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Stand sì, standard no: ad Artissima il meno è il più

  • Pubblicato il: 07/11/2013 - 21:03
Rubrica: 
notizie
Articolo a cura di: 
Franco Fanell

Lo scorso anno, la nomina alla direzione di Artissima di Sarah Cosulich Canarutto è stata la conferma della linea verde, dopo Andrea Bellini e Francesco Manacorda, alla guida della fiera italiana più legata all’arte emergente. 39 anni, già curatrice per l’arte contemporanea a Villa Manin dal 2004 al 2008 sotto la direzione di Francesco Bonami, con cui ha lavorato anche alla Biennale di Venezia del 2003, poi cofondatrice e direttore artistico della galleria Cardi Black Box di Milano e consulente di alcuni collezionisti d’arte contemporanea in Svizzera, tocca a lei, quest’anno, portare Artissima, che si svolge dall’8 al 10 novembre all’Oval - Lingotto Fiere di Torino, al traguardo della ventesima edizione. L’abbiamo intervistata alla vigilia della vernice.

Artissima si tiene alla fine dell’anno solare. Che 2013 è stato per l’arte contemporanea?

Attraversiamo anni difficili. Per il mercato dell’arte lo è stato il 2012, lo è il 2013. La situazione attuale va tenuta in considerazione nello sviluppo del progetto di Artissima. Il mio ruolo mi fa percepire difficili condizioni delle gallerie italiane, un aspetto che ovviamente non va sottovalutato. Come fiera, cerchiamo di mantenere un dialogo positivo con le gallerie; ci rendiamo conto che Artissima è molto importante per loro e continuano a crederci; ma, nello stesso tempo, ci chiedono meno metri quadrati. Così, a fronte di un numero maggiore di gallerie, gli stand quest’anno occupano complessivamente una superficie non molto maggiore rispetto a quella dello scorso anno.
È un problema che riguarda solo le gallerie italiane?
Soprattutto le italiane e in alcuni casi anche le gallerie straniere, in particolare quelle giovani. Ma a me in futuro piacerebbe fare un ragionamento diverso per quanto riguarda i costi di partecipazione. Artissima ha due settori principali, Main Section e New Entries, quest’ultima dedicata a gallerie che hanno meno di cinque anni di attività e che partecipano per la prima o per la seconda volta alla fiera. Questo significa che magari una galleria che fa un lavoro interessante e che però ha dimensioni ancora piccole, dopo due anni ha gli stessi costi di partecipazione delle grandi gallerie internazionali. Già quest’anno, comunque, abbiamo creato una sezione intermedia, in cui abbiamo permesso alle gallerie che partecipano con un progetto curato e con meno di tre artisti, di avere condizioni migliori. Tutto questo deve evolversi nella prossima edizione, perché la crisi impone nuove strategie.
Quanto costa partecipare ad Artissima?
Nella Main Section costa 220 euro al mq, per New Entries 165 euro, mentre la sezione intermedia di cui le ho parlato ha stand a 190 euro al mq. Però c’è margine per ragionamenti nuovi anche se è difficile farli: su quali parametri ci si potrebbe basare? In teoria sui prezzi delle opere, ma è complicato per varie ragioni. Però ci stiamo pensando, vorremmo creare ancora una fascia per sostenere altre gallerie ancora.
Iva troppo alta, diritto di seguito e redditometro sono, per i galleristi, le cause delle difficoltà. C’è altro?
Un altro problema, correlato a quelli che lei ha citato è l’assenza di defiscalizzazione per i collezionisti che concorrono alla produzione di opere o intendono donarne ai musei. Quand’ero a Villa Manin, il museo godeva di un finanziamento pubblico cospicuo, ma contavamo molto sull’appoggio delle gallerie e dei collezionisti privati, cosa che ci permetteva anche grandi produzioni.
Ma neppure allora si parlava di defiscalizzazione...
Sì, ma non c’era la crisi. Ora i collezionisti, con il redditometro, temono di apparire, i galleristi non hanno più i mezzi per produrre e ancora meno ne hanno le istituzioni. Ma forse le maggiori vittime di questa situazione sono i nostri artisti. Le gallerie italiane sono indebolite e partecipano a meno fiere e se lo fanno portano probabilmente artisti più consolidati per riuscire a vendere.
C’è una via d’uscita?
Se c’è, penso possa dipendere dalla capacità di coalizzarsi nel lanciare un messaggio. Dire che i collezionisti non comprano più, oggi suona come: «Poveri ricchi che non possono più permettersi l’arte». In realtà, il fatto che i ricchi non comprimo più in Italia significa che non crescono gli artisti italiani. Si tratterebbe di sensibilizzare le persone giuste con una mentalità non centrata sul singolo obiettivo, ma sull’intero sistema.
Il 2013 è stato anche l’anno del rilancio di MiArt. È un problema per Artissima?
Forse la domanda più giusta sarebbe: quanto beneficia il sistema dell’arte italiano dalla nascita di un’ulteriore fiera in questo momento? Ci sono due tipi di risposte, quella personale, di chi è coinvolto, e la risposta oggettiva. Io rispetto molto la squadra di MiArt. Ma se stiano facendo un lavoro costruttivo per il sistema, questo non lo so. Certo la crescita della fiera di Milano ci ha dato molta energia, perché ci ha posto diverse domande alle quali stiamo rispondendo in modo forte e i risultati si vedono anche quest’anno. A Torino siamo avvantaggiati da una città dotata di un sistema istituzionale forte, nonostante i tagli di budget, e l’ho constatato con il progetto One Torino, con la risposta dei curatori a questo progetto: si vede quanto i musei torinesi significhino a livello internazionale. E poi c’è Fondazione Crt, che continua a sostenerci con le acquisizioni per Rivoli e per la Gam con stanziamenti che rimangono invariati. Siamo stati anche molto sostenuti dalla Compagnia di San Paolo. Tutto questo ci pone ancora in una posizione di grande vantaggio rispetto a Milano e ci permette di lavorare con serenità.
L’estensione al moderno nella sezione Back to the Future sta dando frutti concreti?
Sì, anche se non per tutti gli artisti. Ha funzionato, ad esempio, nel caso di Giorgio Griffa nel contatto che si è creato con una galleria come la newyorkese Casey Kaplan che ha deciso, dopo avere visto il progetto a Back to the Future, di rappresentare l’artista.
A pensar male, viene da dire che dopo 15 anni di nefandezze ed esagerazioni del mercato, il rilancio dei rigori e della spartanità dell’arte concettuale o analitica praticata da autori un po’ dimenticati, e lo si vede anche con gli outsider professionisti o dilettanti nell’attuale Biennale di Venezia, unisca un moralismo di facciata a esigenze di far cassa con opere storicizzate ma accessibili.
Però si potrebbe ribaltare la questione: è moda oppure è una necessità naturale? Voglio dire: si può pensare oggi di produrre per la Biennale di Venezia opere da centinaia di migliaia di euro di artisti contemporanei?
Che tipo di Artissima attende il visitatore per quanto riguarda la tipologia delle opere?
Io penso che il rapporto tra pittura, video e fotografia rimanga equilibrato. Ci sarà molta Video art e questo, secondo me, è un buon segno.
Cioè?
Sono un problema gli stand sovraccarichi di opere pur di vendere. Per me, al contrario, è fondamentale evitare che la crisi influenzi la qualità degli stand e minacci l’equilibrio tra mercato e presentazione. L’introduzione di una sezione intermedia per quanto riguarda la locazione degli stand, torno a dire, con progetti legati a un  massimo di 3 artisti per galleria, permette ai partecipanti di continuare a rischiare. Questa è la responsabilità maggiore di un direttore di fiera, cioè permettere alle gallerie di lavorare bene con le opere e con gli artisti che rappresentano. Sono molto contenta anche della sezione Present Future: abbiamo scelto curatori provenienti da parti geografiche diverse e questo si riflette anche negli artisti, c’è una galleria malese, del Sudest asiatico, una forte presenza di gallerie sudamericane con il Brasile molto ben rappresentato. È un’Artissima sicuramente ancora più internazionale e lo conferma il fatto che ci sia una decina di nuovi Paesi su quaranta. Da un lato, infatti, la fiera non deve sacrificare la propria identità sperimentale e deve continuare a dare buone opportunità alle gallerie giovani, ma deve anche continuare ad allargare il più possibile geograficamente il proprio impatto. Così quest’anno portiamo a Torino collezionisti importantissimi dal Sudamerica, 12 solo dal Brasile, perché la crisi impone di creare un progetto di qualità tale da attrarre un pubblico di collezionisti da tutto il mondo e quest’anno sui collezionisti abbiamo fatto un lavoro ancora maggiore. La stessa One Torino, attraverso i curatori delle sezioni e i comitati, ha consentito di coinvolgere i board di molti musei internazionali.
Provi a spiegare perché, in occasione di una fiera, ha senso pagare viaggio e soggiorno a gruppi di miliardari.
Ques’anno per il programma legato ai collezionisti abbiamo investito 100mila euro. Ma va considerato l’indotto enorme che queste persone generano sulla fiera e sulla città. Per cui  questa spesa è minima, è nulla, rispetto al possibile ritorno. Torino è una città molto amata dai collezionisti, sarà anche per il tartufo e il cioccolato, o perché è bella e non troppo grande, cosa che permette un contatto più intimo con il mondo dell’arte e con tutte le istituzioni. In ogni caso abbiamo capito che non siamo obbligati a invitare sempre gli stessi, perché chi c’è stato una volta l’anno dopo torna a sue spese.
Lei continua a citare il programma esterno, quello di One Torino. Eppure proprio la grande offerta collaterale e curatoriale di Artissima è stata accusata dai galleristi di distrarre l’attenzione dalla fiera.
Io penso esattamente il contrario. One Torino quest’anno ha portato molti benefici proprio alle gallerie, alcune delle quali partecipano perché hanno degli artisti rappresentati nelle mostre. E poi i curatori, che hanno lavorato in totale autonomia, hanno portato artisti giovani. In molti casi io non li conoscevo quindi trovo che sia una bella opportunità, attraverso la quale scoprire gallerie nuove; quindi negli anni futuri avremo interlocutori diversi. One Torino, in tal senso, è un arricchimento per la fiera: lo è per i collezionisti attratti da un programma così importante di mostre collaterali (quelli stranieri in quattro giorni hanno tutto il tempo per vedere sia le mostre sia la fiera) e consideriamo che Torino, a differenza di Londra o New York, non è una città dove si viene di passaggio, ma solo in presenza di appuntamenti precisi; gli italiani avranno comunque due mesi per tornare a vedere le mostre. Quindi non penso che sia un programma dispersivo; nei programmi delle inaugurazioni, inoltre, siamo stati attenti a non sovrapporci all’orario della fiera. Va poi considerata l’importanza di avere i curatori delle mostre di One Torino in fiera, dove hanno l’occasione di conoscere tutte le gallerie. Io credo moltissimo in One Torino, che ha richiesto un raddoppiamento della nostra mole di lavoro rispetto allo scorso anno. Diciamo che abbiamo raddoppiato tutto, anche l’offerta, con cinque mostre e una cinquantina di artisti, senza raddoppiare le risorse se non leggermente. È importante anche il fatto che siano mostre collettive pensate per i luoghi in cui sono allestite. Il progetto della Fondazione Merz, ad esempio, è legato alla produzione industriale della città, alla Gam è relazionato all’architettura della sede, alla Fondazione Sandretto il dialogo è con la collezione, mentre a Palazzo Cavour emerge l’idea dello spazio barocco. La mostra di Rivoli, infine, è quella più fortemente connessa ad Artissima, ma anche quella è nata dai curatori, non dalla fiera. Ovviamente, per raggiungere questo risultato è stata fondamentale la collaborazione dei direttori dei musei e delle fondazioni cooinvolti, che hanno creduto nei curatori e li hanno scelti con noi.
A proposito di pubblico: Michele Coppola, assessore alla Cultura della Regione, in conferenza stampa sembrava molto innervosito dall’eccesso di biglietti omaggio. Ma lei a quale schieramento appartiene? A quello che «più siamo meglio stiamo» o a quello secondo il quale il troppo pubblico non comprante intralcia gli affari?
Sono molto consapevole di questo sottilissimo equilibrio. Artissima però è una fiera pubblica nel vero senso della parola, perché è finanziata con fondi pubblici, per la quale il pubblico generico è fondamentale anche perché ripaga dell’investimento che le istituzioni fanno nei nostri confronti. È certo che se mi dici: «L’anno scorso 50mila visitatori, quest’anno 70mila?» rispondo di no, perché secondo me 50mila è un limite accettabile ma percepibile come soglia da non superare. Quanto ai biglietti omaggio, si tratta di un pubblico anzitutto legato al mondo dell’arte, ma c’è anche da dire che non possiamo lesinare gli inviti alle istituzioni e alle fondazioni che ci supportano e così il numero di ingressi gratuiti, ovviamente, aumenta.
Non si era parlato anche di un cambiamento di sede?
Sto riflettendo sulla possibilità di aumentare ulteriormente la qualità contraendo la dimensione di Artissima per rendere la fiera ancora più forte. Artissima deve diventare un gioiello, una fiera-boutique, anche se odio questa espressione, con 120-130 gallerie, con una grande parte riservata a quelle giovani, sperimentali, con presenza di gallerie importanti che però partecipano con dei progetti, non la mega-galleria che porta a Torino tutti i suoi artisti. Credo che questa sia la prospettiva giusta e ci spinge a ripensare diverse cose per il futuro, tra cui la sede, però in questo momento è prematuro parlarne, posso dire solo che ci stiamo lavorando.
Che cosa le manca rispetto ai tempi di Villa Manin?
Apprezzo molto il ruolo di direttore di una fiera, attraverso il quale ho avuto l’opportunità di conoscere dinamiche e meccanismi che altrimenti non avrei mai esplorato. Forse il cambiamento più grande per me è sicuramente nel rapporto con l’artista e con l’opera d’arte. In questo momento mi sento «lontana» dall’opera d’arte rispetto a quand’ero curatrice; ho meno occasioni di scrivere e di confrontarmi con gli artisti, però quest’anno ho sopperito a questa mancanza con il progetto One Torino. Inevitabilmente c’è anche meno «controllo» di certi aspetti. Come curatore costruisci un progetto in base a tue idee; in una fiera puoi fare di tutto per mettere le gallerie nelle condizioni di lavorare al meglio, quindi di portare degli stand interessanti, curati, ben allestiti, però fino all’ultimo momento non sai che cosa aspettarti. È però vero che selezionando i curatori si influenza anche un certo tipo di risultato, ma come direttore di fiera una cosa mi ha scioccata: vedere i galleristi che, la domenica sera, terminata la mostra, la disallestiscono un minuto dopo. Da curatore vivi lo stress dell’allestimento, del catalogo e dell’inaugurazione, ma il giorno dopo vai negli spazi e ti vivi la mostra in silenzio e ti godi il lavoro che hai fatto e le opere; qui questo manca completamente.
Non ha mai pensato di fare la gallerista?
Per un brevissimo periodo sì.
E che cosa l’ha fatta desistere?
In questa esperienza ad Artissima ho rafforzato il mio rispetto per i galleristi e la consapevolezza della loro condizione. Ma forse, al di là delle difficoltà obiettive con cui hanno a che fare, ciò che mi renderebbe difficile fare il loro mestiere è che avrei difficoltà a separarmi dalle opere. In tal senso, mi sento più simile ai collezionisti.
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da Il Giornale dell'Arte numero 336, novembre 2013