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Quest’altra Napoli è tutta da riscoprire

  • Pubblicato il: 19/11/2012 - 13:32
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Giuseppe Salvaggiulo
Napoli

Napoli. Dopo due ore trascorse con lui nelle viscere redente del rione Sanità, anche i superlativi appaiono inadeguati all’impresa compiuta da don Antonio Loffredo in questa città-nella-città, un quartiere di 35 mila abitanti. Stiamo ai fatti: lavorando sul patrimonio storico-artistico del quartiere e mobilitando le energie dei giovani con l’assistenza della onlus «L’Altra Napoli», fondata da Ernesto Albanese nel 2005, ha costruito un modello di partecipazione, solidarietà sociale e sviluppo economico. Cinque cooperative con decine di ragazzi come soci. Attività che spaziano dalla gestione di beni culturali (in primis le catacombe di San Gennaro) ai servizi turistici (guide, un bed&breakfast, un ostello della gioventù), dalla produzione artigianale (mobili, oggetti di design) al terziario (una sala di registrazione). In mezzo, tante attività sociali e culturali, compresa un’orchestra di quartiere, Sanità Ensamble, che coinvolgono migliaia di residenti. L’intervista si è trasformata in un percorso turistico con excursus di urbanistica, architettura, sociologia e storia dell’arte, e don Antonio a fare da torrenziale e coinvolgente Cicerone.

Da dove comincia il nostro viaggio?
Qui siamo davanti alla chiesa chiamata «piccola San Pietro». Negli anni della guerra una monaca pazza sosteneva che la Madonna le avesse detto di costruire sopra le catacombe di San Gennaro una copia della basilica di San Pietro. Un’oscenità. Ciò che è copia, ciò che non emoziona, non è arte. Andrebbe tolto dalla faccia della terra. A meno che, come abbiamo fatto noi, non si utilizzi come contenitore.
Questa è la sala d’accoglienza per le visite nelle catacombe di San Gennaro. Andiamo.

Che cos’è il rione Sanità per Napoli?
Un ghetto nel cuore della città, una periferia nel centro di Napoli: questo budello tra le colline e il mare era ricco, nobile e bello fino all’Ottocento, strategico sia per gli approvvigionamenti alimentari sia per la salubrità dell’aria. Il re e i nobili ci passavano per raggiungere le ville. Poi i francesi fecero l’intervento architettonico che ne cambiò il destino: costruirono un boulevard sopraelevato (forse necessario, ma potevano pensarci meglio) che saliva da piazza Plebiscito fino alla reggia di Capodimonte. È il ponte della Sanità, cinque campate, tutto in tufo, che ci ha isolati per due secoli perché ci passa sopra. Cambia completamente il quartiere, che non è più frequentato e penetrato ma emarginato. Ciò conserva dialetto, abitudini, alimentazione unici (qui nasce Totò), ma produce anche difficoltà economiche e sociali. Così la Sanità diventa famosa per le brutture delle cronache, additato anche nella musica e nella letteratura (Eduardo fa il sindaco del rione Sanità) come luogo di malavitosi.

E per lei?
Io nasco a cinque minuti da qui, i miei nonni stavano in un basso, conosco linguaggi e mentalità. Dopo dieci anni come parroco a Poggioreale, torno nel 2001 per tutte le quattro parrocchie del rione. Ogni tanto qualcuno si stupisce: come fanno quattro parrocchie ad andare d’accordo? Semplice, sono sempre io. Sono un monopolizzatore, ma perché non è facile trovare sacerdoti disposti a venire qui.

Che cosa trova quando arriva qui?
Appena arrivo, constato l’ostilità del quartiere, naturale perché ferito. So bene che prima ti devono conoscere, poi si affidano e non ti lasciano più. Per un anno cerco di seguire i ragazzi, mettendo loro in testa un tarlo. Come? Facendoli viaggiare. Questi ragazzi non hanno scolarizzazione di base, su quaranta iscritti al primo anno di istituto professionale ne arrivano cinque alla maturità. Una decimazione, sia per cattiva volontà sia per incapacità della scuola. All’inizio li faccio viaggiare ovunque, chiedo aiuto ad amici, con tutte le formule possibili.
Prima con me, poi da soli. Nelle capitali europee come a Petra, in Giordania. Ma non è che ti metti a tavolino e dici: ora vi porto al Louvre.
Loro hanno un rapporto corporeo con la realtà, quindi intanto si va. Poi li metti a tavola, fai assaggiare il foie gras, infine li porti anche al museo.
Quando si trovano dentro una situazione, chiedono tutto. E si innamorano della conoscenza.

A quel punto su quali basi è nato il suo progetto?
Primo: i giovani sono la parte preponderante della popolazione (qui la vita è un dono grosso e non si fa largo uso di contraccettivi). Ragazzi normalissimi, destinati a disoccupazione o manovalanza criminale. Secondo: ci sono testimonianze storiche, architettoniche e artistiche di grande pregio. Queste sono le nostre risorse, una miscela straordinaria. La nostra storia. L’idea di fondo è congiungere lavoro e beni storico-artistici.
La bellezza salverà il mondo, non c’è altro da fare in questo quartiere.
Qui anche con la polizia si perde tempo. Il tempo non è perso solo con l’arte, la musica, l’architettura. E ora scendiamo.

Stiamo entrando nelle catacombe, il vostro progetto principale: com’è andata?
Questa è la punta dell’iceberg: le catacombe di San Gennaro, i cimiteri cristiani dei primissimi secoli. Dovendo custodire i defunti, usavano questa zona tufacea. Qui tutta Napoli è venuta a seppellirsi. Quando ci abbiamo messo le mani, era tutta monnezza, abbandono totale. Ora splende.
I giovani hanno fatto un miracolo. Nel 2009 tramite la diocesi hanno ricevuto dal Vaticano la gestione del sito, un esempio di federalismo. Roma ha capito che non poteva gestire questo bene da lontano. I ragazzi hanno costituito una cooperativa, per quattro mesi hanno lavorato giorno e notte perché hanno capito che solo il turismo poteva svenare il ghetto.
Un fatto sconvolgente. Hanno fatto tutto loro. Nessun buco, un progetto perfetto e rispettoso. Pulizia, restauri, impianti, eliminazione di tutte le barriere architettoniche, tanto che queste sono le uniche catacombe al mondo visitabili dai disabili.
Questo perché sono ragazzi della Sanità, sanno guardarsi indietro. Gli affreschi sono fruibili anche dai ciechi con riproduzioni in rilievo fatte dai ragazzi. O l’arte è di tutti o di nessuno.
Dove non si è riusciti a eliminare le barriere, non accede nessuno.

Qual era la filosofia dell’intervento?
Come si guarisce un ghetto? Aprendolo. E comincia un viaggio meraviglioso in un quartiere che ti cambia la vita. Qui c’era una chiesa paleocristiana chiusa da quarant’anni. Ci sono strade murate, perché nel tempo sono state perpetrate violenze architettoniche per tenere sempre più compressi questi mostri, i cattivi della città. L’arte non solo guarisce noi stessi, ma anche il quartiere.

Come hanno fatto i ragazzi a realizzare tutto da soli?
Prima si fa la formazione. Poi i ragazzi formati costituiscono una cooperativa e con fiducia si assegna loro la gestione. Un esempio: seguiti da professionisti, sono diventati illuminotecnici, realizzando un impianto a led citato nelle riviste internazionali di design per la modalità innovativa e non invasiva. Ora la cooperativa lavora con commesse anche dall’esterno.
Qui non c’è mai uno stemma di un ente pubblico. I ragazzi sono imprenditori, altro che aspettare un posto. In un anno i ragazzi hanno raccolto i soldi per riportare alla luce cinque affreschi. L’ultimo restauro risaliva a quarant’anni prima. Due principi. Primo: assorbire disoccupati.
Secondo: puntare sui beni comuni, sull’ecologia, altrimenti come imprenditore sei una chiavica. Lo vede quel ragazzo che parla? Era un «monello»: ora fa da guida in inglese a due turisti canadesi. Quell’altro, dopo il professionale mi viene a dire: e ora che faccio? L’ho mandato a Londra, un anno mantenendosi come gelataio. La mattina al lavoro, la sera a scuola. Tornato, ha deciso di studiare management dei beni culturali all’università. Prende tutti trenta. Così gli altri: lingue, architettura... cose che non avrebbero mai pensato di studiare.

Come scegliete i progetti?
Sostenibilità economica prima di tutto. Non ci illudiamo, non illudiamo nessuno. Partecipiamo ai bandi, per esempio della Fondazione per il Sud o della Fondazione Telecom, accediamo a finanziamenti e convinciamo grandi aziende a supportarci finanziariamente o tecnicamente. Selezionando sempre gli interlocutori. Cultura e arte sono le nostre ali. Quando un ministro dichiara che con la cultura non si mangia, noi per dispetto restauriamo questo affresco del IX secolo, che rappresenta la reazione del vescovo di Napoli Atanasio a un fatto molto grave: il longobardo Sicone aveva messo in ginocchio Napoli violando la tomba di San Gennaro, rimasta vuota. La città era prostrata, questo grande vescovo puntò la rinascita su arte, cultura, canto, scrittura.
Una cosa folle. E noi abbiamo fatto lo stesso, per ricordare un periodo in cui con l’arte si è salvata Napoli.

Come hanno reagito i ragazzi ai suoi stimoli?
Come diceva La Pira, i giovani sono come rondini, sanno dove sta la primavera e ci sanno arrivare, quest’ansia di insegnare non l’ho mai avuta. Io devo solo dare fiducia.

Come mai la salma di San Gennaro si trova qui?
In tutto il mondo cristiano dopo l’editto di Costantino nel IV secolo i vescovi si pongono il problema di costruire basiliche e si cercano i martiri, che sono i numeri uno nella lista dei santi. Noi a Napoli, che non siamo fessi, non siamo mai morti martiri. Qui non ci sono mai state persecuzioni né inquisizioni.
Volevamo un martire e ne prendemmo uno da fuori: San Gennaro, nato a Benevento e morto a Pozzuoli. Un pezzotto, un martire taroccato. Lo mettemmo qua. Il patrono taroccato.

Ora siamo in una chiesa, ma nella navata ci sono sculture contemporanee e si sentono rumori metallici.
Questa è la più antica chiesa dedicata a San Gennaro. Era chiusa. Di proprietà dell’Asl, piena di uccelli, pidocchi, letti arrugginiti. Un delitto. Dopo quarant’anni, i ragazzi l’hanno riaperta vincendo un bando della Fondazione per il Sud. Un anno fa c’è stato il presidente Napolitano, ospitiamo convegni. E in mezzo, arte contemporanea, oggetti di design. Se ne vedono molti, nel quartiere Sanità. Non compriamo nulla, fanno tutto i nostri ragazzi. L’ultimo lavoro è un gadget per un convegno di edilizia: 750 pezzi. E qui, c’è il laboratorio dove vengono progettati e realizzati. Ecco Salvatore, il capo officina. Ha 25 anni.

Il laboratorio artigianale qui, nella chiesa?
Ah, questo concetto molto pagano di sacro e profano io l’ho superato con il cristianesimo molti anni fa. Voi settentrionali siete ancora fermi a quella
divisione?

Che c’entra la Asl?
Questo è l’ospedale San Gennaro dei poveri, aperto dai piemontesi nell’Ottocento. Prima era un ospizio. La logica era di assistere i poveri, ma anche di dar loro un mestiere. La principessa Sissi comprò qui i mobili della sua villa di Corfù, perché gli intagliatori della Sanità erano famosi in tutto il mondo. Questo ospedale chiuderà.
Abbiamo fatto molti pensieri, perché noi anticipiamo i tempi.

Come funziona la gestione delle catacombe?
Se ne occupa la cooperativa di ragazzi «La paranza», che segue tutta la parte turistica, compreso il bed&breakfast
ricavato nell’ex convento, e aiuta anche i ragazzini a viaggiare. Le catacombe attiravano 8 mila visitatori l’anno, in due anni siamo passati a 35 mila. E quest’anno facciamo numeri ancora migliori, perché questo settore richiede tempo. Il primo anno abbiamo parlato con la città, Napoli ha riscoperto le catacombe. Dal secondo anno i ragazzi sono andati all’estero, nelle fiere internazionali. Ora raccogliamo.

Oltre ai ragazzi delle cooperative, gli altri che cosa fanno?
Ormai siamo alla seconda generazione. Da piccoli stanno nelle case per i bambini, dopo i quattro anni nell’Accademia con doposcuola, lezioni di teatro e danza, corsi di arti marziali.
Dalle 16 alle 21, tutti i giorni, la retta costa 5 euro al mese. Poi abbiamo costituito
un’orchestra sinfonica. Ora la sera nel rione Sanità vedi i bambini tornare a casa con il violino tra le mani...
Capito? Arte-cultura, arte-cultura, arte-cultura...

Come avete coniugato i restauri con l’arte contemporanea?
Semplice: dove c’era immondizia, ora c’è arte contemporanea. Contaminazione ai massimi livelli. Rispetto per quello che c’è, ma andando oltre.
Le nostre forze non sono in grado di abbracciare tutto, ma ostacoliamo il grande degrado.

E l’architettura?
Tanti progettisti lavorano con noi. La filosofia è che l’architettura non può esser staccata dalle persone. I posti devono essere resi belli per rendere belle le persone. Questo è un posto con un’ininterrotta stratificazione di 24 secoli, una città antica che ha attraversato tutti i naufragi ma ancora respira perché c’è un tratto di bellezza che cambia la testa. Gli architetti che ci circondano ci mettono tutta la passione perché il loro lavoro guarisce le persone. Il Comune invece ha impiegato quattro anni per sistemare un ascensore che collega il rione con il ponte e quindi con il resto della città. Una vergogna. Così il ghetto diventa ancora più ghetto.

Che cos’è la musica che si sente?
È la nostra orchestra: 36 elementi, in un rione dove la dispersione scolastica è la regola nessuno ha lasciato. Un ragazzo è stato chiamato a suonare a Santa Cecilia a Roma. Gli altri non diventeranno musicisti ma buoni cittadini.
Quando i genitori vengono ai concerti, non capiscono nulla di musica ma sono orgogliosi, è il principio
di una nuova vita. Noi potremmo fare un’altra orchestra domani mattina, ma non c’è l’economia per sostenerla.
Allora abbiamo cominciato a sostituire i più grandi, qualcuno va anche al conservatorio, per far entrare i nuovi. Per dieci posti si sono presentati in 150. Facciamo concerti a Roma, a Perugia, al San Carlo di Napoli, nella basilica di San Gennaro hanno suonato per Napolitano.

Perché insiste tanto sui beni comuni?
Per cinquant’anni abbiamo delegato. Acqua, beni culturali, paesaggio, arte sono della collettività, non appartengono a qualcuno, la cura e la gestione vanno fatte insieme, in modo integrato. Noi lo abbiamo applicato da subito, era inimmaginabile che questi beni comuni fossero chiusi.
Siamo stati forti, abbiamo dovuto sgomitare molto. Due anni fa con le suore e le anziane del rione abbiamo occupato il cimitero delle fontanelle perché il Comune l’ha tenuto chiuso per quindici anni, nonostante 2 milioni
di euro spesi. E solo così è stato riaperto.

Come si è consolidato questo rapporto con i beni culturali?
Maria Luisa de’ Medici, andando via da Firenze, fece il patto di famiglia. Donava i beni storico-artistici a tre condizioni: per il decoro della città, per la crescita del popolo, per la gioia del forestiero. La signora non sbagliava.
Noi abbiamo un patrimonio enorme: decoro, crescita delle persone, turismo. Quando le signore a messa vedono arrivare i turisti stranieri in chiesa, adesso si inorgogliscono.

Finalmente uno spazio verde: di che si tratta?
Questa è una strada famosa per la cinematografia italiana. Hanno girato «L’Oro di Napoli», «Ieri Oggi e Domani» con la Loren. C’era un muro altissimo che chiudeva il giardino del parroco. Io ho detto ai bambini: come lo vogliamo ripensare questo posto? Per prima cosa hanno abbattuto il muro, poi hanno fatto loro un cancello con opere di arte contemporanea. Ora è aperto. Del quartiere.

Questo modello è replicabile?
Noi lo stiamo già facendo.

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da Il Giornale dell'Architettura numero 110, novembre 2012