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Ritorniamo alla necessità sociale dell’arte

  • Pubblicato il: 12/09/2016 - 17:12
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI PER LA CULTURA
Articolo a cura di: 
Valeria Ferro

In occasione della 13° edizione del Festival della Mente di Sarzana, ai margini della sua relazione pubblica incontriamo Anna Ottani Cavina, storico dell’arte, alla quale si deve la nascita della Fondazione Zeri di Bologna. Con lei ci siamo confrontati sul ruolo dell’arte nella complessa contemporaneità.

A Sarzana incontra il pubblico proponendo una riflessione sul paesaggio nell’arte. Può indicarci i punti cardine della sua relazione?
Negli ultimi anni mi sono ritrovata ad affrontare il tema del paesaggio tra Settecento e Ottocento, quando il paesaggio assume un ruolo davvero importante: non è più lo sfondo, cornice, ma diventa il soggetto stesso dell'opera d'arte.
I pittori iniziano a uscire dal loro atelier e a dipingere en plein air, anche sulla scia delle nuove suggestioni filosofiche di ritorno alla natura di Rousseau e Schelling.
A Sarzana parlo di un paesaggio che è quello dell'Italia di fine Settecento, un’Italia che non ha più la leadership culturale del Rinascimento, ma rimane comunque teatro dove tutto succede, in cui la pittura en plein air ha il proprio momento di gestazione. Uscire all’aperto significa per i pittori dotarsi di strumenti diversi, cambia la tecnica e anche il modo di dipingere: abbreviato, veloce, sintetico come fosse un abbozzo. In quegli anni quando la fotografia ancora non esisteva, l'immagine che l'artista costruiva è ancor oggi quella che ha plasmato la nostra idea dell'Italia, con elementi riconoscibili per sempre.

Quale rapporto ritiene ci sia oggi tra arte e paesaggio?
Negli anni si è sviluppato un rapporto tra gli uomini e il paesaggio che non deve essere inteso in chiave nostalgica e di rimpianto, ma di amicizia, di “amistà” come scriveva Vasari. Noi viviamo in un mondo antropizzato e indubbiamente il destino dell'uomo è quello di intervenire sul paesaggio; non possiamo pensare di vivere come se fossimo in un museo. Ciò non esclude un atteggiamento di rispetto nei confronti del reale, senza quelle violazioni così mostruose che spesso la pressione economica determina.

In che modo oggi ci confrontiamo con l’arte del passato?
A Washington e a Londra ci sono dei dipinti di Corot che hanno celebrato luoghi oggi dimenticati, come ad esempio Terni, dove le acciaierie hanno fallito e l'aspetto industriale è in decadenza. Sarebbe utile rileggere questi luoghi alla luce di questi cammini, per cercare di renderli vivi di nuovo. Mi riferisco ad esempio al Ponte di Narni, alla cascata delle Marmore, il borgo di Papigno o al lago di Plediluco. Occorre lavorare affinché la memoria non vada perduta.

A suo avviso qual è oggi il ruolo dell’arte?
La conoscenza delle opere del passato, con ricadute collaterali importanti ma non così determinanti come avviene per altri canali di comunicazione oggi più incisivi, può aiutarci a vivere meglio in questo mondo. In passato l'arte aveva una grande incidenza sulla realtà, quando le persone non sapevano né leggere né scrivere le immagini diventavano l'unico strumento di comunicazione. L’arte può indubbiamente aiutare l’uomo moderno a comprendere e a rispettare la bellezza del mondo che ci circonda.

In che modo l'osservatore oggi si rapporta con l'opera d'arte?
Credo che sia cambiata l'opera d'arte. Ogni opera d'arte richiede uno schema di lettura diverso, ma in qualche modo nel leggere un dipinto del Trecento, del Rinascimento, dell'Ottocento o Informale, alcuni meccanismi percettivi funzionano allo stesso modo.
Tutto è cambiato profondamente quando quando sono subentrate pratiche diverse, come ad esempio la body art, la performance, la land art.
La Tate Modern di Londra, ad esempio, ha sostituito per prima il canonico schema di allestimento cronologico con quello per aggregazioni tematiche, più accessibile certamente per i visitatori di massa.
È molto difficile decifrare il presente, ma è chiaro che un certo modo di leggere l'opera del passato è messo un crisi dall’esigenza di catturare l’attenzione degli spettatori.

Sempre di più si parla di audience engagement, un processo di apertura e coinvolgimento del pubblico. L'arte sta diventando trasversale?
Sul paesaggio, ho pubblicato un libro intitolato “Terre senz'ombra” con Adelphi, editore magnifico ma non specialista del mio settore: il mio sogno era quello di andare oltre i recinti della disciplina, mantenere una certa specificità del tema, avere un pubblico colto, ma trasversale.
Parlando di musei invece trovo che sia sbagliato che un museo esista in funzione al numero dei suoi visitatori. Se si vuole consegnare alla generazione successiva un mondo è necessario fare un esame di realtà, e non vantarsi esclusivamente dei numeri.
A mio parere per questo motivo il Louvre è stato stravolto, ma non la National Gallery di Londra che ha mantenuto la sua realtà.
Poi ci sono altri casi estremi come la Gemäldegalerie di Berlino, meravigliosa ma poco visitata. Tra la marginalità e l'eccesso ci dovrebbe essere una buona via di mezzo. In Italia invece manca totalmente la didattica museale, aspetto fondamentale nei musei americani.

L'arte è figlia del proprio tempo. Come sarà a suo avviso quella del futuro? Quali nuove sfide o prospettive potrebbero aprirsi?
Ho fatto parte per otto anni del Comitato scientifico di un ente francese, la Fondation de France che è il più grande collettore di denaro pubblico in Francia, che destina molti fondi alla ricerca scientifica e all'arte. Un progetto molto interessante è quello dei Nouveaux Commanditaires, portato anche in Italia, che ripristina il rapporto tra artista e committente. Da una necessità, da una richiesta, vengono individuati degli obiettivi: una città da valorizzare, una prigione o un ospedale da riqualificare, una montagna abbandonata. L'artista elabora poi un progetto partecipato, il quale risponde a quelle esigenze specifiche. In questo senso l'arte dovrebbe tornare ad avere una sua necessità dal punto di vista sociale, ad interpretare e a soddisfare dei bisogni.

Lei ha creato e diretto una straordinaria fondazione, fondamentale patrimonio al lavoro per la ricerca, per la formazione delle nuove generazioni di studiosi, con una statura internazionale. Cosa può insegnare questo percorso di cooperazione tra pubblico e privato alle altre istituzioni italiane.
La mia idea, molto chiara, era quella di dimostrare che se una persona in Italia - Federico Zeri in questo caso - fa un dono a un ente pubblico, questo dono non va dimenticato. In sette anni abbiamo elaborato il database della pittura italiana, gratuito e fondamentale strumento di ricerca per intere generazioni di studiosi.
È stato molto difficile, soprattutto all'inizio, perché Federico Zeri ha lasciato a Bologna la fototeca, bene straordinario e assoluto, la biblioteca e la sua villa, ma non avevamo fondi. Il Rettore dell'Università di Bologna Pier Ugo Calzolari si era reso conto dell'importanza del progetto ed è stato lui a conferirmi l'incarico. Nel database con l'intera fototeca di Zeri, oggi ogni opera d'arte è corredata da una ricca quantità di informazioni legate anche alla provenienza e ai proprietari, un valore aggiunto incredibile. La nostra fortuna è stata quella di aver trovato un rettore molto intelligente e l'appoggio da parte di Microsoft, di Unicredit e della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna che, credendo nel progetto, ci hanno aiutati in fase iniziale.
Condividere progetti dagli esordi, farne comprenderne il valore territoriale è la chiave per la cooperazione tra pubblico e privato.

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