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Re-incanto, “guerra di posizione”, educazione al futuro: la progettualità culturale in Italia, oggi

  • Pubblicato il: 16/09/2016 - 22:56
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Pier Luigi Sacco

In risposta all’era del disicanto weberiano del secolo di cui siamo figli, 500 anni dopo la pubblicazione dell’opera più famosa di Tommaso Moro, l’Utopia, l’economista Pier Luigi Sacco, quest’anno da Harvard, evocando Gramsci, propone un tema caro a questa testata, “Coltivare il re-incanto”, partendo dalle politiche culturali per costruire “l’isola che non c’è”: una società che non solo esite, ma prospera felice, in cui cultura e buonsenso guidano la vita degli uomini, colmando la distanza tra reale e ideale. Da una dura e lucida diagnosi del noto professore emergono proposte a cui necessita ”imprenditorialità politica” perché “il privilegio di assistere a momentanee, preziose epifanie del senso non può bastare”..

Per descrivere la situazione italiana di questi anni nel campo delle progettualità culturali, forse le categorie più utili sono quelle del disincanto e del re-incanto. L’esperienza del disincanto, in Italia, sembra una sorta di condizione necessaria di sopravvivenza psicologica. Bisogna abituarsi a considerare normale il fatto che qualunque idea progettuale, non importa quanto entusiasmante, efficace o capace di generare nuove energie e visioni in contesti un tempo asfittici, abbia nel nostro paese un ciclo di vita breve e incerto – e spesso non per i limiti del progetto, ma per l’incapacità del tessuto istituzionale in cui si inserisce nel farla davvero propria, nel riconoscersi in una logica trasformativa che entra fatalmente in conflitto con il principio del non decidere, della micro-gestione del consenso che informa le (non-)politiche territoriali italiane da decenni, con il risultato pratico di aver gradualmente ma inesorabilmente trasformato uno dei paesi più vivaci e promettenti dell’Occidente in una palude priva di qualunque idea di futuro che non sia la navigazione a vista del presente.
Il disincanto nasce dal dover accettare il fatto che la cultura, in Italia, sia considerata dalle amministrazioni pubbliche una buona opportunità per fare comunicazione e per sperimentare una retorica dell’identità e della partecipazione utile a fini elettorali, e poco più. Passata la fase del ‘petrolio’ e l’ambizione velleitaria di trovare nella cultura risposte semi-magiche attraverso la semplice evocazione di modelli e formule di cui non si aveva né tempo né voglia di comprendere il senso, le logiche di funzionamento e le condizioni di efficacia, sono rimasti soltanto i ‘grandi eventi’, le costose kermesse il cui unico vero fine, oltre al temporaneo contentino per gli esercizi commerciali locali, è il pieno di visibilità sui media locali, con il possibile rimbalzo nazionale con l’acquisto di vasti publi-redazionali sulle testate di prestigio. Ci sono naturalmente alcune rare eccezioni in questo triste panorama. Ma sono rare, e a quanto pare non fanno scuola.
Il disincanto nasce dal dover accettare l’idea che questa generazione di amministratori locali italiani ha non soltanto per lo più sprecato opportunità e risorse, lanciando segnali fuorvianti ed alimentando aspettative infondate spesso a danno delle forze più attive ed idealisticamente motivate dei propri territori, ma ha anche compromesso definitivamente la credibilità di modelli di sviluppo che altrove stanno generando risultati significativi proprio perché in grado di confrontarsi con culture amministrative mature e responsabili. Con amministratori che prima di decidere si documentano e studiano, impiegano del tempo a capire meglio e a riflettere, e soprattutto che quando decidono di dare inizio ad una progettualità non convocano subito una conferenza stampa, ma al contrario lavorano in silenzio, dialogando con le competenze del territorio in modo sommesso, e danno al progetto visibilità mediatica quando ci sono finalmente risultati da raccontare, spesso dopo un lavoro lungo e dagli esiti incerti. Se il concetto di imprenditorialità politica ha un senso, dovrebbe essere questo: il sapersi assumere dei rischi per trasformare un’idea in una innovazione concreta, sapendo che il fallimento è una possibilità, che ci saranno errori da cui poter e dover imparare, che il risultato finale sarà diverso da quello che ci si aspettava e che, se si sarà lavorato bene, sarà probabilmente molto migliore di quel che ci si aspettava.
Le vicende dello sviluppo locale a base culturale dell’Italia di questi anni, in altre parole, si possono riassumere in un esercizio continuo di frustrazione dell’ottimismo della volontà. Ma ciononostante, e questo è tato incredibile quanto quasi commovente, in Italia continuiamo ad assistere ad un’eccezionale spinta dal basso in termini di progetti, visionarietà inventiva, persistenza nello sviluppare progetti, per lo più autoprodotti, di innovazione sociale a base culturale. E alla base di questa vivacità, che è difficile riscontrare persino in paesi europei dove la cultura della progettualità culturale ha raggiunto uno stadio di maturità molto superiore al nostro (e forse, quindi, proprio per questo), c’è appunto una chiara, esplicita voglia di re-incanto, un desiderio profondo di voler credere che la cultura, malgrado tutto, possa ancora fare la differenza nel nostro paese, malgrado i sindaci che si tengono la delega alla cultura ‘perché la cultura è troppo importante’, malgrado le mostre sugli impressionisti e la parmigiana alle melanzane, malgrado il ‘qui ci vuole un crowdfunding’. La progettualità culturale dal basso italiana, in questi anni, presenta una tale ricchezza di forme e di manifestazioni che qualunque tentativo di elenco rischia inevitabilmente di peccare di omissione. E’ una realtà che si nutre della capacità e della forza di produrre il re-incanto nel qui ed ora, in quei momenti straordinari in cui si riesce a far succedere le cose e sembra davvero che tutto possa cambiare. In questi momenti in cui ci si incontra e ci si riconosce tra persone che hanno scelto, consapevolmente, e spesso rinunciando ad alternative più sicure e certamente più remunerative, di percorrere la strada difficile abbandonando quella sicura, o quantomeno facile. Ma bisogna essere consapevoli che anche questa fioritura, se lasciata a sé stessa, non potrà durare in eterno. Non potrà sopravvivere se non sarà messa in condizione di fare un salto di scala trovando spazi reali nelle politiche territoriali, e possibilmente contribuendo a dare loro forma e direzione.
Questa ‘guerra di posizione’ gramsciana è il presupposto, ma non può essere l’obiettivo. I gesti esemplari, il privilegio di assistere a momentanee, preziose epifanie del senso non può bastare. Il pessimismo della ragione ci dice che se questa straordinaria progettualità dal basso non mette radici nella cultura amministrativa, alla fine resterà soltanto una bella stagione le cui ceneri serviranno ad alimentare le nuove forme del disincanto. Non si può, non bisogna accontentarsi. Non si può, non bisogna accettare l’insipienza degli interlocutori istituzionali come una condizione naturale ed immodificabile. Credo che esistano alcune priorità strategiche su cui è possibile costruire:

  • Ripartire dalle scuole: portare questa progettualità nei luoghi della formazione delle nuove generazioni, per farla diventare patrimonio condiviso, molto più di quanto lo sia ora, in un momento in cui la progettualità culturale in genere predica ai già convertiti. Nelle scuole italiane, oggi, malgrado le enormi difficoltà, si incontra spesso negli insegnanti la stessa voglia di re-incanto che troviamo nelle esperienze più vitali di innovazione socio-culturale dal basso. Ma è una voglia che fa altrettanto spesso fatica ad esprimersi e ad organizzarsi in modo progettualmente efficace. Ed è per questo che un dialogo tra i due mondi può produrre effetti straordinari;
  • Raggiungere la massa critica: la grande quantità di esperienze di cui parliamo è molto frammentata, e questo è inevitabile in una fase di esplorazione e di proposta, ma se si vuole fare il salto di scala occorre trovare nuove forme di coordinamento, di co-progettazione, e soprattutto di rappresentanza e di pressione civile e sociale;
  • Creare opportunità di crescita per gli amministratori: di fronte ai limiti già evidenziati, sarebbe sterile rimanere in una logica di pura contrapposizione, ma occorre essere capaci di fare proposte di crescita e di confronto a cui gli amministratori locali non possano e non vogliano sottrarsi – e questo è uno dei campi in cui in effetti si è ancora provato e sperimentato troppo poco;
  • Cogliere le occasioni: lavorare per far diventare le iniziative dalla potenziale valenza sistemica già istituzionalmente fissate e riconosciute – dal PON alle Capitali della Cultura Italiane ed Europee e alle tante altre opportunità che affollano il calendario dei prossimi anni – i momenti decisivi per fare progressi su tutte e tre le linee di azione precedenti, in un percorso a tappe capace di produrre delle sintesi progettuali temporanee ma efficaci nel costruire le premesse per le tappe successive.

Ci state?
 

 

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