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Quel Manet non è spagnolo, ma è italiano

  • Pubblicato il: 26/04/2013 - 09:36
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI CIVILI
Articolo a cura di: 
Stefano Luppi

Venezia. Una mostra che forse occorre definire «di Stato», secondo la definizione che si diede lungo il ‘900 alle rassegne considerate storiche perché capaci di convogliare opere difficilmente spostabili ma anche perché capaci di dare slancio fattivo agli studi. «Manet, ritorno a Venezia», ospitata all’appartamento dogale di Palazzo Ducale sino al 18 agosto, rientra senza dubbio in questa ristretta categoria per vari motivi. Intanto proprio gli spazi al piano d’onore del palazzo veneziano: difficile, anzi impossibile, vedere una mostra allestita qui, in un monumento di sé stesso con i dipinti di Paolo Veronese e il celeberrimo leone di Vittore Carpaccio. E poi naturalmente per le opere di Édouard Manet (Parigi, 1832 – Parigi, 1883) qui convocate: capolavori quali Olympia (1863), Gesù sostenuto dai soldati (1864), Lola de Valence 81862-67), Le Fifre (1866), Le balcon (1868-69) peraltro messe a confronto con la Venere di Urbino di Tiziano (la parete con la scandalosa, per l’epoca, Olympia è davvero clamorosa), le Due dame di Carpaccio, il Ritratto dell’Accademia di Lorenzo Lotto. Confronti, peraltro, che entrano nel vivo del rapporto che il pittore francese ebbe con la pittura italiana che giovanissimo studiò a riprodusse a Parigi. E’ proprio questo il cuore della mostra che riapre praterie per gli studiosi: si sa tutto o quasi dell’importanza della pittura spagnola (Velazquez, Goya), mentre per Manet è finora stato tenuto più sottotraccia il rapporto con l’arte italiana dal Rinascimento fino al Settecento veneto. E’ palese invece, girando per le nove sale della rassegna organizzata dalla Fondazione Musei Civici Veneziani (direttrice Gabriella Belli) e dal Museo d’Orsay (presidente Guy Cogeval) e curata da Stéfhane Guégan, quanto Manet deva all’arte nostrana, in particolare toscana ma soprattutto veneziana. Ecco allora che la mostra, composta da 80 opere tra dipinti e disegni, ricostruisce i tre viaggi in Italia del francese: nel 1853, di cui poco si sa, 1857 e 1874, anno della prima mostra degli impressionisti. Inutile in questa sede abbozzare una serie di opinioni sui confronti proposti dai curatori, occorre visitare la rassegna, quel che è certo è che un confronto così diretto, immediato, ficcante tra l’Olympia e la tizianesca Venere davvero emoziona e apre fughe in avanti per la storia dell’arte. Del resto in conferenza stampa gli organizzatori l’hanno detto: l’occasione è pressoché unica. «Continuiamo con coerenza, spiega Gabriella Belli, con il percorso che da metà del 2012 abbiamo immaginato legato al lavoro di raccordo tra grandi rassegne e mondo degli studi. Parliamo in questo modo di identità italiana in senso lato e veneziana in particolare facendo confronti inimmaginabili dal vivo: l’Olympia infatti non aveva mai lasciato la sua sede parigina». La rassegna peraltro, spiegano i curatori, non è costosissima anche se è stato tenuto un break-even point tutto sommato basso: appena 210mila visitatori (ne farà molti di più, vista anche la sede espositiva) per un costo di poco superiore ai due milioni di euro. La rassegna è accompagnata da un catalogo però non distribuito alla stampa.

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PERCORSO DELLA MOSTRA (da cartella stampa)

1. Le Italie di Manet
L’influenza dell’arte italiana nella formazione e nella ricerca espressiva di Manet ha radici profonde e precoci. Ragazzo, scopre il Louvre in compagnia dello zio materno e già nel 1850, da poco allievo dell’atelier di Thomas Couture, è iscritto nel registro dei copisti del museo. Se fatale è l’incontro con il Concerto Campestre, allora attribuito a Giorgione (oggi a Tiziano), lo studio dei maestri italiani si intensifica dopo il primo viaggio in Italia, nel 1853, con destinazione Venezia

- per quasi un mese -, poi Firenze e forse Roma. Sono del 1854, ad esempio, la copia dell’intenso Autoritratto di Tintoretto e della Venere del Pardo di Tiziano. Nel 1856 lascia lo studio di Couture e l’anno dopo torna in Italia, a Firenze, di cui “setaccia” le ricchezze: copia dipinti e disegni agli Uffizi, gli affreschi di Andrea del Sarto della Santissima Annunziata, i rilievi di Luca della Robbia al Duomo e molto altro, realizzando oltre centoquaranta opere, perlopiù dettagli, o singole figure, o gruppi di personaggi. Questo dialogo darà frutti copiosi e lascerà tracce visibili, destinate a permanere, come fonti inesauribili di ispirazione, rielaborazione, memoria, nei dipinti successivi. Le opere qui esposte documentano con cura questo percorso e ne seguono l’evoluzione fino al primo capolavoro e primo scandalo, quel Déjeuner sur l’herbe rivoluzionario, sconvolgente e rifiutato dai contemporanei per la sfrontatezza con cui ribalta il significato delle esplicite citazioni classiche, per i rimandi autobiografici “cifrati” e la sottesa critica ai pregiudizi sociali del tempo, per la strana, inquietante incomunicabilità di cui è pervaso, e, naturalmente, per i modi pittorici del tutto nuovi e allora incomprensibili.

2. I destini di Venere
In questa sala, dominata dall’eccezionale, imperdibile accostamento tra la Venere d’Urbino di Tiziano e l’Olympia di Manet, si sottolinea il particolare ruolo della pittura veneziana del Cinquecento nell’ispirazione di Édouard. Tiziano e Veronese per la Donna con la brocca - la prima raffigurazione di Suzanne - e Tintoretto per l’elaborato ritratto dei genitori: pittura veneziana apprezzata, studiata, filtrata nella vita stessa. Durante il soggiorno a Firenze, Manet esegue, tra l’altro, una copia della Venere d’Urbino. Su di essa riflette, lavora (come documentano anche i vari schizzi qui esposti) e pian piano la assimila. Sei anni dopo, questo processo creativo darà vita a Olympia, poi presentata al Salon del 1865. I due dipinti hanno molti punti in comune anche se un senso assai diverso: il nudo sottolineato dalla presenza di gioielli (e pantofole in Olympia), la postura, l’animale (cagnolino, simbolo di fedeltà in Venere che Tiziano dipinge come quadro nuziale; gatto, simbolo demoniaco in Olympia), la scansione verticale dello spazio retrostante e le ancelle (sfondo sereno, familiare e luminoso in Venere, scuro ed evocativo di lussuria in Olympia), la luce (calda e diffusa in Venere, fredda e cruda in Olympia), la mano sinistra sul pube (un morbido tocco in Venere, una sorta di sbarramento in Olympia), lo sguardo rivolto allo spettatore. Ma mentre quello di Venere trasmette un languore erotico e denso di promesse, Olympia squadra l’osservatore con occhio indifferente. È dunque la sensualità che manca in Olympia e qui il modello tizianesco si trasforma – con i suoi contrasti decisi, il linguaggio pittorico ancora più audace del Déjeuner- da “oggetto del desiderio” in “oggetto di pittura”. E fa di nuovo scandalo.

3. Nature morte
Manet, che pure predilige la “pittura di storia”, con figure e composizioni articolate, realizza anche un gran numero di nature morte, soprattutto come mezzo efficace per garantirsi un po’ di consenso di critica. Come scrive Zola, “I nemici più espliciti del talento di Édouard gli concedono di dipingere bene gli oggetti inanimati”e, del resto, esse sono una presenza frequente anche nelle grandi composizioni – dal paniere rovesciato del Déjeuner sur l’herbe al mazzo di fiori in Olympia .
Le nature morte di Manet parlano, secondo il tradizionale significato di questo genere pittorico, di vita e di morte e si ispirano da un lato ai modi della scuola nordica (olandese in particolare) e, dall’altro, a quelle francesi e italiane. Ma la caducità delle cose viene ripensata, rivoluzionata: i dipinti più “olandesi” – pesci, ostriche… – si collegano al rapporto con la moglie; realizzati durante le villeggiature balneari, associano a volte i piaceri fisici e del gusto a una sorta di atmosfera sacrificale, in cui la tovaglia bianca evoca l’altare e in cui si percepiscono echi della natura morta italiana del Seicento (di cui la mostra presenta due significativi esemplari, per suggerire accostamenti e rimandi). Molti i quadretti destinati a essere donati: ad amici come Antonin Proust (Il Limone, cat. 27) o Champfleury (le Peonie bianche con forbice cat. 22); a critici come Théophile Thoré (Stelo di peonie e forbici cat. 23); a collezionisti come Charles Ephrussi (L’Asparago, cat. 28). Anche queste opere spesso mantengono riferimenti all’angoscia della transitorietà, con i loro fiori, frutti od ortaggi recisi. Frequenti prima degli anni ’70, le nature morte si fanno più rare nei dieci anni successivi. L’ultimo ritorno al genere è posteriore al 1880 e all’insorgere della malattia, quasi un addio al mondo, alla virilità, alla vita. La piccola, preziosa Sala degli Stucchi che ospita questa sezione della mostra presenta, ai due lati della porta che immette alla successiva, due scene sacre. Esse preannunciano il tema della prossima sezione e perciò sono state integrate nel percorso espositivo.

4. Solitudine di Gesù
Manet, repubblicano, non è però un anticlericale. Cresciuto nella fede cattolica, si cimenta in alcune
toccanti rappresentazioni del Cristo e della sua Passione. Anche per queste, le fonti di ispirazione italiane giocano un ruolo fondamentale (e a lungo sottovalutato), come dimostrano le opere qui esposte. Dei due disegni, uno è un recente, straordinario ritrovamento, esposto qui al pubblico per la prima volta. Si tratta di un Cristo dolente nella solitudine del sepolcro, spoglio, desolato, quasi monocromo, ripreso da Manet nel 1857 da uno degli affreschi di Andrea del Sarto della Basilica della Santissima Annunziata di Firenze. L’altro è un acquerello che riprende il Cristo morto con angeli presentato - senza successo - al Salon del 1864, in cui emergono chiaramente i riferimenti non solo all’affresco di Andrea del Sarto, ma anche a iconografie come quella del capolavoro di Antonello da Messina appartenente alle collezioni del Museo Correr qui esposto, assieme ai due disegni, proprio per evidenziare i possibili rimandi. L’altra parete è occupata invece dal Cristo insultato dai soldati di Manet, esposto al Salon del 1865 assieme a Olympia. Più teatrale e barocco del Cristo dell’anno precedente, viene, come quello (e come Olympia), pesantemente criticato, ritenuto oltraggioso e inguardabile. In realtà Manet non cercava “provocazioni” ma il significato universale e moderno dell’umiliazione del Cristo, perpetrata in ogni violenza dell’uomo sull’uomo e - guardando principalmente a Tiziano- della potenza espressiva che i maestri del passato avevano saputo conferire a questo soggetto.

5. Una Spagna molto ibrida
Manet visita la Spagna solo nel 1865. Al Prado resta folgorato da Velázquez, ma aveva già avuto
modo di apprezzare al Louvre le tele di Goya, El Greco e dello stesso Velázquez che, dal 1838 al 1848, componevano la “galleria spagnola” di Luigi Filippo. L’ispanismo del resto è di gran moda nella Parigi dell’epoca ed è appunto esponendo un Chitarrista spagnolo al Salon del 1861 che Manet riscuote un successo che negli anni successivi non si ripeterà. Le tele “spagnole” di Manet derivano però da un percorso più ibrido, articolato e meno lineare di quanto la critica abbia per lungo tempo ritenuto. In esse convivono fonti di ispirazione diverse – tra cui spesso opere e modi del rinascimento e del barocco italiano, ma anche stimoli contemporanei, come la fotografia - oltre all’intenzione di aderire alla moda del momento. Tra esse si annoverano, comunque, veri capolavori. Lola Melea - detta Lola di Valenza - è l’étoile di una compagnia spagnola di balletti che riscuote nel 1862 enorme successo all’Hippodrome di Parigi. Baudelaire le dedica una quartina e molti impazziscono per lei. Manet la riprende in un celebre ritratto pensato originariamente su uno sfondo monocromo nello spirito di Velázquez, che anni dopo modificherà. La posa è ripresa da Goya ma l’ampiezza della gonna rimanda a Watteau. Indecifrabile e drammatico è il ragazzino in uniforme ritratto in Le Fifre (il Piffero): lo sguardo vuoto e la tragicità dell’immagine sbalzata sullo sfondo, anch’esso vuoto, ci colpiscono con forza, evocando una sorta di solitudine silenziosa (a dispetto dello strumento musicale). Lo sfondo è ancora quello di Velásquez, ma nella figura troviamo la stessa fragilità del Ragazzo con la spada, ispirato da Gozzoli. Manet pensava di conquistare con questa tela il pubblico del Salon del 1866, ove, invece, non sarà neanche accettato. Zola lo difende appassionatamente: “I nostri padri hanno riso di Courbet e ora cadiamo in estasi dinanzi ai suoi dipinti, ridiamo di Manet e saranno i nostri figli a estasiarsi dinanzi alle sue tele”.

6. Tra musica e teatro
Questa sala e le due successive illustrano con diverse angolazioni il rapporto di Manet con la cultura e la società del suo tempo. La musica gioca un ruolo fondamentale, ad esempio, sia nella formazione pittorica dell’artista (si pensi all’importanza, in essa, del Concerto Campestre di cui abbiamo già parlato e su cui ancora torneremo), sia nel privato - basti ricordare che Suzanne entra nella sua vita come maestra di piano -, sia nelle relazioni sociali, come quelle instaurate nel salotto di Mme Éléonore Meurice, ove ogni quindici giorni si fa musica e in cui si incontrano, con i Manet, personaggi come Baudelaire assieme ad altri scrittori, poeti, pittori, critici d’arte, musicisti, intellettuali repubblicani. Nelle opere esposte in questa sala si evidenziano sia - ancora - i rimandi classici (il Concerto campestre nella Lezione di Musica, la simbologia della musica come “arte del tempo” nella Giovane dama al Piano) sia una maggiore attenzione ai gusti e alla società dell’epoca, ma anche – come sempre - l’indipendenza creativa dell’artista e il suo collocarsi al di fuori delle convenzioni. Ecco che allora il Balcon - apparentemente inscritto in un genere allora alla moda, quello della rappresentazione di una scena di vita alto-borghese - ritrae piuttosto tre persone eleganti ma incapaci di dialogare, ognuna delle quali rivolge all’esterno uno sguardo diverso e isolato, come perduto in un proprio sogno interiore. Proprio questo ha suggerito l’accostamento in mostra alle Due Dame di Carpaccio,“perse”anche loro in una situazione sospesa, e immerse in segreti, indecifrabili pensieri. L’incomunicabilità che trapela dal silenzioso trio rappresentato nel Balcon si colloca, comunque, agli antipodi dell’immaginario mondano e alla moda. Presentato al Salon del 1869, il dipinto susciterà, ancora una volta, critiche e incomprensioni.

7. Parmaso contemporaneo
Amico di Baudelaire, Zola e Mallarmé, Manet è l’unico pittore entrato in contatto con tutti gli scrittori e poeti del suo tempo, compresi i minori. Ed è anche il solo ad aver abbattuto le barriere tra estetiche diverse, dialogando con Naturalismo, Parnaso poetico e primo Simbolismo, in un fitto intreccio di relazioni fertili e strategiche per l’arte e la vita stessa del pittore. Su di esse, questa sala presenta, oltre a celebri dipinti, illustrazioni, documenti, testimonianze. Zola si schiera più volte in difesa di Manet - contro la critica dominante che, come abbiamo visto, lo stronca invariabilmente - pubblicando articoli e un opuscolo a lui espressamente dedicato. Nel ’67 Manet espone al Salon il ritratto di Zola, facendone una sorta di manifesto di un sodalizio culturale. Nel contempo è aperto alla collaborazione con altre avanguardie del tempo, partecipando, tra l’altro, all’impresa dei Sonnets et eaux-fortes, raccolta di quarantadue poesie e incisioni a fronte, firmate da altrettanti artisti. Nel circolo del poliedrico poeta e inventore Charles Cros e di Nina de Callias, entra in contatto, nell’ottobre 1873, con Stéphane Mallarmé. I due non si lasceranno più: insieme trasformano la pubblicazione del Corvo di Edgar Allan Poe in un libro d’arte e, ancora insieme, danno vita a un’altra grande realizzazione, Il pomeriggio d’un fauno, capolavoro di ermetismo poetico e lusso editoriale. Nello stesso anno Manet ritrae l’amico poeta: nel dipinto il fumo del sigaro è la metafora della rarefazione del linguaggio di Mallarmè.

8. Manet pittore della società
Gli anni ’70 si aprono con i drammatici avvenimenti della guerra franco-prussiana (cui Manet partecipa), della Comune di Parigi, della caduta del Secondo Impero e dell’avvento della Terza Repubblica. Nel ’72 uno dei più famosi mercanti d’arte dell’epoca, Paul Durand-Ruel (1831- 1922), acquista in blocco ben 24 opere di Manet, che si trasferisce poi in un nuovo atelier. Nell’ispirazione, prendono il sopravvento soggetti legati alla società contemporanea: il volto di Berthe Morisot (amica, collega, modella e, dal 1874, cognata di Manet) esprime al meglio questa tendenza. Nel 1874, la giuria del Salon respinge due dipinti sui tre presentati: Degas, Renoir, Monet, Pissarro lo invitano nello stesso anno a partecipare alla mostra che si terrà ad aprile nello studio del fotografo Nadar e darà il via all’impressionismo, ma Manet declina l’offerta. Ha iniziato anche lui a dipingere soggetti ripresi “in esterni” - come Sulla Spiaggia, qui esposto- ma restando fedele a una base psicologica profonda, a un’impostazione da “pittore di storia”. Anche i dipinti presentati al Salon del ’76 vengono rifiutati, e Manet apre il suo atelier al pubblico. Nell’80, mentre si svolge la quinta mostra impressionista, espone con successo alla Galerie de la Vie Moderne dieci oli e quindici pastelli con soggetti squisitamente urbani, abbigliati alla moda. Nel frattempo, nel ’79, il governo è passato ai radicali e Manet, trasferito in un altro, più spazioso atelier, si circonda di ammiratori, critici, musicisti, pittori, politici come l’amico di sempre Antonin Proust che nell’81 diventa ministro o Georges Clemenceau, di cui abbiamo appena visto il ritratto eseguito con pochi tratti, senza sfondo e una grande potenza di immedesimazione.

9. Il mare all’infinito
Il tema del mare, su cui Manet torna in circa quaranta opere, è condizionato sia dall’esperienza giovanile (l’imbarco in una nave scuola a 16 anni), sia dalle frequenti vacanze - a partire dal 1865 - sulle coste del Nord della Francia, sia, anche, dalla potenzialità commerciale del genere: è proprio uno dei dipinti di questa sala, Boulogne, Chiaro di luna, a stimolare il mercante Paul Durand-Ruel ad acquistare questa e molte altre tele di Manet, dando di fatto una svolta alla sua carriera. Anche un altro collezionista, il baritono Jean-Baptiste Faure, predilige le marine ed è lui ad acquistare nel ’75 la Veduta di Venezia qui esposta, uno dei più alti esiti della produzione dell’artista di questa fase, in cui si dispiega un’incredibile gamma di luci e di colori. Il dipinto è realizzato durante il secondo soggiorno di Manet a Venezia, che avviene nel settembre 1874, quando è ormai un pittore affermato che sta, tra l’altro, riflettendo sulla propria ricerca formale. Non ha partecipato alla mostra degli Impressionisti, ma durante l’estate ha fatto visita a Monet e si è confrontato con Renoir. Questo soggiorno veneziano si inserisce dunque in un importante momento creativo, quando decide di dedicarsi alla luce, ai soggetti in movimento, al tocco spezzato: su tutto ciò, Venezia è una inevitabile e strategica fonte d’ispirazione. Ma anche quest’opera, come sempre in Manet, è il risultato di un processo di riflessione in cui alla restituzione del visibile si affiancano il lavoro intellettuale e l’elaborazione in studio, alimentati da riferimenti culturali diversi. Così è anche per le altre opere legate al mare, che agisce come sorgente di visioni realistiche ma sempre connesse a rimandi letterari o riferimenti politici o sociali. La Fuga di Rochefort, qui esposta, è ad esempio l’ultimo grande progetto di Manet, pensato per il Salon del 1883, cui l’artista - stroncato dalla malattia il 30 aprile - non arriverà. Qui il tema del racconto della fuga di un oppositore politico contemporaneo si intreccia a quello, eterno e romantico, della vastità infinita dell’oceano.