Senza cultura non è che non si mangia, non si vive
A che punto siamo in Europa sul tema «Cultura e Innovazione»?
Ormai è di evidenza assoluta che la Cultura è un fattore di innovazione non solo per il settore di appartenenza- intendo il settore creativo in generale - ma per tutta la filiera.
Il territorio, la dimensione glocal, il patrimonio materiale e immateriale, gli stili di vita e i paesaggi, i beni culturali, architettonici e storici sono tutti elementi di competitività dell'Europa, del suo brand, sui quali impiantare la strategia di rilancio per costruire il futuro.
La globalizzazione è la sfida per il sistema Europa. La nostra diversità culturale non è un ostacolo, ma una ricchezza. Ma a fianco della globalizzazione, altre sfide si giocano sui fronti dell'innovazione tecnologica, della digitalizzazione e della rete, della creazione di nuovi pubblici . Sul tema dell'audience engagement siamo ancora fragili: manca la dimensione del racconto e dell'interazione. E lo siamo anche nella diffusione e apprendimento culturali che favoriscono una maggiore consapevolezza del singolo nella lettura del mondo contemporaneo.
Da questo punto di vista segnalo che la recente Convenzione di Faro, approvata dal Consiglio d'Europa, sta innovando profondamente due concetti: il diritto alla Cultura e la responsabilità verso i beni culturali e verso il patrimonio. Su questi capisaldi, la cultura giuridica europea deve esercitarsi di più.
La crisi ha ben mostrato che se non si gioca sulla leva dell'intelligenza, dell'inclusione e della sostenibilità, l’Europa perde la sfida con le Economie emergenti.
Sulla cultura, il trattato di Lisbona parla di tre ambiti in cui l’Europa è legittimata a intervenire. La salvaguardia/promozione/valorizzazione del patrimonio, materiale e immateriale (convenzione Unesco, etc.).
L'industria culturale e creativa, cioè l'imprenditoria, in particolare attraverso linee guide che sono state oggetto di un libro verde, chiaro in termini di competenze, processi e interrelazioni necessarie.
Le politiche europee per la tutela e valorizzazione delle diversità culturali, che traducono il concetto dell’assunzione della dimensione culturale come dimensione politica fondamentale. Questo piccolo bagaglio è il framework europeo di riferimento.
A fianco della Convenzione, un'altra evoluzione riguarda il PIL. Attualmente cominciamo a ragionare con indicatori diversi dal solo elemento economico. Anche l’Italia si sta adeguando.
Il PIL sta integrando gli indicatori di benessere, dove la Cultura dimostra il suo valore per costruire istanze innovative. La Cultura produce il 4-7% del PIL dell’Unione Europea con 6 milioni di addetti. Per oltre il 59%, le industrie culturali impiegano profili occupazionali di alto livello formativo: ciò significa maggiore qualità e di riduzione della disoccupazione intellettuale, soprattutto nelle fasce deboli dei giovani, contraddistinte da profili di alta competenza.
Questo ci permette una lettura inedita della Cultura, come pilastro della sostenibilità, a fianco di istanze ambientali, sociali.
E in seno al Parlamento Europeo?
Sono rassicurata dal fatto che il quadro concettuale della strategia 2014-2020 sia più strutturato verso questa visione traversale a favore dell’Industria culturale. Mi sono impegnata personalmente affinché il riferimento alla cultura fosse presente in Horizon 2020, il programma per la ricerca e l’innovazione, per il quale sono previsti 70 miliardi, ma la massima attenzione viene riservata alle risorse previste dai Fondi Strutturali, all’interno delle quali , nello sviluppo dei piani regionali, possono prevedersi infrastrutture e servizi per la cultura. La stessa cosa vale per la linea di finanziamento afferente allo sviluppo rurale, che possono includere servizi culturali e interventi sul patrimonio se rilevanti per lo sviluppo del territorio. Accanto a tutto questo, ci sono le risorse espressamente destinate alla cultura e alla creatività previste da Europa Creativa, che ammontano ad 1,4 miliardi.
Mi preoccupa anche l’egemonia culturale di stampo nordico, che attribuisce all'innovazione un’accezione prevalentemente legata allo sviluppo della tecnologia. In questa visione, l'innovazione sociale è una sorta di bene aggiuntivo. Nell'inclusività sta il tema dell'ampliamento dei pubblici come dimensione sociale, come momento nel quale anche la domanda contribuisce attivamente alla costruzione dell’offerta e non rimane in una situazione passiva, attraverso una capacità di racconto del patrimonio culturale in un modo che sia accessibile. L'accesso del cittadino al bene culturale non è una variabile indipendente dal sistema.
Ci vuole più capacità di influenzare le piste di ricerca europee: la politica si sente disarmata se non ha accanto dei dati di ricerca e delle dimostrazioni. Ho costituito un gruppo per inserire come pilastro il patrimonio culturale dentro le key actions dei Fondi Strutturali, ma io la ritengo una battaglia vinta solo a metà. L'Europa non ha messo come obiettivi strategici la cultura e il turismo, solo per un pugno di voti. Ha una visione tradizionale del Patrimonio, come bene archeologico. L’immateriale, sebbene fra gli obiettivi del Trattato di Lisbona, nelle sedi operativenon viene ancora percepito.
Senza cultura non è che non si mangia, non si vive. Senza cultura non si innova nessun processo, non si crea ricchezza aggiunta, non si compete in Europa, non si circola a nemmeno, non si va da nessuna parte.
E per l’Italia?
Il discorso si sviluppa su diversi fronti. Per prima cosa, l’educazione: l’innovazione passa attraverso i curricula didattici, perché alza il livello culturale, in particolare con le discipline umanistiche, che riconoscono il valore della dimensione culturale come bene pubblico e personale, allineandosi molto alla filosofia della Convenzione di Faro del Consiglio d’Europa (ottobre 2005). Oggi in Italia abbiamo sicuramente un problema di curricula scolastici, gravemente ridimensionati a scapito delle aree umanistiche. Per esempio in Finlandia, hanno scelto di inserire la filosofia in tutti i percorsi scolastici, riconoscendone il valore formativo fondamentale.
Secondo, l’innovazione si fa attraverso il tema del patrimonio storico-artistico e dell'ampliamento dei pubblici: non si possono solo allocare energie e risorse per la conservazione e la promozione generale, ma occorre interrogarsi, individuare dei target e su questo fare delle azioni molto più mirate anche in collaborazione con le imprese, con gli enti locali. Considerato che molte imprese si sono aperte alla progettazione in campo culturale, o comunque danno il loro contributo, bisogna ragionare i termini di costruzione di partnership.
Infine, l’innovazione sociale va stimolata sul tema dell’ accesso alla cultura, inteso non solo come calendario di eventi ai quali partecipare, ma come occasione civica di formazione collettiva. Ci sono diverse forme di eventi che creano innovazione sociale e culturale, che sono modelli da esportare. Penso i Festival, come quello della Filosofia di Modena o della Letteratura di Mantova. Questi momenti corali devono essere monitorati per gli impatti sociali che generano e non solo per gli indotti di mercato.
Quali sono le azioni da intraprendere?
Ho proposto alla Dott.ssa Antonia Pasqua Recchia di lavorare sul tema dell’attivazione dei pubblici. Bisogna stabilire dei parametri generali sui quali fondare un monitoraggio e delle ricerche. Le nostre ricerche sono fragili: non abbiamo la panoramica completa. Stiamo per affrontare la scommessa di Europa Creativa, con l’arrivo di risorse anche per alimentare un fondo di garanzia del FEI (Fondo Europeo per gli Investimenti), per stimolare le istituzioni finanziarie nazionali a fare credito alle imprese creative.
In seno all’ABI ho proposto di creare un pool di esperti, facendo leva anche sulle fondazioni, affinché implementino il fondo di garanzia. Parallelamente il Ministero sta cercando di sensibilizzare gli interlocutori perché si partecipi al bando e si faccia un lavoro omogeneo.
In questo Paese manca la governance in tema di gestione dei fondi europei: ci troviamo con realtà locali più avanzate di intere Regioni, che non sanno programmare la spesa. La pianificazione culturale sul territorio è la base sulla quale costruire la strategia di impiego delle diverse tipologie di fondi che l’Europa mette a disposizione. Non i progetti che inseguono i fondi, ma i fondi che assistono i progetti. Questo si raggiunge solo grazie a tavoli integrati di confronto.
Nuove tipologie di offerta e nuovi strumenti di valutazione di impatto…
Esattamente. Oggi le competenze si acquisiscono anche con canali informali, extra-scolastici, come la prestazione di tempo volontario per la buona riuscita di eventi come i festival. Il volontariato innova il terzo settore e la cultura, perché stimola le competenze «di cittadinanza» che sono fondamentali. Questo tipo di offerta genera nuovi indotti economici sui servizi accessori, nonché stimola la riforma della didattica, che deve approcciarsi con nuove tipologie di spazi di apprendimento.
Il valore risiede nelle comunità.
Le persone garantiscono il valore di un bene comune, perché ne percepiscono il ritorno in termini sociali, di comunità. E su queste leve che dobbiamo lavorare, non certo su forme di assicurazione dei beni. E perché sia un valore la cultura deve trasformarsi in occasione di rigenerazione. Capire quale sia un progetto culturale che funziona, diffonderlo, capire dove funziona, come si misura, come si guarda uscendo dai parametri economici è la sfida del settore. Questo è l’orientamento che perseguo. Basta con il dover giustificare gli investimenti culturali, come fossero un lusso in tempi di ricchezza, oppure un vezzo minore di fronte ad ben più serie priorità. La Cultura produce. Tutto ciò è chiaro a livello teorico: vorrei non doverlo sempre dimostrare in termini economici, ma piuttosto in termini di coesione sociale, di dialogo interculturale, d'innovazione anche in altri campi e di capacità. La Cultura è strumento di comprensione concettuale che favorisce il pensiero e genera l’alternativa alla situazione difficoltosa.
Sotto un certo livello di sviluppo culturale, la società non trova la forza per innovarsi. Vorrei raccogliere tanti studi per dimostrarlo con chiarezza. Un recente studio sull'indotto del festival «Made in Italy» di Mario Abis dell 'Università IULM, dimostra che per un euro speso ne ritorna uno e mezzo in termini economici. A questo si aggiungono tutt’altra serie di indicatori di sviluppo territoriale e di maggiore sensibilizzazione alla cultura, che aumentano i pubblici, contribuendo anche ai flussi turistici, e dunque all’incontro e scambio di culture ed infine alla coesione sociale. Elementi che quasi portano a dire che dove c’è Cultura, non c’è guerra….peccato non poterlo dimostrare. Azioni di volontariato, le esperienze di condivisione e co-costruzione di contenuti culturali fra i ragazzi, e altre fasce d’età, sono momenti forti di formazione e accrescimento verso una cultura della solidarietà e cittadinanza. Anche su questi temi va fatta leva.
Sarà per queste strade che va percorsa la sfida del rilancio del settore culturale. L'Europa si sta muovendo?
L'Europa ha come obiettivo la coesione sociale di tutti i popoli che la costituiscono, l’innovazione sociale, l’ampliamento del pubblico e la formazione continua anche informale e non formale, in percorsi non tradizionali. In questo spazio, la Cultura può sperimentare fortemente.
Quali esperienze interessanti ha conosciuto che si muovono nel solco dell’innovazione sociale a base culturale?
Molte nel crowdfunding che generano conoscenza ed adesione, prima che denaro. Trovo interessante l'Associazione dei Borghi Artistici di Teresa Mariani, che chiama artisti a riattivare piccoli borghi abitati da anziani, per riportare vitalità. Da questa esperienza ad esempio è stato rigenerato un borgo morto in Molise. Dobbiamo continuare su strade come queste.
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