Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

Quo vadis sponsor?

  • Pubblicato il: 18/11/2011 - 09:42
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Pier Luigi Sacco
Pier Luigi Sacco

E’ da tanto che lo ripetono, figuriamoci ora. C’è la crisi, le risorse per la cultura non ci sono, bisogna considerare altre priorità. In Italia lo ripetono da così tanto tempo che verrebbe quasi da crederci. Peccato che poi, guardandosi intorno, si continuano a vedere tante risorse destinate alla cultura, pubbliche e private. Ma il punto è: a quale cultura? Per lo più grandi eventi e grandi mostre, progetti costosi e inutili, scientificamente deboli, fortemente autocelebrativi, che ambiscono ad attirare grandi folle che fanno audience e consenso, imitando, nemmeno tanto inconsapevolmente, i familiari codici della tv generalista, in un’epoca in cui ormai è chiaro che la tv generalista è finita per sempre – anche se da noi, uno dei paesi mediaticamente più incolti d’Europa, si fa ancora fatica ad accorgersene. Per la cultura che prova a sperimentare, a lavorare sul futuro, per quella sì che i soldi non ci sono più, se mai ci sono stati negli ultimi anni in questo Paese.
La crisi non ha investito allo stesso modo il budget culturale di tutti i Paesi. In alcuni casi, è stata proprio la cultura la priorità da difendere, e non soltanto dove esiste una consolidata sensibilità in materia come in Francia, nella Vallonia (il Belgio francofono) o in Finlandia, ma anche in alcuni dei Paesi della nuova Europa come l’Estonia o la Slovenia. Quanto a tagli, invece, nello scenario europeo l’Italia è seconda soltanto alla Grecia. Ma perché dovremmo considerare l’andamento del finanziamento pubblico della cultura in un articolo che si propone in primo luogo di considerare le tendenze in atto nel mondo della sponsorizzazione? La risposta è alquanto semplice: perché i due fenomeni sono intimamente legati. Il sostegno privato alla cultura assume un carattere completamente diverso in un contesto in cui la cultura riceve un adeguato sostegno pubblico rispetto ad un contesto nel quale non la riceve. Nel primo caso, le aziende sono consapevoli di operare all’interno di una visione di sistema che riconosce nella cultura un settore chiave dell’economia e della società, mentre nel secondo esse si sentono chiamate, spesso impropriamente, a tappare le falle lasciate aperte dalla mancata assunzione di responsabilità della mano pubblica – un ruolo, oggettivamente, molto meno motivante e soprattutto denso di insidie, come quella di essere sottoposti, una volta impegnatisi, ad una sorta di ricatto morale nel dover continuare ad assicurare un sostegno a prescindere dalle proprie considerazioni di opportunità, e abdicando così di fatto, almeno parzialmente, alla propria autonomia decisionale. Una minaccia, peraltro, che le imprese hanno già sperimentato sulla propria pelle in altri ambiti, come ricorda il maldestro tentativo portato avanti qualche tempo fa nel voler declinare la responsabilità sociale delle imprese come una sorta di welfare integrativo obbligatorio che supplisse alle carenze e alle inefficienze di uno stato che, a fronte di una pressione fiscale ormai scandinava, non sembra spesso riuscire a garantire servizi e prestazioni pubbliche di livello compatibile con il grado di sviluppo socio-economico del nostro Paese. I ragionamenti sulla inevitabilità dei tagli alla cultura in tempi di crisi non sono che una penosa riproposizione di luoghi comuni, che nascono spesso dall’ignoranza e dall’incompetenza – da cui purtroppo spesso non sono immuni nemmeno coloro che sono chiamati a prendere decisioni chiave in materia. In un momento in cui in Europa e nel mondo si guarda alla produzione culturale e creativa come ad uno dei settori di punta del futuro, con livelli di investimento che nei Paesi emergenti dell’arena culturale non hanno nulla da invidiare a quelli messi in atto nei settori più tradizionalmente associati allo sviluppo economico, l’Italia, che pure in termini di occupazione di settore è uno dei giganti europei (basti ricordare che l’Italia piazza ben 5 regioni tra le prime 25 regioni europee per volume di occupazione culturale e creativa, contro 4 regioni spagnole, 3 tedesche, 3 olandesi, 2 britanniche e 1 francese), non possiede nemmeno uno straccio di strategia industriale, e manda letteralmente allo sbaraglio i propri talenti creativi che sono costretti sempre più a riparare come possono in contesti più ospitali. In un momento in cui si iniziano a comprendere finalmente i legami profondi e decisivi tra produzione e partecipazione culturale e dimensioni chiave del funzionamento della nostra economia e della nostra società – dall’innovazione al welfare, dalla sostenibilità alla coesione sociale, ovvero le grandi partite su cui si gioca in ultima analisi la nostra stabilità macroeconomica e istituzionale, oggi condizionate da una forte ipoteca di sfiducia da parte dei mercati internazionali – in Italia la cultura si riduce ancora, come da decenni a questa parte, all’asfissiante, claustrofobico piccolo mondo dell’indotto turistico e dei grandi eventi. In un momento in cui le nuove generazioni scoprono di poter essere protagoniste di una rivoluzione tecnologica senza precedenti che mette loro a disposizione a costi risibili strumenti potentissimi per la produzione professionale di suoni, immagini fisse e in movimento, testi e ipertesti sempre più complessi e raffinati, ed iniziano ad impiegare al meglio queste possibilità e a condividerle, creando nuove forme di produzione che non passano più necessariamente attraverso il mercato, ma che incidono profondamente sui nostri modelli di creatività, socialità, qualità della vita, in Italia una generazione di ultrasettantenni che probabilmente non è capace nemmeno di mandare una e-mail considera internet una minaccia e lavora a scenari futuri nei quali la priorità è la costruzione del ponte sullo stretto piuttosto che l’investimento sulla banda larga.
E’ in questo clima culturale, politico, sociale, che si chiede alle imprese di investire in cultura. E si continuano a ripetere, in spregio al ridicolo, le solite litanie sulla defiscalizzazione degli investimenti in cultura (che non arriverà mai), sulla grottesca quanto velleitaria idea di affidare alle imprese (quali? quante? come? quando?) la gestione dei beni culturali, sull’ancor più grottesco ritornello della valorizzazione del nostro patrimonio culturale – che si riduce all’atto pratico alla (sconfortante, per ottusità e pochezza culturale) prospettiva di trasformare il nostro Paese in un parco a tema. In un contesto del genere, c’è da sorprendersi piacevolmente del fatto che ci siano ancora privati disposti ad investire risorse nella cultura – ma a questo punto non si può che chiedersi: perché? A che scopo? In un’ottica di puro contributo alla sopravvivenza di un settore di forte sofferenza? Se ci si ferma qui, sommando la ritirata del pubblico e il volenteroso sforzo di un privato privo di coordinamento e di prospettive concrete, il collasso del sistema culturale italiano è solo questione di tempo. Ciò che contribuisce di più alla penosa situazione che ci troviamo a vivere oggi non è tanto la stretta fiscale e finanziaria a cui siamo sottoposti, quanto la consapevolezza di essere un Paese che non ha alcuna visione di futuro, non ha alcuna idea forte di come potrà essere l’Italia a dieci anni da ora, di come potrà mantenere un ruolo di primo piano nello scenario globale invece di diventare una triste periferia dimenticata. Ancora più che di risorse economiche, la cultura italiana oggi ha bisogno di idee, di un pensiero forte che la sappia rimettere al centro di un progetto di sviluppo in cui potersi identificare e da poter portare avanti assieme. Riprendiamo a pensare, recuperiamo un contatto con la realtà, torniamo ad aver fiducia nelle idee, e soprattutto diamogli spazio.
Quo vadis, sponsor? Quo vadis, Italia?

© Riproduzione riservata
Pier Luigi Sacco
Preside Facoltà di Arti, mercati e patrimoni della cultura Università IULM, Milano