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Se neanche la lingua, cosa?

  • Pubblicato il: 23/03/2012 - 03:50
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Carlo Olmo
Carlo Olmo

Quasi ogni giorno si alza un lamento, una rivendicazione, un grido d’allarme sul destino della cultura in Italia. Quasi ogni giorno si accumulano proposte sulla valorizzazione possibile di musei, piazze, monumenti, collezioni. Quasi come i disegni di Ursel e Karl-Ernst Herrmann accompagnano la bella messa in scena nel 1991 de Il flauto magico, così un registro sembra mettere in scena l’altro.
Certo è sempre più evidente e dichiarato il disagio generato dai vuoti d’iniziativa ministeriale di fronte a quest’anima doppia del problema. È indubbio che il ministero, non il solo ministro, dei Beni culturali denunzi un’incapacità a decidere. Lo fa su piccole cose, ma molto influenti nel ribadire l’approssimazione con cui si muove la politica italiana: è ad esempio il caso della nomina del responsabile del Padiglione Italia alla Biennale di architettura che si apre il 29 agosto a Venezia. Lo fa su grandi cantieri di restauro, da Brera a Pompei, dove pure esisterebbero risorse da spendere. Ma non è solo il Mibac a presentarsi senza costume al ballo Excelsior. Il ministro, ma anche in questo caso il ministero, dell’Università e della ricerca scientifica hanno portato come esempio virtuoso la Finlandia, paese dove per accedere a ruoli dirigenziali nella pubblica amministrazione occorre il dottorato di ricerca. Problema insieme di produttività del settore pubblico e di capacità di un paese di non «sprecare» risorse umane su cui tanto ha investito. Ma così è, cambiando scala, per l’agenda digitale, programma europeo fondamentale rispetto al quale l’Italia è in ritardo. Piani diversi che hanno in comune l’assenza di strategia e trasparenza; mentre, un po’ paradossalmente, sono accumunati dall’assenza di spese o di nuovi investimenti.
Altri e più delicati piani riguardano lo scivoloso terreno della valorizzazione e l’illusione che grande sia bello. I due piani non sono troppo distanti. Entrambi confondono il mezzo con il fine. Valorizzare è parte di una democrazia deliberativa che sa riconoscere le «cose» su cui può agire, che rifiuta una tecnica senza valori, che postula la possibilità dell’autocorrezione. Al di là di una spending review che si auspica presto possa partire, non si capisce quali processi di valorizzazione seguano queste linee. Lo stesso dicasi per l’incredibile ammucchiata che l’applicazione della legge Gelmini sta producendo nelle strutture e nelle attività di ricerca dell’università italiana, finendo con l’annullare anche in questo caso il senso stesso di una ricercata democrazia deliberativa e generando un consociativismo che ne è proprio la negazione.
Ma come per le scene e i disegni degli Herrmann, per rimanere alla metafora iniziale, è forse necessario pensare che un po’ di autocorrezione, forse di autocritica, sarebbe necessaria anche per i protagonisti della scena culturale. A iniziare da una difesa della lingua, come lingua viva e mutevole. In Italia si assiste a paradossi quasi irrintracciabili anche nelle pièce teatrali di Jean Anouilh. Quasi tutte le comunità scientifiche italiane, con diverse e forse ragionevoli motivazioni, scrivono non solo in inglese, ma su riviste nate e progettate in paesi anglosassoni. Si può arrivare al grottesco di un Politecnico, quello di Milano, che sembra voglia offrire tutti i suoi corsi di laurea magistrale in inglese. Al di là del mix di provincialismo e di subalternità che denunziano, queste scelte evidenziano anche una mancanza di memoria, preoccupante in comunità scientifiche: la scelta dell’inglese come lingua unica delle comunità scientifiche sembra quasi una nostalgia del latino un po’ maccaronico, mi si consenta l’ironia, da cui si distaccarono tra fine Cinquecento e inizio Seicento per prime proprio le scienze esatte, valorizzando con le loro lingue la loro cultura. Da dove inizia la resistenza della cultura all’essere messa in discussione proprio come common good e non come privilegio di pochi? Forse dal saper fare della propria lingua (con tutto quel che significa) il veicolo di un incontro tra società che è però minato da una doppia cattiva interpretazione del multiculturalismo: quella che a produrlo sarebbe il mercato e quella che implichi l’affermazione di tecniche e organizzazioni prive di valori.
La cultura e la lingua sono risorse i cui sistemi valoriali diventano fonte di diversità, di confronto, di ricchezza e non d’identità e muri di ogni specie, se non di fondamentalismi, solo se sono viste come risorse, non come «riserve». Quello che sta, purtroppo silenziosamente, avvenendo è un nuovo distacco tra lingua delle comunità scientifiche e lingue parlate. Quale idea di cultura e società nasconda questo processo, si può lasciare all’immaginazione di chi legge. Non c’è invece bisogno d’immaginazione per verificare che cosa producono inerzia e tecnocrazia nelle scelte delle politiche ministeriali sulla cultura.
 
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Editoriale, dal Giornale dell’Architettura numero 103, marzo 2012