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Un Colpo al Cuore. Nel cuore dell’innovazione e della sua rivoluzione

  • Pubblicato il: 04/03/2018 - 10:57
Rubrica: 
DOVE OSA L'INNOVAZIONE
Articolo a cura di: 
Salvatore Iaconesi su Medium.com

Pochi giorni fa ho avuto una insufficienza cardiaca da ipertensione.
L’ho usata per mettere ordine nella mia vita e in quella di mia moglie, Oriana, con cui lavoro e vivo da 11 anni.
Facendolo, sono emerse delle cose importanti.
Se volete, prendetevi 15 minuti, e rimanete con noi.

Salvatore Iaconesi su Medium.com


Cosa

Io e Oriana siamo Artisti. E abbiamo anche un centro di ricerca. E anche un network internazionale transdisciplinare. E insegniamo all’università. E teniamo conferenze scientifiche. E facciamo incontri sull’innovazione culturale e tecnologica in tutto il mondo. E facciamo progetti: europei, regionali, rurali, cittadini, per grandi e piccini. E ci occupiamo di Intelligenza Artificiale. E di Innovazione Sociale. E della connessione tra Scienze, Tecnologie ed Arti, a livello Europeo. E ci occupiamo di Dati come concetto culturale. E abbiamo appena avviato un centro di Arte+Dati. E… E… E…
Sono tante cose. Tutte insieme. E l’altro giorno mi è preso uno scompenso cardiaco.
Non siamo i soli a fare tutte queste cose tutte insieme. Tanti (troppi) di noi, si trovano a fare tante, troppe, cose insieme, simultaneamente.
Tutto questo avviene nel bel mezzo del cambiamento del lavoro, di cosa voglia dire lavoro, della trasformazione totale di cosa, come, quanto, quando si lavora e con chi.
Nel bel mezzo della accesissima discussione globale sul futuro del lavoro, tra precarietà, robot, intelligenze artificiali, algoritmi, piattaforme, e del tempo libero che non sappiamo più che cosa sia.
Avviene nel cuore dell’evoluzione culturale che vede l’intera nostra giornata trasformarsi in una sequenza di attività ibride, sospese in una zona indeterminata tra lavoro, tempo libero, passione, e cos’altro.
Avviene al centro della trasformazione in cui sono pochissimi i lavori che, da soli, bastano a vivere in maniera decente, per cui devi farne 10 insieme, a tutte le ore del giorno e della notte, mentre scrivi anche 1 libro, 2 pubblicazioni, prepari 3 bandi europei, organizzi un festival e vai in giro per l’Italia, clima e salute permettendo, a cercare progetti, sponsorizzazioni e nuove relazioni.
I sistemi che utilizziamo per relazionarci con gli altri, per interconnetterci e scambiare comunicazioni, informazione e saperi, non ci aiutano molto in questo senso.
Siamo al centro di un attacco alla nostra attenzione e al nostro tempo, che utilizza tutti i meccanismi del nostro desiderio e tutti i nostri bias cognitivi (che originano dalla sovrabbondanza di informazione, dall’insufficienza di significato, dalla necessità di agire in fretta, e dai limiti della nostra memoria) per tirarci e spingerci in mille direzioni contemporaneamente, tra notifiche, bolle relazionali, messaggi istantanei e percezioni di perdita, mancanza, missing out.

Continuamente accessi.

“Sleeping is for losers” dice Jonathan Cary in “24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep”: sempre più spesso si dorme poco e ci si vanta di dormire poco. Gli esseri umani assomigliano sempre di più ai robot, alle macchine.
Mentre finisce il sonno termina anche il sogno, rimpiazzato dal dato, dalla visualizzazione di informazioni.
L’avvento del 24/7 rende plausibile, addirittura normale, l’idea di lavorare senza pausa, senza limiti.
Ce lo mostrano Luc Boltanski e Eve Chiapello quando ci indicano tutte le forze e i meccanismi che innalzano nell’immaginario sociale la figura delle persone che costantemente interagiscono, si interfacciano, si coinvolgono, comunicano, rispondono ed elaborano, prese/perse in qualche elemento telematico.
In “Shouldn’t you be working?” Silvio Lorusso descrive come l’erosione del confine tra lavoro e tempo libero non sia qualcosa di nuovo. Ma indica anche che qualcosa è cambiato: oggi quantifichiamo e qualifichiamo il nostro tempo libero usando le stesse logiche e gli stessi strumenti del lavoro.
Quando questo accade, la distinzione tra lavoro e tempo libero diviene problematica. Quando produco (dati) anche mentre dormo, misurato dal mio dispositivo indossabile, oppure attraverso la quantificazione gli impatti della comunicazione che ho generato da sveglio sulle piattaforme digitali, posso dire che sto lavorando? Sembrerebbe di sì, e lo conferma la crescita dei disturbi del sonno in cui le persone si svegliano in mezzo alla notte per controllare i propri messaggi e le interazioni digitali.
Teresa Brennan ha forgiato il termine della bioderegulation per descrivere il divario brutale che intercorre tra l’operatività nel tempo dei mercati liberisti e le limitazioni fisiche intrinseche degli esseri umani che si trovano necessariamente obbligati a conformarsi alle loro richieste.
Ed è proprio qui che si posizionano filosofi morali (patici) come Aldo Masullo:

“Il limite dell’intelligenza artificiale è la sua incapacità di soffrire.”

Tecnologia umanizzata? Sì, ma perché è l’essere umano a diventare progressivamente più simile alle macchine. Le nostre emozioni, relazioni, sessualità, lavori e intrattenimenti diventano sempre più mediati dall’algoritmo, abituandoci ai nuovi modelli della relazione, in cui sono la responsabilità, la fiducia e la “pericolosità” della relazione ad essere governati dalla macchina. Una vita via via meno “avventurosa”, imprevista, “magica”, con meno -patìa, e composta da montaggi e composizioni di esperienze determinate da intelligenze non biologiche.
In questo spostamento, il nostro patire — la nostra capacità di soffrire e la sensibilità che ne deriva — diventa sempre meno rilevante, sempre più fuori scena.

La carne e il sangue.

Forse, invece, sono proprio il nostro corpo e la sua capacità di soffrire e ammalarsi che ci possono mostrare la via.
Ed è per questo che anche un piccolo infarto può essere l’inizio di una grande rivoluzione.

Una piccola vicenda, un grande effetto.

Sono le 11 di sera, la fine di una lunghissima giornata. Mentre iniziamo a vedere un film, sento un vuoto, in mezzo al petto. Il battito cardiaco mi sembra accelerare, in una progressione senza sosta. Sento le braccia, il torso, il collo e la faccia che formicolano. Mani e piedi freddi, poi caldi, poi freddissimi. Il vuoto cresce, mi sento profondamente a disagio, in maniera continuata, con dei picchi. Oriana è pallidissima: spettri del passato tornano. Quasi svengo, e mi riprendo. Chiediamo aiuto ad un amico qui vicino. Siamo in un attimo all’ospedale. Il pronto soccorso è sempre affollato. Oriana dice qualcosa. Codice rosso. Mi fanno passare. Esami. Una iniezione. Una pasticca. Una flebo. Dopo la puntura va subito molto meglio. Ricomincio a sentire le estremità, la faccia, il petto. Il vuoto va via.
Mi portano in una camera più tranquilla e mi dicono che devo stare sotto osservazione. La crisi è passata. È quasi mattina. Oriana va a casa a fare delle cose (annullare una trasferta, comunicare ai soci, disdire delle cose). Io, finalmente, dormo.
Uscendo, nel freddo di una Roma ancora coperta di neve, con la luce del sole e del bianco che riflette, io e Oriana ci guardiamo negli occhi e già sappiamo cosa stiamo per fare.
È stato un anno difficile, un semestre complicato, una settimana dura, una giornata assurda. Abbiamo vissuto tensioni, litigi, agitazioni. Perché nell’avviare il nostro centro di ricerca abbiamo messo troppe cose sul fuoco.
In un certo senso siamo stati costretti ad avviare troppe cose.
L’Italia dell’innovazione è spietata. Non c’è alcuna solidarietà. Sono pochissimi quelli che concepiscono il costruire, insieme. Troppi si avventano sui pochi ossi a disposizione, sbranando, sgomitando, mostrando le fauci. Le fauci che prendono una strana forma.
“Il muro del sì” lo chiama il nostro amico Luca Sossella. “È bellissimo quello che state facendo.” “Bravissimi!” “Ma che cosa eccezionale!” Una serie di “Sì!”,infinita. E poi non succede niente.
In questo scenario l’unica soluzione apparente sembra essere quella di tentare di avviare tante, troppe iniziative. Tentarne 20, così che almeno 1 funzioni. Parlare con tutti, proporre, immaginare, progettare, fare gli sketch, i diagrammi, i cronoprogrammi.
E, per sopravvivere mentre si capisce cosa funzionerà e cosa no, si prendono lavori, insegnamenti, progetti mal pagati, perché poi potranno diventare qualcosa di meglio.
Questo causa squilibri, nervosismi, senso di insoddisfazione.
È la crudeltà e della “cultura del fallimento”. Devi fallire. Questo dice l’innovazione. Il fallimento è il modo in cui impari, in cui diventi migliore.
E invece non è vero. Il fallimento è il modo in cui soffri, ti stanchi, ti intristisci, e con cui ti abitui ad accontentarti progressivamente sempre di meno cose, di meno ricchezza, di meno benessere, di meno bellezza.
Come arrivare ad una cultura “della bellezza”“del significato”“del benessere”“della fratellanza umana”“della meraviglia”, da quella “del fallimento” e“della competizione”?
Abbiamo deciso che era necessario un cambio radicale.
Lo abbiamo fatto a modo nostro, a partire dal nostro ecosistema di relazioni e dagli strumenti di ricerca e progetto di cui negli ani ci siamo dotati per osservare la realtà.

Agopuntura Digitale
Abbiamo un centro di ricerca. Si occupa di relazioni. Tratta i dati come artefatto culturale, per attivare processi di accelerazione culturale.
A noi serviva proprio questo, un processo di accelerazione culturale, per far cambiare la situazione, in noi ed attorno a noi.
Come cura e terapia insieme, abbiamo iniziato a progettarlo.
Nel corso degli anni abbiamo creato una metodologia, che si chiama Agopuntura Digitale. Si tratta di raccogliere dati e informazioni per descrivere un ecosistema relazionale, di studiarne i flussi e gli scambi di comunicazione, interazione, informazione, conoscenza ed emozione, per comprenderne il funzionamento dinamico, le direzioni, i significati, il senso.
Questa comprensione (che è dinamica e non statica nel tempo, nello spazio e nei contesti) si utilizza per progettare degli interventi, come farebbe un agopuntore: conoscere come funziona (e come non funziona) il network di relazioni permette di capire come realizzare degli interventi puntuali così da stimolare flussi di comunicazione, interazione, relazione e di scambio di conoscenze e saperi, in modo da attivare dinamiche di trasformazione.
È una sorta di seduta psicologica per ecosistemi: si può applicare a organizzazioni, reti di sensori, quartieri, città, territori, aziende, istituzioni.
In questo caso noi l’abbiamo applicato a noi stessi. È quello che ci serviva per comprendere il senso dello scenario in cui ci troviamo, e per capire come agire sul e con il sistema per stare meglio, individualmente e con gli altri.
Abbiamo avviato una Cura un po’ particolare, come abbiamo imparato a fare dal passato.

Il Senso delle cose

Come si fa ad affrontare il cuore di questa situazione?
Abbiamo provato a farlo iniziando a comprendere lo scenario. “It takes two to know one”, ricordava Gregory Bateson, alludendo al ruolo fondamentale delle relazioni: non posso nemmeno conoscere me stesso se non capisco di essere immerso nelle mie relazioni. Per questo motivo abbiamo cominciato da lì: dal nostro ecosistema relazionale.
Abbiamo cominciato dal disegnarlo. Prima su carta. Poi, quando abbiamo visto che la cosa iniziava a diventare complessa, abbiamo iniziato ad usare un software (in questo caso abbiamo utilizzato Gephi).

 

L’Ecosistema Relazionale di HER e HERSLD, al livello delle organizzazioni.

Per riservatezza, qui non mostreremo i nomi dei soggetti che compaiono nel nostro ecosistema. Nel grafico non mostreremo le etichette dei soggetti (a parte le nostre). Inoltre, qui ragioneremo sul livello delle organizzazioni.Abbiamo cominciato a partire da HER e HER: She Loves Data, il nuovo polo di Arte e Dati stiamo iniziando a lanciare.
Il Grafo

Nota: di questa cosa ne abbiamo fatto anche una versione personale. Qui non la toccheremo. Nel continuo spostarsi tra il pubblico e il privato tipico della rete, abbiamo deciso di tenere per noi la versione personale di questa operazione.
Ogni pallino del grafico rappresenta una organizzazione e le connessioni tra organizzazioni sono rappresentate dalle linee, e rappresentano relazioni progettuali. Le palline gialle esistono già, quelle rosse sono quelle che vorremmo attivare.
Già costruire, disegnare e vedere l’ecosistema relazionale nel suo insieme ha i suoi effetti benefici. È come osservarsi dall’esterno, cercando di capire come sono fatte le nostre relazioni, come si inseriscono in un quadro più ampio e come descrivono processi, rapporti, evoluzioni temporali.
Nel descrivere i nodi di queste relazioni, i soggetti, li abbiamo caratterizzati in maniera molto semplice, elencandone il nome, descrivendo con una spunta se sono relazioni in essere o che vorremmo che si avverassero, con una data, a indicare quando siamo entrati in contatto con loro e altre semplici caratteristiche (dal Data Laboratory di Gephi, abbiamo fatto “Add Column” per inserire ciascuna di queste caratteristiche, per poi riempirne in campi).
In questo modo, semplicemente applicando dei filtri, diventa possibile analizzare le relazioni in molti differenti. (per esempio: abbiamo creato una piccola animazione che descrive le relazioni nel loro manifestarsi nel tempo; cosa possiamo imparare capendo quali soggetti si sono relazionati con noi per più tempo?)
Già facendo questo primo esercizio ci siamo dovuti porre diverse domande fondamentali. Con chi stringiamo relazioni? Con che ruolo? Dove ci vogliamo fermare nel descrivere le relazioni che viviamo? Fa parte del mio ecosistema relazionale quel manager che ho incontrato ieri e con cui ci siamo ripromessi di fare tante cose? O quella professionista che conosco, che sta in quella organizzazione X, con cui non ho fatto mai nulla, ma con cui ci salutiamo con tanto interesse quando ci incontriamo? E così via.
Questo ci obbliga a chiederci che senso abbia questo esercizio, e a cosa serva. Perché potremmo farlo in maniera esistenziale, o per migliorare la nostra capacità a stringere relazioni d’affari, oppure per trovare una fidanzata, o per fare fundraising, e per tanti altri motivi differenti. Ognuno dei quali corrisponderebbe a delle risposte differenti alla stessa domanda: chi includo nel mio ecosistema relazionale?
In questa occasione noi abbiamo deciso che il discriminante sarebbe stato il senso: quali relazioni generano maggior senso nell’ambito di ciò che immaginiamo come nostro benessere e come impatto costruttivo che vogliamo avere nel mondo nei prossimi 10 anni?
Porsi una domanda apparentemente così ampia come questa genera sconvolgimenti profondi. Chi, tra le persone e le organizzazioni che ci circondano, passa questo filtro? Con chi vale la pena di investire tempo e risorse se il fine è il nostro benessere e la costruzione del mondo come lo immaginiamo? Sono pochissimi, sia tra le relazioni già esistenti che tra quelle possibili.
Esercizio simile lo abbiamo fatto con le connessioni. Fino ad adesso avevamo posizionato i nodi di questo network relazionale: adesso era il momento di interconnetterli. Quali sono le progettualità che sono in grado di generare senso nell’ambito di quello che immaginiamo come nostro benessere e come nostro impatto costruttivo nel nel mondo nei prossimi 10 anni? Quali soggetti coinvolgono?
Anche qui, sia tra i progetti già in essere, sia tra quelli che vorremmo avviare, una domanda ampia come questa apre delle considerazioni enormi, tanto che sono pochissimi i progetti che passano questo filtro.
Qui si è aperta la prima grande riflessione: la maggior parte delle cose che facciamo non ha nulla a che vedere con i nostri reali obiettivi. Che nel nostro caso sono il riuscire a passare del tempo insieme, facendo cose importanti, che permettano a noi e alle persone di godere di ampie libertà di espressione, di condividere saperi e punti di vista, di non subire violenze di alcun tipo, di poter essere autonomi, di avere esperienza della bellezza e della gioia, di poter contare su qualcuno, di potersi prendere cura delle persone.
Se li inquadriamo in questo (o in un altro) modo, capire come un certo progetto o processo c’entri con questi obiettivi può non essere immediato . Ogni elemento deve essere analizzato, interiorizzato, per quello che è: una azione nel mondo, con degli effetti su luoghi, cose e persone e che, per questo, spinge in delle direzioni precise, direttamente (per esempio attraverso le attività del progetto) e indirettamente (per esempio attraverso gli effetti delle relazioni che stringi facendo il progetto, molti dei quali sono inconoscibili a priori).
Nel formare questi grafi relazionali abbiamo cominciato prima dal disporre le cose così, in maniera emergente, come ci venivano in mente. Una sorta di brainstorming che abbiamo rivisto e riconfigurato più volte. Poi, riflettendo in questi modi, come stiamo facendo insieme, abbiamo ristretto di molto, eliminato elementi, lasciando solo i pochi che si vedono nelle immagini.

Psicologia Computazionale

 



A questo punto abbiamo deciso di usare alcuni strumenti analitici. Ad esempio, per studiare la nostra rete relazionale abbiamo iniziato ad utilizzare gli strumenti della network analysis. Per esempio studiando i pesi dei nodi e dei link, le densità di interconnessioni, le centralità dei nodi, la betweenness (ovvero la capacità di certi nodi di essere dei ponti, e di interconnettere gli altri).
Da ognuno di questi elementi abbiamo compreso

  • la nostra importanza per gli altri e l’importanza degli altri per noi,
  • quali strade (e quali tipi di strade) intraprendere e quali abbandonare,
  • che forme di interconnessione cercare e quali evitare, e, soprattutto,
  • cosa ci manca, cosa abbiamo già, e cosa abbiamo già ma che non serve ad arrivare a dove vogliamo andare.

Agendo così sulle analisi della rete relazionale, abbiamo potuto mettere in atto una azione di psicologia computazionale.

Scopo

Ci siamo chiesti, a questo punto, come intervenire.
Come si interviene per ristabilire il senso? Cosa posso fare, ora?
Questa è una questione delicata, in quanto ogni intervento potrebbe corrispondere a possibili rinunce a fare progetti, a frequentare persone e organizzazioni, ad andare in certi luoghi. Oppure a tentare di avviare certi altri progetti, o a stabilire nuove relazioni. E per quanto riguarda le cose già in essere? Come si fa? Si telefona e si dice “scusa, guarda, ho analizzato il mio ecosistema relazionale e non fai parte dei nodi che generano senso”?
L’idea del cambio radicale è allettante. Ma viviamo in un mondo fatto di persone, con emozioni, aspettative e contratti, e recidere radicalmente un rapporto potrebbe addirittura causare danni psicologici, economici, responsabilità, malessere e altro.
Oltretutto, l’idea dell’esodo è sempre ingenua. La libertà coincide solo di rado con il non avere obbligazioni. Più spesso coincide col potersi muovere autonomamente nel mondo, perché si è in grado di prendersi cura e responsabilità di sé stessi e delle persone e delle situazioni cui si tiene.
Per queste ragioni abbiamo pensato a come attuare delle transizioni: da come è ora a come vogliamo che sia.

Abbiamo utilizzato un foglio di calcolo per descrivere un calendario. Abbiamo iniziato a ragionare su 2 anni.

 



Abbiamo posizionato sul calendario gli elementi che erano rimasti nel nostro ecosistema relazionale, e quelli che ne erano stati eliminati.
Per farlo, abbiamo miscelato le dimensioni dell’informalità e dell’analisi. Abbiamo stilato una lista di priorità, a partire dagli elementi che sembravano essere più importanti. Abbiamo poi assegnato un peso a nodi e connessioni nel nostro grafo e abbiamo iniziato da quelli con maggior centrality — e che, quindi, sono in grado di posizionarsi in maniera più centrale nel nostro grafo relazionale, portando impatti costruttivi ai soggetti principali — e betweenness — e, quindi, capaci di toccare più comunità — . E, poi, via via, gli altri, dai più importanti ai meno importanti.
Da qui in poi ha iniziato ad essere tutto molto chiaro, fino ad arrivare a trasformare iterativamente il tutto in un programma di cose da fare, molto pratiche, per provare ad arrivare dove volevamo andare, prendendoci cura del nostro corpo, della nostra gioia e felicità, delle persone cui vogliamo bene, e indossando per primi i valori e le aspirazioni che abbiamo e che vorremmo portare nel mondo.

Abbiamo un piano

Ritorniamo all’inizio.
Il mio cuore si è ribellato. Ora va tutto bene.
Però.
Però abbiamo cominciato a pensare alla situazione in cui tutti ci siamo ficcati: al tempo e alle relazioni, alla nostra carne e sangue.
Cambierà qualcosa. Probabilmente faremo meno cose, ma più importanti. Cosa vuol dire? Non vuol dire la stessa cosa per tutti. Quello che vuol dire per noi lo vedrete nei prossimi giorni, settimane, mesi, anni.
Nella metodologia dell’Agopuntura Digitale ci sono delle fasi:

  • sensing
  • commoning
  • public experience
  • education
  • innovation

Il sensing è la fase della consapevolezza e della costruzione dell’ecosistema relazionale, e della sua osservazione dinamica, capendone i flussi, gli scambi, le direzioni, i significati.
Il commoning è il momento in cui si rendono disponibili i “dati” di questa esperienza. In questo caso avviene con questo articolo, così che tutti ne possano usufruire, nell’ottica della creazione di rapporti ad alta qualità.
Da questo articolo parte anche il resto della storia, a cominciare dalla public experience: è importante mettere queste esperienze al centro dello spazio pubblico, per poter avviare riflessioni e azioni che non siano isolate.
Oggi come mai, per cercare, trovare e costruire senso occorrono narrative pubbliche, ritualità di nuovo tipo, dimensioni magiche e poetiche attorno a cui riunirsi e immaginare, danzare, muoversi.
La logica del bisogno, e del servizio che lo soddisfa è largamente insufficiente.Necessaria, ma non sufficiente. Serve la logica (o la il-logica) del desiderio, dell’aspirazione, della visione. Per coltivarla servono linguaggi differenti, nuove estetiche, nuovi rituali.
Tutto ciò ci potrebbe portare a riconsiderare cosa possa essere una public experience, e anche aiutarci a riconsiderare la fase successiva, quella dell’education: dell’istruzione e della conoscenza.
Nell’ottica della transizione, del passaggio verso la consapevolezza dell’insufficienza della logica del bisogno/servizio, e verso la necessità dell’immaginario, della bellezza e della meraviglia, ci potremmo accorgere anche della necessità di nuovi modelli e contesti per l’istruzione, nella dimensione pubblica. Istruzione a tutti i livelli, ubiqua, da pari a pari.
Non più solo concentrata sulle necessità del lavoro, ma che punti all’arricchimento dell’essere umano, alla poesia, all’arte, alla storia, alla filosofia, alle scienze sociali, alle culture del mondo, alla studio della contemporaneità delle nostre metropoli e delle nostre campagne, fatte di composizioni di miriadi di culture differenti, da osservare e di cui cogliere il valore e la bellezza. Scuole ubique: come possono una festa, un mercato, un parco o addirittura un edificio scolastico diventare il luogo dell’apprendimento? Servono nuovi riti, nuove immaginazioni, nuove concezioni del tempo, dello spazio, del corpo e delle relazioni, che possono arrivare nel mondo solo attraverso l’arte e il design.
Alla fine, tutto converge sul cambiamento, sull’innovazione. Più che una fine è un nuovo inizio, in un mondo trasformato.
Tutto questo lo possiamo fare usando tante cose differenti: dai big data alle piccole cose che ci diciamo quando stiamo male, perché il mondo non va come vorremmo.
È importante non sentirsi soli, nell’affrontare questo tipo di percorso. Non siamo mai soli, e il primo passo consiste proprio nel rendersene conto e nell’attivare le dinamiche dell’interconnessione, chiedendo — pretendendo — di fare le cose insieme.
Noi, qui, avanziamo di un passo in questa direzione. Non vi meravigliate troppo se prenderemo direzioni differenti nei prossimi mesi, e se vi diremo e chiederemo certe cose. Saremo molto trasparenti.
E faremo solo cose importanti (e, soprattutto, ridefiniremo cosa vuol dire “importante”). Speriamo che voi facciate lo stesso.

https://medium.com/@xdxd_vs_xdxd/un-colpo-al-cuore-87fabf1be014