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Soldi bruciati e Ovidio a Cinecittà

  • Pubblicato il: 11/10/2013 - 12:36
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI E ARTE CONTEMPORANEA
Articolo a cura di: 
F.C.G.

Roma. Nella mostra «Jan Fabre. Stigmata», dal 16 ottobre al 16 febbraio alla Galleria 4 del MaXXI, a cura di Germano Celant, è esposto l’intero corpus di azioni e performance dell’artista belga (1958) dal 1976 a oggi; non c’è invece nulla legato al teatro a cui pure Fabre si dedica dalla metà degli anni Ottanta con una propria compagnia. Ma il visitatore non vede ciò a cui si è abituato quando si tratta di retrospettive legate all’«arte agita», cioè ricostruzioni di performance. La mostra tenta invece di ricostruire, in una sorta di immersione nel cervello dell’artista, le sinapsi da cui nascono i suoi lavori. L’idea di Fabre e del curatore è stata quella di proporre e allestire un «fiume di memorie». L’impatto è forte: su 91 tavoli di vetro sono posizionati in varia maniera oltre 800 tra documenti, opere e residui delle performance: «thinking models», schizzi, disegni, articoli di giornale, fotografie, costumi e oggetti ultilizzati, frammenti che poi dai tavoli salgono sulle pareti laterali, dove vengono proiettati ad audio libero, cioè senza cuffie, 28 film, praticamente tutto quello che esiste a testimonianza delle sue azioni, rintracciati nell’archivio olandese Lima, uno dei migliori di media art. Ogni tavolo crea un miniracconto attraverso ciò da cui è partita una performance o da ciò che ne rimane. Ma alcune opere, come «Ilad of the bic art, the bic art room» del 1981, hanno creato altre azioni, per cui si estendono su più tavoli. La mostra, abbinata a un catalogo edito da Skira, parte dalle prime provocazioni da enfant terrible della pia e borghese Anversa, come «Money Performance» del 1979 quando Fabre bruciava i soldi degli spettatori o i disegni realizzati col proprio sangue o altri fluidi organici, e arriva fino ai lavori recenti come «Virgin/Warrior» con Marina Abramovic, al Palais de Tokyo di Parigi nel 2004.
Il 16 e 17 ottobre per il Romaeuropa Festival «The Power of Theatrical Madness/ Troubleyn» ripropone poi un lavoro dell’84 nell’allestimento originale.
Pure da non perdere, fino al 26 gennaio, «The Cast. Clemens von Wedemeyer», a cura di Giulia Ferracci. Classe 1974, attualmente borsista all’Accademia Tedesca di Villa Massimo, Clemens von Wedemeyer presenta quattro nuove videoinstallazioni sul filone del confronto tra cinema e arti visive su cui verte il suo lavoro. «The Cast» è un’opera complessa in quattro atti. «Afterimage» e «The Beginning: Living Figures Dying» smascherano la messa in scena filmica, il primo entrando in soggettiva nel famoso laboratorio di scultura Cinears di Cinecittà che ha rifornito colossal come «Ben-Hur» e «Cleopatra» e film d’autore come «Salò» di Pasolini, il secondo con un’installazione fatta di brevi frammenti di pellicole storiche proiettate sul pavimento vetrato della Galleria 5 trasformato in asse di scorrimento di un film. Il terzo atto, «Procession», è un viaggio nella storia d’Italia dal 1937, anno di fondazione di Cinecittà, fino al Teatro Valle occupato nel 2011. Conclude «Remains & The Myth of Deucalion and Pyrrha» ispirata al mito del diluvio universale nella versione delle Metaformosi di Ovidio. Progetto sviluppato in collaborazione con Paolo Caffoni, coeditor del catalogo Archive Books.

da Il Giornale dell'Arte numero 335, ottobre 2013