonomamente, sia con l'aiuto della Fondazione Fitzcarraldo e del Politecnico di Torino. Con le analisi di percorso abbiamo capito che ciò che a noi pareva chiaro, non lo era affatto. Dovevamo migliorare segnaletica e didascalie, per «far sentire a casa le persone»; poi abbiamo puntato su azioni di coinvolgimento dei giovani e delle donne, che sommati rappresentano all’incirca il 70% del pubblico del museo. Ci siamo aperti ai social network: siamo su Flickr, Twitter e Facebook.
Se il museo è percepito come un «patrimonio di famiglia da mantenere», recupera la propria funzione sociale e diventa partecipato, fa parte del progetto di territorio, può immaginare di essere sostenuto. Questo sarà il tema di un workshop che stiamo progettando per dicembre, per noi e le istituzioni culturali che aderiranno.
Dal 2003 Palazzo Madama, con gli altri musei ex-civici, fa parte della Fondazione Torino Musei, che comprende la GAM, il MAO, e il Borgo Medievale.
Con la costituzione della Fondazione abbiamo ricostruito organizzazione e organico, dando maggiore dinamismo alla gestione e opportunità di ingresso a giovani che hanno portato una nuova ondata di entusiasmo. Il primo anno dopo l’apertura, il 2007, è stato fantastico, ma con la crisi del 2008 Palazzo Madama ha perso il 35% del pubblico ed è iniziato un processo di ripensamento, che purtroppo ha coinciso anche con il progressivo accentramento della gestione delle risorse. Le difficoltà di erogazione da parte del primo ente fondatore, il Comune di Torino, hanno inevitabilmente creato incertezza nella programmazione e negli obiettivi, che si sono sempre più concentrati sul contenimento dei costi, con uno spostamento della responsabilità gestionale dai musei verso gli organi direttivi, ossia – per così dire – a margine dei processi produttivi. Credo che occorrerà fare, su questo, una riflessione molto approfondita. Abbiamo sì adottato un documento strategico pluriennale, ma la difficoltà sta nel fatto che lo studio e la ricerca, dentro il museo come altrove, richiedono investimenti di periodo medio-lungo, con chiare scansioni intermedie e focus sui risultati finali.
Quali leve alternative avete attivato per rispondere alla crisi?
Dal 2008 il museo ha ideato e sperimentato un nuovo programma di proposte a costo minimo, cercando nel contempo di sviluppare una rete di «collaborazione e sicurezza» intorno all’istituzione: con i servizi e le strutture del Comune – dai settori dell’edilizia pubblica, all’istruzione, a tempi e orari, con gruppi e associazioni di privati cittadini, come per esempio i «Lions Torino Regio», che per noi sono fundraiser; abbiamo progettato con il Teatro Regio, con Biennale Democrazia, con il Circolo dei Lettori e di recente abbiamo attivato un accordo con l’Università per varare un corso di Museologia, affidato allo staff di Palazzo Madama. Reputo sia fondamentale il confronto per continuare ad aggiornare e a far crescere le nostre competenze e realizzare sinergie per una comune progettualità, di qualità e incisività crescente, per la lettura delle complessità del nostro tempo.
E con i privati?
Fondamentale per noi è la Fondazione CRT, che ha accompagnato Palazzo Madama nel corso del lungo e critico processo di ristrutturazione, consentendo poi di sviluppare importanti progetti. Con la Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali di Torino, associazione di imprese, abbiamo realizzato mostre stupende come quella sulle ceramiche Lenci, che ha messo in valore una importantissima collezione privata e un frammento di storia della Torino industriale moderna. Il lavoro sul moderno attraverso le esposizioni – oltre a Lenci, la monografica su Roberto Sambonet e i gioielli fantasia della collezione di Patrizia Sandretto – sono state occasioni per riconsiderare il grande patrimonio di arti decorative in una luce più attuale, ma soprattutto per mettere al centro dell’azione del museo il collezionismo privato, con particolare attenzione a quello della nostra città. Queste collaborazioni alimentano nuove prospettive, molto stimolanti. Dobbiamo pensare anche all’attività di ricerca dentro il museo come un processo aperto, in continua evoluzione, capace di mettere a frutto gli stimoli che arrivano dall’esterno, rimanendo fedeli a un’etica di rigore metodologico, ma senza paura delle contaminazioni. Proprio quest’anno la Fondazione Torino Musei ha attivato il progetto «Comitato dei sostenitori» che consente ai privati di adottare uno dei musei o l’intera Fondazione. Le prime due aziende che hanno aderito, Banca Regionale Europea e Guido Gobino, leader nel settore del cioccolato artigianale, hanno scelto di sostenere Palazzo Madama, diventando Benefattori. Ma vorrei sottolineare è che la relazione con l’impresa è una grande opportunità per i musei, non solo e non tanto per il sostegno finanziario che ne deriva, ma soprattutto perché anche le attese e le aspettative dell’impresa sono fatte di sostanza sociale, e come tali aiutano il museo a capire e identificare le proprie strategie e il proprio ruolo. Ma sarebbe anche interessante pensare a un museo che, nel rispetto delle sue finalità e della sua missione, accompagna certe strategie di crescita delle imprese, per esempio nella penetrazione verso nuovi mercati. Bisognerebbe riflettere a come le collezioni «possano parlare» a nome delle imprese. Penso agli emirati arabi o alla Cina, e all’effetto che potrebbe fare l’ebanisteria dello straordinario Piffetti, con il suo messaggio di qualità, preziosità, estrosità. Il museo dovrebbe intercettare meglio la domanda. Non manca solo il denaro, ma anche i canali verso «pezzi di società» che sfuggono e che potrebbero agire da moltiplicatori.
dal X Rapporto Annuale Sponsorizzazioni del Giornale dell'Arte (novembre 2011)
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