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Riforma. Subito e con ogni mezzo

  • Pubblicato il: 26/02/2014 - 20:56
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Marco Cammelli

Al Ministro Franceschini, in queste ore, non mancheranno certo infiniti consigli più o meno autorevoli e disinteressati. E, d'altra parte, anche sul tavolo non mancano dossier, alcuni anche con scadenze ravvicinate. Dunque, mi asterrò da qualunque indicazione di principi ispiratori, obiettivi da perseguire, agende da verificare o aggiornare, opzioni e nodi da sciogliere.
In un ambiente ricco (anche troppo) di giudizi di valore, mi limiterò a riferire tre fatti e a trarne una conseguenza.

Fatto1. In un immobile privato sottoposto a vincolo la proprietà, intendendo ripulire la facciata da una scritta non particolarmente raffinata e con l'occasione tinteggiare la medesima, comunica alla competente Soprintendenza tale volontà allegando un paio di fotografie così come previsto proprio per semplificare questi casi da un apposito accordo tra Direzione regionale, Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici e Amministrazione comunale. Può darsi che serva anche qualche cos'altro, ma questo eccesso di semplicità probabilmente urta gli uffici competenti che in una piccata risposta, dopo avere precisato che non di comunicazione si tratta ma di autorizzazione, richiedono (sic!): istanza in carta legale, relazione storico-artistica, relazione tecnica descrittiva dei materiali e dello stato di degrado, con diagnosi delle cause e ammaloramenti riscontrati, programma degli eventuali esami di laboratorio e delle indagini necessarie alla definizione degli interventi, puntuale descrizione degli interventi conservativi proposti e, infine, documentazione grafica e fotografica. Il tutto aggiungendo che la cosa può essere fatta solo da un architetto ma che si «consente, limitatamente alla parte tecnica dell'intervento, l'affiancamento di un ingegnere». A questo punto, ovviamente, la proprietà rinuncia all'intervento lasciando l'immobile, e cioè il bene culturale oggetto di tutela, nello stato di degrado a cui è stato ridotto fino a quando un provvidenziale ripensamento del titolare della Soprintendenza, evidentemente non condiviso dai sempre più piccati uffici che infatti non siglano la comunicazione, legittima la soluzione semplificata da cui si era partiti.

Fatto 2. Il regime dei beni degli enti privati non profit è stato equiparato di recente, in base a una espressa disposizione di legge, a quello degli enti pubblici: in breve, a certe condizioni temporali (edifici o opere dopo un certo numero di anni), fino a che non ne sia verificato il potenziale interesse culturale a questi beni si applicano in via cautelativa tutte le disposizioni di tutela che varrebbero se tale interesse ci fosse. Il che comporta la necessità di interventi autorizzatori della Soprintendenza non solo per la eventuale vendita o esportazione del bene ma su ogni altro aspetto: dalle condizioni ambientali di conservazione al prestito, alla esposizione in mostre ecc. L'intento è evidente e la misura sacrosanta, ma quando tutto questo viene esteso anche a enti come le fondazioni di origine bancaria particolarmente dotati di beni mobili, i nodi vengono al pettine. È chiaro che è interesse di questi enti sapere che cosa hanno in casa e dunque distinguere ciò che riveste interesse in modo riconosciuto, e dunque da quel momento in poi sarà a tutti gli effetti un bene culturale, da ciò che non lo è e che può dunque essere liberamente spostato, restaurato, prestato o venduto. Ma le Soprintendenze spesso non sono in grado di affrontare in via ordinaria un compito come questo che può riguardare centinaia di beni mobili per ogni fondazione e così in qualche zona, grazie alla disponibilità degli uffici competenti, si sta cercando di porvi mano con risorse aggiuntive messe a disposizione dalle fondazioni e la definizione di procedure semplificate.

Fatto 3. Riguarda l'organizzazione interna e il funzionamento delle Soprintendenze. È dato ormai acquisito (saggi di Bruno Zanardi) che la pur dovuta catalogazione dei beni architettonici non è più effettuata da decenni, che sovente la procedura informatizzata definita dal Ministero per il riconoscimento dell'interesse e l'apposizione del vincolo (www.benitutelati.it) non è utilizzata né, quando lo si voglia, utilizzabile anche per problemi legati alla gestione del sito ministeriale, che lo stesso archivio dell'ufficio vincoli in molti casi non è informatizzato.
Poi ci sono le condizioni di ordinaria complessità e confusione, vere e proprie stratificazioni normative che rendono difficoltosa la gestione dei siti culturali tra codice civile, codice degli appalti, codice dei contratti pubblici, codice dei beni culturali, linee guida per la valorizzazione, regolamento per la specificazione delle linee guida, inevitabili circolari per la comprensione del regolamento e così via. Il che certo non aiuta, come tutto ciò che fin qui ho richiamato, il rapporto tra pubblico e privato che ogni giorno appare più centrale, ma che non si può neppure avviare senza una seria «sistemazione» della parte pubblica.

Mi fermo qui. Non sfioro neanche le decine di temi «alti» che sono sul tappeto nei quali ilpathos dei principi, spesso frutto di pura ideologia, e la più prosaica cura degli orticelli sindacali, professionali, accademici, mediatici e imprenditoriali degli addetti ai lavori fanno aggio sull'analisi delle cose, sui vincoli di fatto, sulle soluzioni possibili.
Chiedere per la cancellazioni di un graffito una documentazione degna dell'intervento di restauro di una cattedrale, estendere discipline vincolistiche senza essere in grado di verificarne (se non in tempi biblici) la reale necessità, non essere in grado di utilizzare anche le (ridotte) strumentazioni informatiche poste a disposizione, non solo non riduce ma aumenta giorno per giorno i problemi e il carico di adempimenti cui queste amministrazioni dovrebbero far fronte. Dovrebbero, si è detto, perché così non è.
Mi limito allora a dire che di fronte a queste serie difficoltà di organizzazione e funzionamento, è consigliabile sospendere il (doveroso) dibattito culturale sui sacri principi e sulle macrotipologie organizzative, perché qui siamo di fronte a una amministrazione che rischia di non essere più in grado di assicurare l'espletamento minimo delle proprie attività ordinarie. E domani, è troppo tardi.
Tutto questo infatti ha costi enormi per i privati e le politiche pubbliche, per le imprese e per le istituzioni non profit. Ma soprattutto ha costi enormi per la stessa amministrazione di tutela: costi interni, perché in queste condizioni i sacrifici (autentici, a volte ben al di là dei doveri professionali da assolvere) di dirigenti e funzionari (sono tanti, e ognuno di noi ne conosce più d'uno) rischiano di essere annullati dalle disfunzioni globali del sistema; ed esterni, perché non c'è legge che tenga senza la base di un riconoscimento e di un consenso sociale che rendano accettabili sacrifici e costi imposti per le finalità di interesse pubblico assegnate. E se le disfunzioni superano un certo livello, che come si vede non è lontano, viene erosa la legittimazione stessa della funzione pubblica di tutela, con le conseguenze che si possono immaginare.

Signor Ministro, non so quale siano le prospettive e i punti di arrivo del Suo Ministero, posso parlare solo di un punto di partenza. Sono convinto infatti che anche la riforma del Ministero non debba partire dall'alto e dal numero delle direzioni generali ma dalla base e da questi problemi, per risolvere i quali è giusto ricorrere subito a ogni mezzo.
Mi permetta di insistere: subito, e con ogni mezzo. Perché se questa sarà la determinazione, sono convinto che anche i «mezzi», cioè le risorse, non sarà impossibile trovarle.
Buon lavoro e buona fortuna: per Lei e per noi.

Marco Cammelli,
Presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna

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