Un fotografo che scrive, abitato dal furore
A 50 anni dalla pubblicazione del leggendario libro «Feste religiose in sicilia», una conversazione con Ferdinando Scianna, uno dei principali protagonisti della fotografia del nostro paese, associato alla storica agenzia Magnum Photos. Leonardo Sciascia definiva il suo stile «pirandelliano; con i suoi scatti fa diventare creatura un personaggio». Un racconto colmo di aneddoti e di passione, con un legame intimo e profondo con la sua Sicilia che traduce con una «scrittura» per immagini, con una capacità speciale di trovare un senso, una profondità nella superfice delle cose, per chiarificare l’inesprimibile. Talento
Riconoscenza. Vorrei iniziare con una parola che Lei usa spesso, che esprime un sentimento oggi desueto. La riconoscenza, in particolare, verso i Maestri, verso i suoi amici scrittori.
Parto dall’ignoranza. Incolmabile per definizione. Esserne consapevoli è un buon punto di partenza, se è la si accompagnata a un desiderio di conoscenza, di esperienza e alla passione per la qualità e quindi per le persone di qualità. L’importante è scegliere uno “scoglio giusto” per apprendere. Tutta la mia vita è una storia di Maestri, che mi hanno insegnato tutto; taluni mai incontrati direttamente, ma attraverso i libri. Alcuni, anzi i più importanti, sono diventati amici e quando la trasfusione di conoscenza avviene sul terreno dell'amicizia il legame è inscindibile. La mia è una storia di incontri e riguarda persone straordinarie.
Occorre avere l'intelligenza di leggere e far maturare gli incontri...
Ci sono delle zecche, dei pesci parassiti che più che Maestri, cercano mallevadori. Quando invece la sintonia intellettuale si sviluppa sul terreno dell’amicizia – relazione misteriosa molto più affascinante dell'amore- il discorso avviene alla pari, in modo disinteressato, con il solo desiderio dello scambio. Io ho avuto delle epifanie, veramente formidabili, con una grande gamma di amici. Ci sono quelli che colmano piccole buche di ignoranza, come il mio portinaio, che ha 84 anni e lavora da quando ne aveva 12. La sua è una specie di epopea proletaria. E non si lamenta mai. Ho recentemente pubblicato un libro "Visti&Scritti", con 350 ritratti, ciascuno accompagnato da un testo. Ci sono le persone del mio pantheon e incontri casuali, che nascono dal mio mestiere, altre che per la logica delle gerarchie non sono importanti, ma che fanno parte della mia vita. Alcune le ho sfiorate, altre le ho conosciute. Il mio portinaio chiude la rassegna.
Lei ha avuto Sciascia come angelo paterno, ma chi sono i suoi allievi?
Mi chiamano Maestro e ogni tanto d’istinto mi giro per vedere se dietro di me c'è qualcuno. Io sono un allievo professionale. Penso che il mio mestiere sia quello di cercare maestri, anche tra i fotografi. Dichiaro di essere il più influenzato e influenzabile dei fotografi, perché ho cercato di succhiare il latte da tutti quanti.
L’incontro con Sciascia, il mio angelo paterno. Ho celebrato i 50anni del mio primo libro «Feste religiose». Ho iniziato a fare foto per quel libro a 17 anni e l’ho pubblicato a 21, grazie all’incontro con Leonardo Sciascia che ne ha scritto la prefazione, lanciandolo. Sciascia ha avuto una influenza retroattiva. Volevo usare gli scatti per una tesi di antropologia, ma secondo lui nelle mie fotografie «non c'è un'istanza scientifica, c'è una passione per raccontare il mondo, la vita, le cose». Questo mi ha salvato. La fotografia è diventata un mestiere e ho imparato in seguito le regole, anche grazie a quel libro/passaporto che mi ha portato a Milano, dove sono stato assunto all'Europeo. Oggi, a 70 anni, penso che sia difficile mettersi nella testa e nei panni di un ragazzo. L'unica cosa che però so con certezza è che ero abitato da grande passione, ma dentro un abisso di ignoranza, trasversale, orizzontale, verticale...
Nel senso proprio etimologico, cioè dalla non conoscenza della vita...
Un po' a causa del contesto storico—sociale di Bagheria, in Sicilia, dove vivevo nei primi anni '60. La cultura, la lettura erano funzionali ad un riscatto di carattere sociale e venivano ostacolati. Nella mia casa c'erano solo due libri. Se leggevo un testo non scolastico venivo rimproverato. Era considerata una perdita di tempo. Ho scoperto nel tempo che la lettura è uno dei grandi piaceri della vita. Il primo libro di fotografie l’ho visto a 20 anni, a casa di Sciascia. Mi è stato detto che avevo uno spirito bressoniano, ma non conoscevo Henri Cartier-Bresson. Avevo visto solo qualche sua fotografia. Quindi, da dove mi veniva l’istinto? Difficile dirlo. Eppure quelle fotografie, lo vedo adesso che me ne intendo, erano buone, pur non avendo strutture grammaticali e sintattiche rigorose.
Talento?
Questa è una domanda che mi pongo. Esiste il talento, ma non è un merito. E’ come nascere con gli occhi azzurri, col naso all’in su. Ho lavorato molto con le modelle. La bellezza aiuta nella vita, ma è come trovare uno Stradivari in soffitta: non fa di te un violinista, devi imparare a suonarlo, devi coltivare il tuo talento che saranno poi gli altri a riconoscere.
Come è stato riconosciuto il suo?
Nel 1982 i fratelli Fabbri pubblicarono una serie di fascicoli "I grandi fotografi", nella quale venni inserito. nomina numina, qualcuno cominciò a chiamarmi il "grande fotografo siciliano". “Grande”, un abuso linguistico, che riguarda la società, non ciò che si fa. Cos'è grande? Ci sono però accadimenti che rendono responsabili nei confronti del proprio talento e a poco a poco si possono accumulare esperienze che, se corrispondono ad uno standard di qualità, creano rispetto e ammirazione. Nella mia officina ho fatto anche lavori mediocri, ma molti buoni, alcuni straordinari, grazie a molta tenacia. Il mio magistero nei confronti dei giovani riguarda la comunicazione di un'esperienza, di un metodo.
Il talento, come lei diceva, va coltivato. In Puglia non c'è il gene dei tennisti. Penso che avere avuto due giovani donne di questa nostra terra ai vertici nello Slam Usa sia il risultato di determinazione e metodo.
E fortuna. Mia madre aveva un fratello. Quando finì la scuola media mio nonno le consentì di proseguire gli studi, sebbene fosse la più vivace. Una canzone popolare in Sicilia dice «S’è masculiddu, lu mannu a la scola, s’è fimminedda cosetta mi fa», cioè la donna resta in casa e fa la calza. Il suo destino, quasi ontologicamente, era quello di essere sposata. Mio zio si è laureato in giurisprudenza, ma non ha mai fatto l'avvocato. Mia madre è stata messa da parte per quello che avrebbe potuto essere un destino diverso. Il contesto non lo contemplava. Ma sopno riconoscente a mio zio. Alla sua laurea mio nonno gli regalò una collezione di libri russi che lui non ha mai aperto, ma dei quali mi sono nutrito: Oblomov di Goncarov, Anna Karenina, Guerra e pace. Quindi ci vuole anche molta fortuna. Io l’ho avuta. E non è modestia.
La fortuna va letta e intercettata, con apertura e curiosità.
Sì, ci sono degli autobus che passano e li prendi. Altri non li prendono.
L'uomo chiave della mia vita è stato sicuramente Leonardo Sciascia. Una volta, a Parigi trovai un libro di André Gide, molto singolare, che poi ho scoperto essere un'autointervista pubblicata durante la guerra. L’immaginario intervistatore gli chiedeva «di cosa si sta occupando adesso?». Gide rispose «in questo momento mi preoccupa molto la progressiva scomparsa del congiuntivo dalla lingua francese». La replica «Ma c'è la guerra, ci sono grandi problemi e lei si occupa del congiuntivo?” Gide “Non è senza nesso, perché le guerre si fanno solo con l'indicativo. Il congiuntivo implica un dubbio, un può essere, un potrebbe». Sciascia era rimasto interessatissimo da questo argomento e non lo conosceva il libro. Leggeva continuamente e si irritava se qualche cosa gli era sfuggito. Parlava solo di libri, li connetteva. La sua visione del mondo passava attraverso la letteratura, ma non consigliava mai testi. Coglievo i suoi collegamenti e andavo in libreria. Questa è la trasfusione di cui le parlavo, che avviene per osmosi. Gesualdo Bufalino diceva “Se i nostri politici, i nostri dirigenti, leggessero più libri sarebbe meno violento il mondo.” Può darsi, ma le fotografie di Mao Tse Tung dentro la sua biblioteca sono impressionanti. Aveva letto moltissimo, ma questo non gli ha impedito di essere un terribile dittatore, oltre che un grande politico.
Però confermo che i libri sono importanti e per la classe dirigente dovrebbero essere fondamentali. Chi non legge, secondo me, ci mette nei guai.
Tra i miei ritratti ho un pescatore che era poco meno che analfabeta, ma era un uomo di straordinaria probità morale. Nella propria vita, nella sua prassi, la mattina andava a polpi, la sera andava a totani, e parlavamo. «Don Ferdinando, vossia che ha studiato, io vado a mare, la sera spunta la luna, prima è piccola, poi diventa grande, poi è piena, poi va scomparendo e mi chiedo che cosa significa?». Mi rispondo che parlava come Pascal, parlava come Leopardi. Non c'era arrivato attraverso i libri, ma attraverso un'esperienza umana, che gli poteva produrre stupore e senso dell'infinito.
Quindi, i libri sono importantissimi, ma non ci sono solo i libri; ci vuole un territorio dentro al quale poi quei libri fruttificano. Io senza i libri non esisterei. Le classi dirigenti hanno il dovere, per qualunque sia il loro lavoro e qualunque sia la missione che immaginano, di conoscere i pensieri, le ipotesi, le cose che gli uomini hanno prodotto nei millenni e quelle sono depositate nei libri. Se non leggono le cose vanno male perché è difficile invertire la marcia.
Lei si è definito fotografo. Lo so che si schermirà, ma io preferisco definirla un Artista e intellettuale, che usa il linguaggio della fotografia. Non la vorrei circoscrivere ad una categoria. Dalla mia esplorazione e da questa conversazione emerge un narratore, attraverso immagini e parole, con il gusto dell’affabulazione, fluidità espressiva...
Mi piace raccontare. Lei usa la parola Artista. Io tratto il termine con grande circospezione. La definizione Artista oggi è diventata difficile da circoscrivere. Che cos'è un'Artista? Fino agli inizi del '900 c'era una certa idea: da Aristotele in poi è un trasformatore del proprio rapporto col mondo attraverso opere che hanno una pregnanza di carattere immaginativo ed estetico. Duchamp, decontestualizzando l’oggetto e posizionandolo in museo, si chiede e ci chiede cos'è un'opera d'arte. Quando è al museo è un'opera d'arte?
E’ difficile definire cosa sia un'opera d'arte. La fotografia è nata negli atelier degli scienziati, in un contesto positivista con lo sviluppo della società industriale. Cezanne poteva dipingere la mela a memoria, io no. Se non c'è la mela, non posso fare la foto. Quindi io sono un lettore: è il mondo che scrive se stesso con una penna di luce. E’ artistico questo? Chiamano artistiche una quantità di pratiche di cui io non comprendo neppure la relazione con l'idea di arte. Ma non mi importano le etichette. Hanno un sapore di promozione. Mi basta fotografo. Narratore lo prendo, in termini letterali, di racconto del mondo. La fotografia è uno strumento di narrazione e di memoria e questo io credo di farlo in modo decente.
Ieri sfogliando Corriere ho visto una sua immagine di una donna affascinante, a Roma, in un caffè, attenta a leggere. Sotto un profilo formale, estetico, ma anche di contenuto narrativo, quel lavoro, quello scatto generativo, quell'istante colto ritorna alla memoria, continua a lavorare.
Era una fotografia di moda. Un settore in cui la mia esperienza è nata per caso. Gli stilisti Dolce e Gabbana mi hanno cercato quando avevo da poco lasciato l'Europeo ed ero freelance. Sono siciliani, pensavano di aver visto i miei scatti da una cliente. Scoprimmo in seguito che erano di un altro. Vede la fortuna! Per il loro catalogo non volevano un fotografo di moda. I cataloghi sono diventati due e con il loro successo hanno cambiato la mia vita. Per otto anni ho lavorato quasi esclusivamente per quel settore. Come dice Borges «i sentieri della vita si biforcano continuamente». Ho fatto moda da reporter, immergendola nella vita. Ho vissuto questa esperienza con felicità colpevole. La mia tavola delle leggi bressoniana ha un comandamento: la fotografia è un istante sottratto e il fotografo non deve modificare la realtà del mondo, non deve metterlo in posa.
Foto seducenti. Il concetto di seduzione, il condurre a sé, è presente dagli esordi della sua carriera.
È vero. Fotografavo le mie compagne di scuola. La loro bellezza le appagava e mi appagava. Era un modo di entrare in relazione con altri. Un desiderio fortissimo che era fame di mondo. Oggi praticamente non faccio quasi più foto.
Perché?
Per una ragione principale. Le mie fotografie nascono da una esperienza fisica. Al mio arrivo a a Milano mi dissero che «le foto si fanno con i piedi». E avevano ragione. Camminare e guardare. E cogliere. Oggi posso camminare meno.
Cos'è oggi per lei la fotografia?
Martin Parr fa il sociologo visivo. Sebastiao Salgado mette in scena una visione da antropologo. Non mi pare che la fotografia sia più vista e praticata con quell'istanza che l’ha fatta apparire nel panorama culturale europeo, di ponte tra noi e il mondo, tra noi e la realtà. C'era bisogno di realtà. La fotografia rispose a questa esigenza. Come ho detto nasceva la società scientifica, in un certo senso, nasceva la società industriale. Poi diventò esplorazione. I libri di botanica erano realizzati da bravissimi disegnatori. Fiori magnifici. Quando è nata la fotografia l'esigenza era produrre immagini che fossero inoppugnabilmente reali. Ma il fiore rappresentato non è più tale. E’ la sua immagine. Quando Magritte afferma che «questa non è una pipa» ha ragione, non la si può fumare. L’immagine di una pipa ha uno statuto totalmente diverso da un dipinto di una pipa, perché testimonia dell'esistenza di quella pipa. È la ragione per cui abbiamo in tasca un documento che chiamiamo di identità, perché ci portiamo dietro la foto del cane della nostra infanzia, della fidanzata.
C'è qualche cosa di tremendo, addirittura di drammatico, come dice Roland Barthes [La Camera Chiara], nella fotografia. C'è lo strazio di essere un istante di vita. Uno dei suoi libri meravigliosi nasce dal lutto: muore la madre, lui cerca una sua foto e nel cercarla fa una teoria della fotografia; la trova in un'immagine che non ci fa vedere, la foto di sua madre bambina, a 5 anni, in un jardin d’hiver. Cioè, sua madre era sua madre ancora prima di diventare sua madre. Questo fa la fotografia.
Oggi, nell’alluvione della modernità, in un mondo compulsivo nella produzione di immagini, nella rappresentazione di sé nel mondo, come si sta trasformando per lei l'identità? Quale il ruolo dell’Arte?
Milan Kundera nel suo romanzo «L'immortalità» dice «come si può parlare di ritratto, se in una qualsiasi rivista troviamo duecento facce?». È difficile realizzare una goccia in una pioggia scrosciante. In realtà l'approccio è con la goccia, non con la pioggia.
Le cito un esempio del '49 di Marshall Mc Luhan, che sembra una barzelletta, ma che, secondo me, marca in modo straordinario l passaggio teorico alla società in cui stiamo vivendo. «Una signora incontra un'amica che ha avuto una bambino. Guardandolo esclama, «che bello, è meraviglioso». La madre risponde ««Questo è niente, non l'hai visto in fotografia». L’importanza non è la cosa, ma la sua immagine. Questa è la fotografia che oggi si pratica. Non importa che abbia una relazione con la realtà.
Continuamente ci facciamo foto e facciamo delle foto del mondo, che poi sostituiamo con altre, poi con altre e paradossalmente uno dei monumenti della storia della fotografia, l'album di famiglia, non c'è più. Ci sono migliaia e migliaia di scatti che non scandiscono più la nostra avventura umana.
E questo vale anche per altre fotografie: quella concettuale e quella estetica, destinata ad andare al muro. Il più delle volte le fotografie sono scelte e collezionate in base alla loro istanza decorativa, quindi come se fossero pittura. Secondo me guardare una fotografia come se fosse pittura è un grande equivoco. Qualunque opera d'arte è un tentativo di risposta, che implica una certa idea del mondo; estetica, morale, etica. Ma è anche una domanda.
In un basilica bizantina i suoi mosaici erano un gande fumetto che raccontava la storia della bibbia e quindi la cultura alta, quella dei sacerdoti, quella dei principi, comunicava in modo trasversale. Oggi ho la sensazione che l’Arte, quella che si definisce tale, crei separatezza. Gli artisti creano per gli artisti, gli scrittori scrivono per gli scrittori. Il pubblico è ricettore di un contesto culturale nel quale non è implicato. Questo crea una terrificante divaricazione. E’ un peccato perché l’Arte ha un valore di rilievo nell’interrogazione su quello che ha senso e su ciò che non ne ha.
Lei si è occupato a lungo di comunicazione come giornalista. Onnivoro. Politica, economia, spettacolo. Quindi società.
Ho fatto il giornalista, non specializzato. La vita nella sua varietà mi ha sempre molto appassionato, come le persone che la incarnano. Il giornalismo è stata una grande scuola, anche artigianale. Lavoravo in un settimanale in tema con i giornalisti con i quali facevamo i reportage. In quella situazione storica il fotografo guadagnava un quinto dei colleghi giornalisti. L’esperienza però è stata straordinaria. Andavamo ad incontrare una persona, a conoscere un fatto e vedevamo le stesse cose. Io le coglievo per immagini. Leggevo con molta avidità gli articoli che traducevano l’esperienza in un testo, in racconto attraverso la selezione dei fatti. E’ ciò che fa il fotografo, ma la scrittura è una pratica ancora più complessa. Quando mi sono trovato a scrivere, ad intervistare, sapevo come prepararmi, cosa leggere, quali domande fare. Un lavoro duro. Se si intervista il Presidente della Banca di Francia, il tuo interlocutore deve chiederti se sei un economista. Devi cercare di capire il mondo che devi raccontare.
La scrittura giornalistica non ha nulla a che vedere con quella letteraria. I miei migliori amici sono stati tutti scrittori. Da Gesualdo Bufalino a Leonardo Sciascia, a Milan Kundera, a Vázquez Montalbán. Io ho sempre un tremore davanti alla letteratura. Negli ultimi anni però, complice la difficoltà di camminare, ho tentato di fare dei libri in cui tento una letteratura ibrida, contaminata, in cui costruisco dei racconti con le foto e con i testi. Avendo rallentato il fare fotografia, scrivere mi salva la vita.
Dopo tutta questa osservazione del mondo, se lei dovesse scegliere uno scatto che parli di lei, quale consegnerebbe al futuro.
Questa è una domanda che mi fanno spesso alla quale rispondo con un esempio. Immagina una donna che ha avuto cinque figli e tu le chiedi quale sia il figlio che preferisce, non lo dirà mai. Probabilmente c'è. Ognuno di noi ha preferenze. Il gesto della fotografia è molto semplice. Si schiaccia un bottone e il 99% delle fotografie è brutto, ma può arrivare una buona immagine. Il nostro rapporto con le fotografie cambia nel tempo. Ho fatto dei libri antologici - anche se io dico che ho sempre cercato di fare dei libri con le foto, non libri di foto -, ma se dovessi scegliere le 100 immagini sei mesi dopo, sono sicuro che una parte cambierebbe, perché nel frattempo cambia la mia sensibilità estetica, la mia relazione con la mia memoria. Nei primi tempi si tende a privilegiare le fotografie che sono piaciute agli altri, perché è appagante o le fotografie che ricordano l'istante emotivo in cui sono nate, che spesso non corrisponde alla qualità dell'immagine.
Poi emerge ciò che di speciale tu hai visto nelle cose, così speciale che non era visto da altri.
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Per chi ha tempo per un sorriso intelligente.
Le racconto una storiella che mi ha raccontato un mio carissimo amico scrittore messicano, che purtroppo è scomparso l'anno scorso: “c'era un grande collezionista di pappagalli al quale segnalano un negozio a Londra con i pappagalli più rari e gli esemplari più straordinari dell'ornitologia. Il collezionista si reca a Londra e, di fronte alla vetrina rimane folgorato da un pappagallo molto raro, tra i più chiacchierini. Entra e chiede il prezzo. Il venditore afferma che si tratta di un esemplare fantastico che costa 10.000 sterline. Non ho mai sentito un prezzo così per un pappagallo. Il venditore replica questo uccello ha convissuto con un grande ingegnere inglese; se lei gli porta il disegno di un ponte, il pappagallo fa il calcolo del cemento armato. Mai sentito nulla di simile, ma non mi interessa il cemento armato. Gira nel negozio e ne vede un altro, altrettanto stupefacente per la sua rarità. Questo è più bravo. Vengono da tutta Europa i filosofi per parlare con lui perché è un grande esperto di Wittgenstein Incredibile! E quanto costa? 15.000 sterline. Il collezionista, molto frustrato perché la richiesta è superiore ai suoi mezzi, continua ad aggirarsi nel negozio. Ne vede un altro. Lei è fantastico, non mi dica che questo costa ancora più caro! In realtà sì, costa di più. Perché, qual è la sua specialità? Cosa dice? A dire la verità non gli ho mai sentito dire niente. E allora perché lei lo valuta così tanto? Sa, gli altri due lo chiamano maestro.”
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