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Un altro welfare è possibile. Diamo uno statuto politico al fundraising

  • Pubblicato il: 24/06/2013 - 17:15
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Massimo Coen Cagli
Massimo Coen Cagli

Fino ad oggi il fundraising è stato inteso per lo più come correttivo dell’economia pubblica e del mercato, laddove questi sistemi non erano in grado di coprire tutte le esigenze di benessere di una comunità garantendo equità. Una sorta di tappabuchi solidaristico e generoso. Oggi il quadro è radicalmente cambiato: ad essere in gioco è la sostenibilità di tutto il sistema di welfare e il fundraising è chiamato a dire la propria su come possa essere sostenibile a partire da nuovi presupposti. Ossia se sia possibile pensare ad un sistema non solo basato sul prelievo fiscale ma anche se non soprattutto su scambi volontari e investimenti sociali. Molti fenomeni e fatti si muovono in tal senso: dalla mobilitazione dei genitori nelle scuole per garantire qualità, a casi analoghi nelle biblioteche, a grandi imprenditori che intendono investire parte del profitto in servizi sociali, a organizzazioni non profit che intendono dare in modo nuovo tradizionali servizi sanitari, a forme di impresa non profit e low profit nel campo delle energie alternative e dei rifiuti, ecc. È possibile passare da alcune esperienze episodiche ad un vero e proprio nuovo sistema di sostenibilità del welfare? La questione porta con sé, necessariamente, anche un diverso ruolo degli attori in campo: le aziende, le fondazioni,  gli individui e le loro organizzazioni sociali e chiaramente il non profit in tutte le sue forme. Soggetti sociali che da semplici portatori di risorse intendono essere sempre più attori protagonisti di una nuova politica partecipativa del welfare. È possibile creare un nuovo patto di azione comune tra questi attori sociali? Ed è possibile che il fundraising da semplice scambio filantropico tra non profit e soggetti privati diventi un comune investimento strategico?
Riportiamo l’opinione di Massimo Coen Cagli, direttore scientifico della Scuola di Fundrasing di Roma espressa al lancio  della nuova piattaforma di confronto sul tema di cui è promotore,  che ripercorre, uscendo dalla lamentatio, la genesi e i gli elementi chiave dello scenario per individuare i nodi da sciogliere per ripartire.

***

L’esigenza che la Scuola di Roma Fund-raising.it (www.scuolafundraising.it) ha avvertito è quella di dare al fundraising uno statuto politico, scientifico e culturale più alto, che sia in grado di sostenere le sfide che la comunità nazionale  sta affrontando lungo la strada del progresso e dello sviluppo. La preoccupazione che ci muove, in questa fase storica, è che il «chiedere e il donare sold» volontariamente venga relegato ad una pratica residuale, sempre più priva di senso e soprattutto ininfluente rispetto alla risoluzione dei problemi che affrontiamo ogni giorno.
Non intendiamo in nessun modo realizzare un’iniziativa che si risolva nella mera rivendicazione di maggiore attenzione degli interlocutori al mondo non profit. Non faremo tutto ciò per dire semplicemente che serve una migliore agevolazione fiscale, un maggiore riconoscimento del nostro ruolo, un migliore sistema dei pagamenti di quanto dovuto. E’ stato già fatto da altri e rifarlo di nuovo potrebbe portarci ad un isterico piagnisteo. Al contrario vorremmo fare questo dialogo con uno spirito spiccatamente critico e autocritico, per sapere cosa dobbiamo cambiare all’interno del nostro mondo e in quello dei nostri interlocutori.
Ecco perché abbiamo scelto di dare vita ad un «pensatoio», ossia un posto dove dialogare attorno ad alcune domande chiave. Avendo in mente un percorso che ci possa portare a risposte e indicazioni utili per la operatività, ma con la consapevolezza che la comprensione profonda di quello che sta accadendo, la condivisione di informazioni e punti di vista  differenti è condizione essenziale per trovare risposte strategiche.
Certo un percorso non si può fare se non si ha una mappa di riferimento in cui siano chiari i punti di partenza e, almeno immaginato, quello di arrivo.
Il punto di partenza è quello di una profonda crisi economica, sociale, culturale e politica che sta attraversando il nostro mondo sia nella dimensione globale che in quella locale e individuale. Una crisi che mette in seria discussione il welfare nella sua più ampia di benessere comune che produca impatti positivi nella sfera collettiva come in quella individuale.
In questa idea di welfare sono comprese anche tutte quelle cause sociali che non producono benefici diretti ai fruitori del welfare quali la cooperazione allo sviluppo, le grandi battaglie per l’affermazione di diritti umani essenziali in un sistema di benessere avanzato di cui la comunità si è sempre fatta portatrice.  Sicuramente un’idea di welfare che non sia residuale, ossia rivolto solo a lenire le sofferenze dei soggetti più bisognosi, ma a soddisfare il sacrosanto diritto di felicità, serenità, progresso e benessere – appunto – degli esseri umani nel contesto della loro comunità.

Questo è un welfare in crisi anche perché, al di là delle sue differenti concezioni politiche, appare comunque insostenibile da un punto di vista delle risorse economiche e umane necessarie a renderlo effettivo. Il quadro della crisi economica è evidente a tutti ma vale la pena ricordare alcuni dati significativi

Spesa statale per il Welfare in Italia 2007 -> 2012 = - 75%
Fondo per le Politiche Sociali = -92%
Fondo per la non autosufficienza = -100%
Fondo per le Politiche della Famiglia = - 84%
Fondo per le Politiche Giovanili = - 91%
Spese comunali per il Welfare in Italia 2007 -> 2012 = - 6,8%

Per rispondere alla mancanza di servizi gli italiani ricorrono a risorse interne alle famiglie con spese direttamente e indirettamente economiche
(⅓ non arriva a fine mese; ½ ha qualche difficoltà)
In un quadro di minore reddito familiare e di un loro minore potere di acquisto (-39,7% in 10 anni) e di aumento di prezzi (+ 53,7% in 10 anni)

L’Italia resta comunque uno dei paesi con maggiore spesa per il Welfare in percentuale sul totale della spesa pubblica e pro capite per ciascun cittadino, ma su 1 euro investito in welfare, il cittadino riceve meno di 50 cent. in servizi.

Il fundraising, fino ad oggi chiamato ad occuparsi dell’economia di aree particolari dei bisogni sociali e individuali, percepisce una sua possibile marginalità rispetto al grande problema di sostenibilità del welfare in generale. In questo punto di partenza, almeno per alcuni di noi, c’è proprio la sensazione di una inadeguatezza, ancora prima che professionale e tecnica, di natura strategica, riguardante il ruolo che il fundraising può svolgere – se vuole svolgerlo – per contribuire alla risoluzione di questo grande problema.
In assenza di un punto di vista, di una strategia e di una riposta a tale problema, temiamo che la crisi economica spazzi via anche il fundraising, ossia il sistema principale di sostenibilità del mondo non profit. E questo rappresenterebbe un rischio sociale di portata incalcolabile.

Il punto di arrivo per noi dirigenti e operatori del terzo settore è proprio la risposta a questa domanda e quindi la definizione di un fundraising (e di un non profit) più strategico, più forte, in grado di contribuire in modo sostanziale alla ri-creazione di un nuovo welfare.

Tra questi due punti si collocano una serie di questioni che vogliamo porre all’attenzione di questo «pensatoio».

A - Il punto di partenza: una crisi complessa e «sistemica»
La crisi che sta attraversando il welfare è sicuramente di natura economica. Ma non vi è dubbio che tale crisi fa emergere altri aspetti e caratteri critici che forse ci trasciniamo da tempo e che oggi vanno affrontati in una ottica integrata.
Essa è una crisi sociale che per molti versi prescinde dagli aspetti economici, caratterizzata da fenomeni quali: l’aumento dell’insicurezza sociale e della persona; l’emergere di nuove aree di rischio sociale (abitazione, lavoro, servizi alle persone e alle famiglie, opportunità di inserimento sociale dei giovani, nuova povertà, ecc.) e lo scarso controllo sociale sulla disponibilità di risorse chiave (energia, acqua, territorio, ecc.). Tutti fenomeni che impattano in modo gravoso sull’area del welfare e che fanno prospettare più che ad una diminuzione delle risorse da destinare ad esso, ad un aumento.
Crisi politica che è oggetto di osservazione e studio ormai da molti anni e che, tra l’altro, riguarda non solo la leadership politica e amministrativa alla quale è destinata la responsabilità di progettazione e di gestione del welfare, ma anche la concezione del welfare stesso. Un crisi che almeno in parte riguarda anche la leadership del non profit, che ha perso nel tempo una autonoma capacità di pensare e soprattutto costruire il welfare abbassandosi, talvolta,  ad un mero livello di fornitura di servizi con forme di collateralismo al mondo della politica.

Ascriviamo a tale crisi anche una incapacità ad elaborare, a differenza di quello che succede in altri paesi europei, una vera politica del non profit e della sua economia che sia strategica per lo sviluppo del paese concentrandosi esclusivamente  su questioni di agevolazione e defiscalizzazione di determinate categorie di soggetti. Solo così si può spiegare l’assenza di una pur minima idea circa le politiche di investimento che siano almeno analoghe a quelle che vengono praticate per il settore imprenditoriale profit e di politiche di empowerment di un settore che è cruciale proprio per la sopravvivenza del welfare.

Da un lato si invoca la azione e la presenza del non profit e del volontariato, dall’altro lato non si ha una politica per sostenerne lo sviluppo. E’ questo uno dei grandi paradossi dei nostri giorni. Non possiamo non citare a tale proposito che ci sono voluti pochi giorni per dare vita ad una proposta di legge sul finanziamento privato dei partiti che prevede detraibilità fino al 52% e fino al tetto di 5.000 euro per i contributi ai partiti (che poi sono delle non profit!) mentre da anni si aspetta una revisione della fiscalità sulle donazioni al non profit che resta al 24% e fino ad un tetto massimo di 2.065 euro.

C’è da domandarsi cosa sia più utile, oggi,  per il welfare, se aiutare a finanziare la politica (questa politica) o liberare risorse affinché il non profit risponda meglio ai bisogni della comunità. La risposta appare scontata. Ricordando, tra l’altro, che il settore del non profit è l’unico che cresce, sia in termini di posti di lavoro, sia in termini di produzione di servizi, sia in termini di azione sociale senza scopo di lucro.

Questo esempio ci permette anche di sottolineare che su  tutto ciò pesa anche la grande crisi di fiducia verso i «governanti», le istituzioni (incluse quelle sociali) e i rappresentanti politici da parte della comunità, tenendo conto proprio del fatto che i sistemi di welfare in cui si impone un criterio sommo di equità e giustizia  e di pari opportunità di accesso ai servizi per tutti – ricchi e meno ricchi - sono possibili solo in presenza di una fiducia sociale tra i differenti attori e beneficiari del welfare.

Crisi della cultura della donazione e del filantropismo. Non si può non tenere conto che, alla luce della crisi economica, la stessa cultura della donazione viene messa in discussione. Anche in questo caso non per forza si tratta di una crisi di segno negativo. I fenomeni sono senza dubbio quelli della flessione delle donazioni seppure non generalizzata, del calo delle entità di donazione, un drastico calo dei finanziamenti privati  (aziende e fondazioni). Ma ad essere messi in discussione sono anche alcuni pilastri della cultura del fund raising che pongono la donazione in stretta connessione con concetti che appaiono desueti quali:
- il concetto di restituzione di parte della ricchezza alla società,
- la  creazione della reputazione sociale,
- la produzione di autostima;
- la necessità di sedare un senso di colpa individuale e collettivo;
- l’adesione a mode e comportamenti consensualmente condivisi;
- l’esperienza degli individui di sensazioni ed emozioni piacevoli (questo di scuola prettamente anglosassone);
- una marcia in più per la promozione di prodotti e marchi,
- un valore morale di per sé e che nobilita l’individuo
e molti altri ancora.

Sicuramente la crisi economica ha messo in evidenza che non vi è una stretta connessione tra ricchezza e generosità. Altrimenti in questi tempi vi sarebbe stato il crollo totale delle donazioni. Peraltro in paesi dove si fa seria ricerca sul fundraising si è dimostrato che negli ultimi 30-40 anni ai periodi di recessione economica non corrisponde mai automaticamente un periodo di calo delle donazioni.

In quanto disciplina che – almeno nelle grandi organizzazioni - sempre più si affida a strumenti di marketing in grado di spingere gli scambi anche in tempi di ristrettezze, il fundraising subisce di riflesso la crisi di alcuni pilatri del marketing che sono già stati dichiarati “traballanti” da parte del mondo delle imprese profit (dove sono stati in qualche modo costruiti e utilizzati) ma la cui debolezza è stata scarsamente percepita dal mondo non profit. Il lavoro di analisi sociologica di  G.P. Fabris con il suo «Societing» aiuta non poco a scorgere gli effetti di questa crisi sulle strategie attuali di raccolta. Secondo Fabris pilastri quali: il concetto di reddito, di mercato, di asimmetria informativa, di stratificazione del consumo in classi sociali, di produzione e consumo di massa, di passività del consumatore, ecc. sono stati completamente sconvolti dagli ultimi 20 anni di evoluzione sociale e culturale degli individui.

Tutto ciò rende quella che noi chiamiamo comunemente crisi economica, una crisi sistemica che in quanto tale tende a respingere risposte di tipo settoriale e di dettaglio e che quindi va affrontata con un approccio sistemico.

E il sistema che maggiormente viene messo in discussione dalla crisi è proprio il sistema di welfare state, incapace ormai di far fronte ai bisogni della comunità (non solo quelli nuovi ma anche quelli di base) per ragioni non solo di penuria di risorse economiche ma anche per mancanza di competenze, conoscenze e soggetti in grado di pensarlo, governarlo e animarlo.

Il non profit è pezzo integrante e forse costitutivo del welfare. Anche se spesso si è legato a quella parte del welfare che riguarda i più bisognosi, gli sfortunati, gli esclusi senza occuparsi del cittadino comune, della comunità nel suo complesso, come ebbe a notare tempo fa il Presidente di Fondazione con il Sud, Borgomeo in un suo felicissimo intervento durante il XII Happening della solidarietà organizzato dal consorzio siciliano di cooperative sociali Solco.

Il futuro del welfare, anche quello della sua sostenibilità economica, non può che dipendere anche dal non profit e dalla sua potenziale capacità di rappresentare i bisogni, di organizzare le risposte, di mobilitare la società e di gestire in modo efficace le risorse del welfare.

B - Le questioni da affrontare lungo il tragitto

1 – Può e vuole il fundraising essere una forma di economia del welfare o vuole restare solo un insieme di  tecniche per sostenere progetti e organizzazioni sociali?

Non vi è dubbio che la crisi economica del welfare porta con sé un enorme aumento della domanda di fundraising. Laddove il sistema fiscale e il libero mercato sono assolutamente impotenti a trovare una soluzione alla sostenibilità del welfare, tutti si rivolgono al fundraising come fosse un magico strumento per risolvere i problemi.

Da 4-5 anni a questa parte amministratori, politici, intellettuali, studiosi, oltre chiaramente alle organizzazioni non profit, si rivolgono alla comunità chiedendo uno sforzo particolare nel finanziare ciò che non appare altrimenti finanziabile. Di per sé non ci sarebbe niente di male. Ma cosa stanno offrendo in cambio di questa richiesta?

Al di là dell’impegno profuso da ogni organizzazione nel perseguimento della propria causa sociale sul quale non c’è da discutere (certo c’è chi lo fa meglio e chi lo fa meno bene, ma non è questo il problema) le raccolte fondi sembrano troppo concentrate sulla risposta ad un bisogno di cassa e assolutamente avulse da un quadro strategico che renda tale apporto di risorse risolutivo almeno in parte della crisi che stiamo attraversando.

E questo a nostro avviso provoca un senso di stanchezza e disamoramento verso la donazione e il finanziamento delle cause sociali seppure in modo molto diversificato  per ambito tematico, natura delle organizzazioni e tipologia di interlocutori finanziari.

I fatti che fanno ipotizzare questo senso di stanchezza, per citarne solo alcuni, sono:

- la richiesta di fondi per il mantenimento dello «status quo» piuttosto che per lo sviluppo (senza i tuoi soldi non possiamo fare più…. «approvvigionare di carta igienica le scuole», «tenere aperti i musei», «garantire posti letto o pasti caldi per le persone bisognose»,  «mettere benzina nelle auto della polizia»,  «pagare le bollette della luce e del telefono della nostra sede», ecc…;
- l’abuso scriteriato di alcune modalità di raccolta fondi quali l’sms solidale, la figura retorica dell’Adozione a Distanza (che in verità è uno strumento di aiuto e non uno strumento di marketing!), le partite del cuore, le cene di gala, la lettera di raccolta fondi, il telephon appeal, gli spot televisivi, tutti uguali, tutti con la stessa retorica, tutti densi di senso di colpa, spettacolarizzazione, ecc…
- la intolleranza verso mezzi aggressivi di promozione delle raccolte fondi, soprattutto attraverso i dialogatori e  il loro portato incontrollato di sottolavoro, insicurezza che hanno fatto perdere il genuino ruolo del volontariato (come tutte le tecniche, quello dei dialogatori, non è né buono né cattivo. C’è da interrogarsi sull’uso che se ne fa e sugli effetti che esso produce al  di là del risultato economico);
- un abuso della «brandizzazione» delle organizzazioni che, per quanto necessaria da un punto di vista tecnico della comunicazione promozionale, assurge spesso a strategia identitaria. Prova ne è la scelta a monte di usare parole chiave che aprono «prospettive di mercato» come Child, Smile, Life, Heart, Peace ecc.. che spesso fanno apparire le cause sociali come automobili e profumi che per nobilitare il messaggio usano suoni anglofoni (suoni, sì, visto che i più non ne conoscono il significato) ammiccando alla importanza della forma a scapito del contenuto;
- la ricerca spasmodica di buone scuse e trucchetti che portino a donare, quasi che la donazione fosse un qualcosa di negativo e spiacevole che va edulcorato attraverso la percezione di un piacere, di un vantaggio o di un benefits. Come nel caso del 5 per 1000: un milione di appelli uguali: «a te non costa nulla a noi serve molto»;
- l’idea che la donazione sostituisca l’azione sociale. Ossia che un individuo o una azienda, donando, possano non occuparsi di problemi sociali grazie al fatto che facendolo a favore di una organizzazione  (tendenzialmente buona, capace, e altruista) si solleva dalla necessità di attivarsi in prima persona;
- un uso del fund raising da parte delle pubbliche amministrazioni come ««supplemento di tassa». Come nel caso dei contributi volontari chiesti dalle scuole (che di recente è stata passata da alcune scuole come una donazione «obbligatoria»), o dalla quotizzazione di alcuni servizi indispensabili senza neanche garantire la qualità degli stessi; o l’ingerenza di interi settori della pubblica amministrazione, come nel caso del 5 per 1000 per i beni culturali destinato al Ministero (una sorta di concorrenza sleale al limite dell’intervento dell’antitrust). Per poi magari vedere i propri soldi trasformati nei crolli di Pompei…;
- la scarsa capacità di rendicontare quello che succede con i soldi donati, non tanto e non solo da un punto di vista dell’efficienza nella gestione delle risorse (che produce al massimo un bilancio certificato), ma anche e soprattutto rispetto alla efficacia, ossia alla capacità di raggiungere gli obiettivi, e dell’impatto, ossa della capacità di produrre cambiamenti irreversibili (che invece produrrebbe il vero bilancio di missione);
- la grande presenza di «cause ed organizzazioni fotocopia», che fanno le stesse cose, con le stesse modalità, spesso negli stessi territori senza la capacità e la volontà di fare sistema, fenomeno che viene percepito come indice di scarsa efficacia globale del sistema non profit;
- uno sfruttamento strumentale delle emergenze in quanto motore naturale della compassione e della solidarietà. Quando c’è una emergenza si scopre che tutte le organizzazioni sono impegnate nella sua risoluzione o nel paese colpito già da prima del manifestarsi dell’emergenza stessa. E’ una cosa che è poco credibile e palesemente strumentale. In diversi casi si ha quasi l’interesse a creare la percezione di un’emergenza in quanto funzionale ad attrarre nuovi donatori e nuove donazioni. Scordandosi che il nostro pubblico ha una capacità di conoscenza della realtà e di accesso alle informazioni che lo difende da questa pericolosa forma di asimmetria informativa;
- la costituzione di organizzazioni senza mission, che nascono solo con una idea di un mercato da occupare, come nel caso di una certa cooperazione sociale fatta solo per accaparrare finanziamento pubblico, senza avere una visione e una missione sociale (questa tendenza ha contribuito a impoverire il patto sociale originario tra le cooperative sociali e la comunità di riferimento) o organizzazioni che a prescindere da tutto scelgono di occuparsi di bambini perché questi «tirano sul mercato» o infine compagini nate per profitto che si danno una veste non profit per ragioni fiscali.  Non parliamo di operazioni truffaldine o illegittime ma di scelte strumentali che non aiutano a capire quale sia la diversità in senso positivo del non profit.

Non possiamo, infine,  non nasconderci il fatto che l’opinione pubblica corrente sul fund raising e sul non profit, nonostante rimanga mediamente migliore rispetto a quella registrata dalla politica, dal mondo della finanza, dall’amministrazione, dal giornalismo, ecc…, sia leggermente peggiorata  rispetto a qualche anno fa. Testimonianza ne è lo sviluppo di una letteratura e di una informazione negativa sul non profit e il fundraising che per quanto scriteriata e largamente infondata (non basata su dati oggettivi generalizzabili) viaggia sull’onda di un senso di crescete di sfiducia sulla capacità del non profit di fare la differenza.

Al di là di scelte strumentali quali quelle della Furlanetto (autrice del pessimo “L’Industria della Carità” edito non a caso in una serie di libri che punta il suo successo sulla esistenza di qualche “…-ntopoli”) o di alcuni giornalisti e intellettuali che per motivi diversi e a volte per l’adesione a vecchie ideologie stataliste o liberistiche non vedono di buon occhio il non profit, è il caso che noi del non profit ci interroghiamo se non vi siano ragioni più sostanziali che portino a questo mutamento di opinione. Mutamento di opinione che può avere effetti nefasti sul fundraising che a tutti gli effetti, essendo un mercato, è legato alla fiducia, alla soddisfazione di bisogni in senso lato e alla presenza di una offerta interessante.

In tutta sincerità, la mia paura è che una buona parte dei donatori che non donano più o donano molto meno non lo facciano per la crisi economica ma per le ragioni che ho appena riportato. Io calcolo questa popolazione di donatori scontenti in circa ¼ della intera popolazione donante.

In questo contesto di forte domanda di fundraising ma anche di parziale suo indebolimento, il mondo del fundraising e quindi soprattutto del non profit deve scegliere se rimanere nell’ambito di una nicchia economica legata alla risoluzione parziale di alcuni problemi insieme a segmenti specifici di donatori tradizionali, oppure occuparsi di contribuire alla risoluzione della sostenibilità di tutto il sistema interagendo con la comunità nel suo complesso e ri-pattuendo con essa il ruolo del loro contributo anche e soprattutto in termini di donazioni e finanziamenti.

Ho avuto modo di esprimere questa mia idea di ricreare un patto coni donatori durante l’incontro avuto con le Fondazioni nel quadro del recente Festival del fundraising riscontrando dai dirigenti delle fondazioni una grande sintonia. E questo mi fa ben pensare che sia questa la strada da percorrere prima ancora di chiedere i soldi.

In poche parole la domanda di fondo per giungere al termine del nostro tragitto è: il fundraising è un fatto accessorio e quindi ininfluente rispetto ai grandi problemi oppure può e vuole essere uno strumento per cambiare sistematicamente la realtà del welfare?

2 – Può il fundraising avere un ruolo essenziale e da protagonista nella sostenibilità del welfare tale da essere parte di un sistema economico sociale nuovo?

Ora che la crisi si manifesta in tutta la sua natura sistemica anche il fundraising deve dire qualcosa di sistemico sulla crisi. L’interrogativo quindi è: può il fundraising contribuire ad uscire fuori dalla crisi occupandosi non solo di correggere le storture ma anche di rendere sostenibile il sistema stesso?

Perché impostato come lo è adesso, il fundraising appare - a volte - una bella zeppa utile a turare le falle del sistema. Il che poteva andare bene fino a quando i due grandi sistemi economici: quello dell’economia pubblica, basata sulla equità e lo strumento della fiscalità, e quella del mercato, basata sul profitto e sul libero scambio, reggevano bene.  Si sapeva che entrambi i sistemi avevano delle «failures» ma queste apparivano tutto sommato controllabili e che il fundraising in questo quadro era essenziale per correggerle.  Laddove non arriva lo stato e il mercato lì arriva il fundraising. Al di là delle critiche di natura  filosofica, politica, culturale ed economica, questo teorema reggeva abbastanza bene.

Ma oggi che il problema non sono più le falle del sistema ma il sistema stesso, se il fund raising continua a svolgere il mero ruolo di zeppa, esso rischia di essere, bello, solidale, etico ma sostanzialmente inefficace e quindi ininfluente.

Per dirla in altri termini, un po’ tranchant, fino ad oggi il fundraising è stato un pezzo fondamentale di una economia del superfluo, del di più, di quello che si può fare, ma anche no. E le retoriche più spesso usate nella promozione della raccolta fondi sottolineano questo ruolo del fundraising: «adesso che i soldi pubblici sono finiti, tocca ai privati finanziare…» (presupponendo che i privati, in particolare le aziende, siano pieni di soldi e che questo di per sé giustifichi il loro intervento). Mentre oggi il fundraising deve diventare pezzo dell’economia di quello che si deve fare, pena la venuta meno della tenuta sociale e del benessere scoiale.

Nel cercare di costruire un ragionamento attorno a questa domanda, ci può venire in soccorso sia la rilettura della storia italiana del fundraising, sia l’osservazione di quello che in parte sta avvenendo al livello della società civile nel campo della raccolta fondi. Insomma lo chiameremmo noi un «ritorno al futuro». Ossia guardare al futuro con tutto il portato della nostra storia.

3. Ma questa assunzione di responsabilità del non profit e del fundraising circa le sorti del sistema welfare, non  passa per caso nella riscoperta del ruolo attivo e propositivo che la società civile e la sua leadership (in gran parte non profit) hanno avuto nella creazione del benessere della comunità e nella affermazione del principio di sussidiarietà?

Il  rapporto tra welfare e fundraising non è stato in origine mai in termini di supplenza. Anzi
le origini del welfare sono da ricercare più nella comunità e nella sua capacità di creare sistemi di benessere sociale e dei relativi sistemi economici per sostenerlo piuttosto che nelle dinamiche amministrative della rappresentanza politica.

Noi crediamo che il welfare di comunità sia venuto prima del welfare di stato. E in qualche modo dobbiamo recuperare questa storia che è in gran parte una storia di fundraising del non profit italiano.

Vale la pena, quindi,  ripercorrere un minimo  questa storia guardando anche e soprattutto alla capacità di creare meccanismi se non veri e propri sistemi economici per la sua sostenibilità. Basta richiamare alla mente alcune istituzioni sociali italiane eccezionali, che sono patrimonio  della nostra storia e della nostra civiltà (anche guardando al suo valore per tutto il mondo.

Per brevità diamo solo i titoli di alcune grandi esperienze civiche di costruzione del welfare:

- le Misericordie di Italia, un vero e proprio sistema sanitario di base – seppure collocato in un contesto profondamente differente dal nostro - nato nel ‘300, che tra le altre cose hanno dato vita ai primi ospedali e ai servizi domiciliari così come li conosciamo nel mondo moderno;
- i sistemi creditizi e mutualistici popolari, quelli che poi sono diventati casse mutue, banche  popolari e cooperative, casse rurali, casse di risparmio  e infine nei nostri giorni hanno restituito il patrimonio alla comunità attraverso le fondazioni di origine bancaria;
- le biblioteche popolari sorte nei primi del ‘900 su base spontanea e diventate in due decenni più di 30.000 con un sistema di sostenibilità basato su quotazioni volontarie di tutti coloro che volevano fruire di cultura e conoscenza in modo moderno;
- le casse di resistenza dei movimenti operai, nate insieme ai primi movimenti di tutela dei diritti dei lavoratori,  che hanno dato vita ad un complesso sistema di fundraising interno al mondo operaio, coinvolgendo anche ceti borghesi, che poi ha permesso l’investimento sulla creazione di un forte sindacato dei lavoratori;
- le case del popolo e le prime camere del lavoro che hanno rappresentato luoghi di creazione e animazione della comunità, interamente sostenute da contributi volontari della popolazione locale.
- le opere pie che a partire dal 1500 sono cresciute in ogni parte d’Italia fino a dare vita a sistemi di servizio  e cura per i poveri e i bisognosi con una forte struttura economica basata su un concetto nuovo, chiamato di «beneficenza collettiva» per distinguerla dalla beneficenza individuale (tendenzialmente rivolta al rapporto dell’individuo con se stesso e non con la comunità). Una grande invenzione concettuale che direi rappresenta un prodromo del fundraising e che è cosa molto diversa dalla filantropia, in quanto riguarda qualunque ceto ricco o meno.
- le cooperative e le leghe bianche e rosse, fondate sul principio di uguaglianza e di solidarietà sociale in grado di coniugare le dinamiche del lavoro, della creazione di reddito e della sua salvaguardia quando esso viene impiegato per i consumi, con il criterio della equità e del progresso sociale. E’ opportuno ricordare  che le cooperative sono in gran parte una invenzione italiana, invidiata e studiata in tutto il mondo. Ci piace osservare che le zone di Italia a maggior sviluppo (come ad esempio il nord est) sono zone in cui è stata fortissima la presenza di organizzazioni della società civile e di sistemi solidaristici. Alla faccia delle teorie keynesiane sul primato dello sviluppo economico rispetto a quello sociale;
- e questo ultimo esempio ci porta ad un’altra esperienza italiana di grande valore per la creazione del welfare e che riguarda l’opera straordinaria di illuminati imprenditori e accademici nel dopoguerra come Olivetti, Einaudi, Breda, Pirelli, ma anche Borsalino e chissà quante altre imprese create da imprenditori che non sapevano e non volevano disgiungere il progresso economico anche personale dal progresso sociale. Direi sotto questo aspetto che la responsabilità sociale di impresa in Italia veniva fatta in modo strategico ancora prima che fosse formalizzata quale moderna filosofia d’azienda e in modo molto meno strumentale e molto più strategico anche perché la cultura aziendalistica italiana ha sempre pensato che una impresa ancora prima di essere un soggetto economico è un soggetto sociale;
- molti dei teatri che ancora sopravvivono, anche se solo come strutture, in tanti piccoli centri italiani sono frutto di un investimento della comunità. A volte costruiti per iniziativa di circoli degli intellettuali, o da quelli operai, dalle organizzazioni dopolavoristiche, dalle parrocchie. Noi invece pensiamo che siano stati costruiti tutti dalle amministrazioni comunali o da grandi mecenati;
- e, infine, ci piace citare l’esistenza da secoli di una cooperazione allo sviluppo alle radici dell’erba che forse varrebbe la pena chiamare “cooperazione di comunità” spesso legata al grande impegno di gruppi ecclesiali accanto alle missioni nei paesi in via di sviluppo. Essa rappresenta da anni,  forse, la prima fonte di raccolta di risorse per l’aiuto ai paesi in via di sviluppo. Oggi sicuramente maggiore di quanto lo stato destina alla cooperazione e anche di quanto raccolgono le principali campagne nazionali. Con la peculiarità di non fermarsi alla mera raccolta di donazioni ma di attivare comunità italiane accanto a comunità dei paesi beneficiari portando loro relazioni, competenze, risorse umane, tecnologie, ecc.

L’avvento di un forte welfare di stato pur raccogliendo e rendendo legge queste grandi esperienze ha prodotto, forse non volutamente, alcuni paradossi quali:

- la perdita di protagonismo della società civile nella gestione del welfare (da soggetto organizzato attivo a insieme di individui utenti dei servizi);
- una deresponsabilizzazione circa le sorti del welfare;
- una burocratizzazione dei servizi di welfare e quindi la perdita dei tratti straordinariamente importanti della azione sociale e dell’azione collettiva per la tenuta e il consenso circa le politiche di welfare;
- l’indebolimento del rapporto tra risorse investite e risultati ottenuti ossia la perdita di controllo sull’uso delle risorse messe a disposizione;
- il relegare il non profit al ruolo di attuatore e gestore del welfare e non di promotore e ideatore favorendo anche un certo divorzio tra organizzazioni non profit e comunità.

Sotto i colpi di questi paradossi anche lo stesso concetto costituzionale di sussidiarietà ha teso a perdere significato fino ad essere inteso talvolta in modo sbagliato, quale ruolo di supplenza del non profit e della società alle mancanze dello stato. Mentre la sua essenza parte esattamente dal presupposto contrario. Lo stato interviene laddove la società o i livelli amministrativi più vicini ai cittadini  non sono in grado di dare risposte autonome, rispettando i criteri di equità e fruibilità dei servizi per tutti.

Noi crediamo che questa storia vada valorizzata enormemente non tanto per un certo orgoglio italiano e neanche per nostalgia del passato. Ma perché in questa storia ci sono le radici di un fundraising che conferisce al non profit italiano una forte legittimità a rivedere in chiave evolutiva questa disciplina, restituendo ad essa un valore politico e sociale e non solo morale, liberandolo da una sudditanza teorica e concettuale dal marketing in senso stretto.

Noi amiamo il marketing, sia beninteso, in quanto strumentazione tecnica che dà contenuto e spessore professionale alla nostra disciplina. Ma crediamo che un giusto mix tra approccio di marketing (tipicamente anglosassone) e approccio politico ci farebbe molto bene e farebbe bene anche alla disciplina così come è conosciuta al livello internazionale. D’altro canto anche negli altri paesi è ormai vivo un analogo dibattito circa la necessità di rivedere e rinnovare il rapporto tra fundraising e marketing recuperando lo spessore sociale e politico della raccolta fondi.

E noi italiani sulla natura politico-sociale del fundraising possiamo dire qualcosa di veramente importante perché è in Italia che è nata la comunità in senso solidaristico, che non è una condizione naturale degli esseri umani ma è una invenzione sociale. E’ opportuno in tal senso, rileggere la nascita già nel basso medioevo dei comuni, come risposta e superamento del feudalesimo e delle signorie, alla ricerca di un modo di convivere fondato sui principi di eguaglianza e di partecipazione di tutti i componenti della comunità stessa alla vita civile.

Ricordandoci anche che il tema della costruzione e ricostruzione della dimensione comunitaria (molto forte nel pensiero di Z. Bauman) è tema centrale quando si ragiona della necessità degli individui di difendersi dagli effetti negativi della globalizzazione e di costruire una propria identità individuale e collettiva.

Da questo punto di vista quello che oggi chiamiamo community fundraising invece di essere una sotto-branca della disciplina (magari molto in stile 2.0), appare invece essere un approccio strategico che riguarda tutte le tecniche e le modalità di relazione con i donatori,  anche perché presuppone che il fundraising si poggi e si sviluppi sull’esistenza di una comunità così come la abbiamo intesa, produttrice di fiducia sociale che è condizione essenziale per le donazioni. Un fundraising per il welfare non può che essere un fundraising (e un non profit) costruttore di comunità.

Questo vuol dire il superamento del vecchio e forse desueto schema tripartito tra donatore, organizzazione e beneficiari (che ancora viene insegnato in molti corsi di fundraising) in cui ognuno dei tre soggetti ha una autonomia totale dagli altri e ha rapporti che non prevedono la integrazione. Niente di più distante dalla concezione di comunità!

4. Ma non è proprio questo il segnale che arriva oggi dalla società civile? E che deve essere ripreso dal non profit se vuole fare un fundraising per il welfare? Non ci sono oggi già in atto nella società dinamiche di fundraising che vanno nella logica di una costruzione di un nuovo welfare?

In questo tempo di crisi, accanto ad una battuta di arresto delle raccolte fondi tradizionali, vi è un movimento “carsico”, nascosto,  di cui si parla solo episodicamente e in modo folkloristico. Un movimento che è di partecipazione ma anche di fundraising e di nuovi fundraiser.

Ecco alcuni fatti che possono far pensare che siamo in presenza di un fenomeno sociale che in parte è frutto di un rinnovato spirito di azione del non profit e in parte è un movimento naturale e spontaneo della comunità.

- Forme di azionariato popolare per il sistema degli asili nido, come è successo a Modena dove anche come riposta al patto di stabilità e al conseguente blocco delle assunzioni, per evitare la privatizzazione nel senso del mercato, si è dato vita su spinta dei genitori alla creazione di una fondazione di partecipazione, con governance che include i genitori, che mantiene nel fatti il carattere pubblico dei servizi ma che lega la qualità del servizio stesso alla capacitò di reperire risorse nella comunità.
- La costruzione di strutture di servizio a soggetti svantaggiati basati su una diffusa raccolta fondi in  cui popolazione locale, la comunità di interesse sui diritti dei disabili, i beneficiari del servizio stesso, le piccole imprese e i commercianti locali destinano risorse per la produzione di un servizio di qualità, grazie soprattutto al collante offerto dalle cooperative sociali. Un esempio per tutti: la Casa del Sole della Cooperativa sociale Cecilia Onlus di Roma.
- La ripresa di vigore delle associazioni di genitori nelle scuole (che esistono su spinta spontanea da decenni e che poi sono previste anche dalla legge) che operano una costante azione di raccolta fondi “alle radici dell’erba”, dedicata non tanto all’acquisto della carta igienica (almeno questo con i nostri soldi delle tasse, dovrebbero garantirla!) ma alla produzione di valore aggiunto e di qualità della offerta didattica, trasformando le scuole anche in un luogo di socialità e non solo di istruzione in senso stretto. Una recente ricerca condotta da MBS insieme alla Scuola di Roma sull’esperienza delle Learning Week in Lombardia ha messo in evidenza che l’azione in rete di soggetti del territorio per lo sviluppo di programmi didattici (ossia un processo partecipativo per il miglioramento dell’offerta didattica) ha prodotto una naturale crescita del fundraising per le scuole e in particolare che:
o Il 15,4% dei partner coinvolti nei progetti delle scuole (professionisti, aziende, associazioni, individui) hanno messo a disposizione risorse economiche o beni e servizi che hanno un valore economico, senza che fosse stato richiesto dai promotori pari ad un apporto di
o L’84% dei partner intervistati affermano di essere disponibili a dare beni e servizi gratuitamente per la scuola in futuro
o Il 34% addirittura di mettere a disposizione risorse economiche
o Vi è una relazione diretta tra l’attivazione di reti sociali, la promozione di una azione sociale educativa dei suoi membri e la disponibilità di risorse economiche volontarie aggiuntive per la scuola
- Lo stesso discorso fatto per le scuole, vale per le biblioteche che registrano una crescente attività di raccolta fondi basata anche sulle fidelity card che più che essere un strumento che permette benefits è un segno di appartenenza alle biblioteche in quanto bene pubblico e per il quale si concorre al sostengo. Accanto alle biblioteche nascono e si sviluppano con enorme tasso di crescita gruppi di amici e gruppi di lettura che svolgono al pari delle associazioni genitori delle scuole una funzione di raccolta fondi e di animazione delle attività che rappresentano il reale valore aggiunto delle biblioteche stesse.
- Molti dei progetti finanziati con il crowdfunding rappresentano idee e progetti culturali funzionali a rinnovare l’offerta culturale del nostro paese e contemporaneamente a creare una opportunità di sviluppo di impresa. In alcuni casi prendono la forma di una sorta di azionariato popolare seppure legato ad un progetto e non ad una istituzione. C’è da domandarsi se non sia una forma di finanziamento volontariato di una cosa che oggi rappresenta una missione sociale: ossia quella di permettere lo sviluppo di idee imprenditoriali e culturali che producano un beneficio comune. Cosa di cui il welfare state realmente non riesce ad occuparsi in modo sistematico e per il quale il mondo del credito non garantisce l’accesso a risorse.
- Così come si nota un significativo sviluppo di costruzione di servizi di pubblica utilità al livello comunitario, nel campo della sanità, dell’assistenza sociale, del sostegno alle persone disabili, ecc.. Come il caso della associazione Unopertutti Valdisieve, che si occupa di  integrazione  e assistenza scolastica a bambini disabili, mettendo insieme genitori, operatori socio-assistenziali, comunità e insegnanti e garantendo alle scuole l’apporto di risorse per permettere la piena attuazione del mandato della legge circa l’affiancamento dei bambini con difficoltà di apprendimento dovuta a disabilità. Ma anche il caso della  Fondazione Comunità attiva di Canobbio, Si tratta di una fondazione non a scopo di lucro che persegue finalità sociali, sanitarie ed assistenziali nei confronti delle persone senza distinzione di età, sesso, contesto familiare, razza, lingua, religione, ambiente sociale e condizioni socio-culturali in una piccola Valle Piemontese, promuovendo il miglioramento della qualità della vita, in un contesto di sviluppo della comunità. Ossia garantisce alla valle i servizi sanitari che altrimenti non potrebbero essere garantiti alla popolazione e che farebbero invece  parte integrante dell’offerta del SSN. Analogo il caso della Fondazione Pontello del Friuli, un vero e proprio sistema di welfare per la gestione delle disabilità, messo a sistema dalla comunità locale e dalle associazioni di disabili con un modello di governance allargato. Un sistema talmente efficace da essere stato preso come modello gestionale dalla ASL che lo ha integrato in tutto e per tutto nella offerta di servizi. E infine il caso della Fondazione Ebbene, frutto di un lungo lavoro di coesione sociale e imprenditoria cooperativa messo in atto dal Consorzio Solco a Catania, che sta creando nella zona i centri di prossimità con uno schema di fundraising di comunità, alle radici dell’erba, rendendosi finalmente autonomi dai finanziamenti pubblici che per ragioni politiche e finanziarie non sarebbe mai arrivato.

In tutte queste storie e in molte altre che non possiamo raccontare per brevità, spicca un ruolo differente di aziende e imprenditori così come delle fondazioni che li vedono impegnati come veri e propri investitori piuttosto che come sponsor o come meri filantropi. Investitori che portano risorse ma anche competenze, tecnologie, strutture in una logica di impegno comunitario. Non si può veramente più parlare di vecchia filantropia. Il caso del ricco cittadino di Adro (BS) che mise di tasca propria i soldi per garantire il servizio di mensa degli asili anche ad immigrati (dopo la decisione della giunta leghista di non garantire la mensa a chi non pagava) e che a seguito di questa azione simbolica ha costituito una Fondazione che si chiama “Condividere” proprio per dare a  questa azione una continuità sistematica, è da questo punto di vista, assolutamente emblematica.

Vi è un evidente fil rouge che tiene insieme le storie di fundraising di comunità che precedono il welfare state e queste esperienze contemporanee di fundraising alle radici dell’erba. Un fil rouge che mette in evidenza che la figura del fundraiser spesso viene interpretata da un attore inatteso: il cittadino comune che invece di essere un donatore “convitato di pietra” al tavolo  della filantropia, è organizzatore e animatore del banchetto al quale siedono tutti i commensali.

Tutto ciò apre al fundraising prospettive inedite e offre una occasione alle organizzazioni non profit di valorizzare un rapporto con i propri donatori (anche nelle campagne più tradizionali) che non è di mera terzietà ma di coinvolgimento in un processo di costruzione di welfare.  Al di là delle rappresentazioni che sono state date, fenomeni come la costruzione di centri di assistenza e di ambulatori, centri di riabilitazione di organizzazioni come Fondazione Serena, Lega del Filo d’oro ecc. non possono essere interpretate come un fenomeno di welfare di comunità? Io credo proprio di sì.

Sarebbe per altro molto significativo valutare, anche in senso economico, questo tipo di fundraising che spesso tende a sfuggire alle indagini statistiche sul fenomeno della donazione.

5.  Il non profit è pronto a cogliere le nuove motivazioni che i spingono gli individui, le aziende e le fondazioni a donare soldi? E’ pronto a superare alcuni schemi interpretativi che producono una perdita di senso della donazione o che mostrano inadeguatezza rispetto al nuovo mutato quadro di riferimento? Infine, è pronto ad istaurare un nuovo rapporto con i donatori?

Si tratta di domandarsi se il senso della donazione, del finanziamento sia quello al quale abbiamo fatto riferimento negli ultimi anni e se non sia cambiato insieme agli individui e al contesto sociale.

Noi della Scuola di Roma ci siamo posti questa domanda negli ultimi anni convinti che i grandi cambiamenti sociali e culturali abbiano necessariamente cambiato lo schema motivazionale dei donatori, rendendolo più complesso e diversificato e non più immediatamente interpretabile nei vecchi schemi concettuali tipici della cultura filantropica, della carità, della generosità, della reputation, della solidarietà generica.

Ed è per questo che stiamo dando vita ad una grande ricerca partecipata che cerchi di cogliere nei donatori i nuovi profili motivazionali della donazione e le nuove attese verso il non profit (La ricerca si chiama per adesso: I donatori parlano, i fundraiser li ascoltano. Chi è interessato a partecipare può scerivere a mailto:ricerca@scuolafundraising.it). Ricerca alla quale invitiamo i fundraiser e le organizzazioni ad aderire proprio per aiutarci, tutti insieme, a capire come cambiano i donatori.

L’altruismo e il filantropismo sembrano essere concettualmente, empiricamente, politicamente superati. La donazione interpretata come mero frutto della generosità è un atto che perde tutta la sua carica politica e sociale e in qualche modo rivoluzionaria.

Di recente uno scienziato francese ha elaborato una filosofia dell’altruismo che offre parecchi spunti di riflessione per il fund raising. Si tratta di Philippe Kourilsky, autore del Manifesto dell’altruismo che è un manifesto di natura  scientifica e razionale che si colloca nel solco del pensiero economico di Amartya Sen, apportando contributi di discipline quali la sociologia, la filosofia morale, le scienze politiche e altre ancora.

Secondo l’autore vi è una grande differenza tra l’altruismo così come lo abbiamo concepito correntemente nella nostra società fino ad oggi e l’altruità (neologismo che ha inventato lui proprio per marcare le differenze con una concezione poco funzionale a rispondere alla sfida dello sviluppo sociale).  Anche egli parte dalla costatazione che la crisi è tutt’altro che una crisi economica e che l’oggetto della crisi è il sistema di welfare e non gli effetti della carenza di risorse su di esso.

L’altruismo, in quanto supplenza ad un sistema di welfare, è un  sistema che fa acqua da tutte le parti: oltre che equivoco, è inutile e anche irritante. E’ generosità funzionale alla redistribuzione della ricchezza, ma non rappresenta una strategia economica. Per quanto produca forme di economia, queste sono marginali ed episodiche e non possono intaccare il cuore del problema. Anzi in qualche modo sono complici di un suo deterioramento. L’altruismo, al di là delle buone o cattive intenzioni, è funzionale ad una economia del benessere che è basato solo su principi liberistici che oggi hanno messo in evidenza tutti i loro drammatici errori.

L’altruità invece ha a che fare sì con l’economia del benessere, in quanto produttore di sistemi di welfare, ma senza produrre i paradossi propri dell’economia liberista. E’ il necessario fattore per produrre economia sociale e impresa sociale, ossia una impresa che vive con i meccanismi del libero mercato (liberismo) ma per produrre un beneficio comune e non primariamente un profitto.

D’altro canto in Italia da anni, grazie soprattutto a S. Zamagni e a L.Bruni (e tanti altri ce non cito per brevità) si è sviluppato un filone dell’economia sociale o di comunità che ormai da accademico è diventato assolutamente pratico, visto gli impatti che esso può avere per le sorti del welfare.

Senza voler approfondire più di tanto, tale approccio promuove uno spostamento dell’altruismo dal terreno proprio del sentimento, dell’emozione e dell’etica individuale dove alberga la generosità a quello delle scelte razionali e delle politiche nonché al tema della responsabilità sociale degli individui. Insomma altruità e generosità possono coesistere ma non sono la stessa cosa. Anzi la generosità da sola, in quanto richiamo proveniente proprio dal sistema liberistico ad occuparsi degli svantaggiati di coloro che non riescono a beneficiare del sistema liberistico rischia di essere complice dello stesso sistema che abbiamo bisogno di cambiare. In questo Kourilsky fa una critica drastica ai grandi filantropi statunitensi che usano la generosità per garantirsi che il sistema che permette loro di generare profitto resti in piedi. Tale critica l’ho sentita fare anche da importanti esponenti del mondo delle fondazioni durante il già citato ncontro tenuto con esse nel corso dell’ultimo Festival sul fundraising.

Da tutt’altro punto di vista va registrata un’altra critica feroce al filantropismo vecchia maniera e anche alle grandi campagne di raccolta fondi dei paesi occidentali e alle kermesse montate da grandi artisti e dal mondo dello spettacolo e viene proprio dai giovani intellettuali  africani e dai leader dei gruppi africani che vivono in diaspora. Campagne che spesso sono autoreferenziali e che mirano a mantenere le condizioni di sopravvivenza delle organizzazioni – magari perpetrando una visione derelitta e disperata dell’Africa – invece che essere investimenti per favorire l’autosviluppo.

Questo tipo di approccio contribuisce ad alleggerire il fundraising da quell’abito retorico fatto troppo spesso di buonismo, di eticismo, o al contrario fatto di proposte di scambio di tipo commerciale (pubblicità, immagine, reputazione, benefits, ecc..) di cui oggi si sente il peso eccessivo e che rischia di renderlo poco credibile.

Ma è pronto il non profit a svestirsi o almeno a relativizzare questo tipo di contratto stipulato con il donatore a scapito di una relazione di impegno per il welfare?  E’ pronto a promuovere nel donatore (ma anche a riconoscere laddove esso già ci sia) una cultura della partecipazione e del concorso alla costruzione del welfare e a farlo entrare a pieno titolo tra gli stakeholder se non tra gli alleati della propria causa sociale?

6. Quali questioni cruciali deve affrontare il fundraising e il non profit (ma anche i servizi pubblici alla collettività) se vogliono proporsi come strategia economica per il nuovo welfare?

Ed è proprio questo ultimo punto – che riguarda le condizioni per svolgere un ruolo strategico per il welfare - quello sul quale vogliamo soffermarci nel pensatoio, attraverso una serie di questioni aperte che ci aiutino a capire cosa deve cambiare del fundraising del  non profit ma anche dei soggetti che amministrano e progettano i servizi se  vogliono assumersi questa sfida di generare un nuovo welfare.

Infatti un cambiamento di prospettiva in tal senso riguarda almeno le seguenti aree problematiche.

- Il rafforzamento delle conoscenze e delle capacità organizzative delle organizzazioni nel fare fundraising e il ruolo dei gruppi dirigenti nella guida di nuove strategie di raccolta fondi e di relazione con i donatori. Forse si tratta di cambiare la cultura della formazione che ha il non profit e anche la pubblica amministrazione. Essa non è un costo ma un investimento. E oggi è un investimento che serve non solo a tenere in vita le organizzazioni ma a cambiare il welfare. Noi siamo pronti come Scuola di Roma a cercare di trovare insieme il modo per favorire questo investimenti. Ma è certo che il non profit non ha sfruttato adeguatamente alcune opportunità date dai fondi europei, dai fondi interprofessionali, dal finanziamento ricevuto dalle fondazioni per i Centri di Servizio e dai fondi pubblici ricevuti che in parte potevano essere utilizzati per ciò.

- La necessità di dare vita a sistemi di empowerment di tutto il settore al pari di quelli che vengono promossi e realizzati  dalle stesse associazioni imprenditoriali per lo sviluppo dei mercati e della produzione. E quindi il ruolo delle organizzazioni di secondo livello (Associazioni cooperative, Forum III settore, consorzi di associazioni, CSV, ecc.) e dei loro finanziatori istituzionali (Fondazioni bancarie tra tutti). Non basta offrire formazione e consulenza, Bisogna dare vita ad una strategia comune condivisa tra organizzazioni non profit, fondazioni, aziende e enti di consulenza e formazione in quanto investimento su un capitale umano e cognitivo indispensabile. E questa strategia dovrà in qualche modo diventare anche una politica pubblica che veda lo stato non agevolare il non profit, ma investire sull’unico soggetto in grado di dare soluzione ai problemi del welfare.

- Il coinvolgimento attivo e partecipativo dei donatori alla vita della organizzazione e allo sviluppo delle proprie cause sociali e una attenzione a quella parte di popolazione che non dona o che si sta allontanando dal dono perché non è più in sintonia con il non profit e con le modalità di raccogliere fondi. Siamo un paese che pur volendo il fundraising non spende un euro per sensibilizzare seriamente alla donazione. La sensibilizzazione viene fatta dalla organizzazione per la propria causa e nient’altro.

- Una cultura moderna della rendicontazione sociale per garantire coloro  che donano in quanto investitori  sociali circa l’efficacia dei progetti sostenuti superando due grandi limiti: l’autoreferenzialità (ossia il fatto di valutare senza coinvolgere soggetti terzi) e la retoricità (ossia dire che va tutto bene perché siamo buoni e aiutiamo le persone svantaggiate).

- La revisione di alcuni approcci di raccolta fondi mutuati in modo acritico e meramente strumentale dal marketing e che ci spingono ad usare strumenti che se da un lato portano a risultati economici immediati, creano un ambiente non proprio favorevole al fundraising. Probabilmente oltre a promuovere un rinnovamento culturale e professionale del fundraising si tratti anche di porre alcune regole alle quali attenersi per la salvaguardia di tutto il mercato e non solo delle singole organizzazioni.

- L’investimento in ricerca e conoscenza. Siamo un paese in cui la ricerca sul fundraising è ad un livello quantitativo e qualitativo molto basso. Abbiamo un po’ di indagini di tipo economico – non tutte con base statistica forte – che al massimo ci da alcune conferme ma non ci spiega cosa sta succedendo nei donatori. Anche in questo caso non basta fare ricerche settoriali o legate solo a specifiche organizzazioni e modalità di raccolta. Si tratta di creare una strategia comune di ricerca come succede negli altri paesi a fundraising avanzato.

Vedi anche Un nuovo fundraising per un nuovo welfare

Massimo Coen Cagli
Autore del primo manuale italiano sul Fundraising, dopo 20 anni di impegno nella dirigenza di organizzazioni non profit ha dato vita alla Scuola di Roma Fund-raising.it di cui è il direttore scientifico.
E’ promotore di un approccio sociologico al fundraising, secondo il quale la raccolta di fondi è legata alla costruzione e al rafforzamento della comunità civile e alla creazione di forme innovative di welfare sociale.
È docente presso primarie università italiane e presso master post universitari e membro del Comitato Scientifico del Festival del Fundraising.
Ha collaborato con numerosi enti del mondo culturale e artistico per lo sviluppo del loro fundraising anche organizzando corsi di formazione per dirigenti e operatori delle organizzazioni culturali
m.coencagli@scuolafundraising.it
blog.vita.it/benedettisoldi

La Scuola di Roma Fund-raising.it
Una delle principali agenzie di formazione, consulenza e ricerca nel campo del fundrasing in Italia. Opera da circa 10 anni con una variegata offerta formativa che va da corsi brevi per dirigenti e operatori, a corsi in house e progetti di formazione in partnership con altre organizzazioni. In particolare, per quanto riguarda il settore cultura, ha dato vita in partnership con la Fondazione Fitzcarraldo ad una Accademia di fundraising per la cultura che ormai da più di 5 anni offre a dirigenti di organizzazioni e professionisti corsi per la raccolta fondi da aziende, fondazioni e individui. Forte il suo impegno anche con interi settori del mondo della cultura come le biblioteche e i conservatori e gli atri istituti di formazione artistica.
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