Pedali, cultura e paesaggio: una combinazione unica per la rianimazione dei territori interni.
Dall’esperienza del progetto della dorsale VENTO, alcune riflessioni sulla relazione inseparabile tra cultura e cicloturismo. In Italia le dorsali cicloturistiche saranno occasioni uniche “potenti fili narrativi che ricuciono pezzi di territorio e di culture che sono isolati e dispersi”, per riallineare il patrimonio materiale e immateriale culturale diffuso rendendolo il motore di una rianimazione sociale, occupazionale ed economica dei nostri territori, a partire dalle aree interne. Ma questo non accade per caso, occorre una precisa visione e una determinata volontà (politiche e progettuali). “Abbiamo bisogno di progetti per le aree interne, dignitosi e duraturi, per rompere la marginalizzazione e lo spopolamento.” La parola a Paolo Pileri, DAStU Politecnico di Milano. “Le lunghe dorsali cicloturistiche sostengono mediamente cinque occupati per chilometro e generano un indotto diffuso che oscilla tra i 150 e i 250.000 euro per anno.” A colpo di pedale.
VENTO è il progetto di dorsale cicloturistica di 679 km, ideato dal Politecnico di Milano, tra VENezia e TOrino lungo il fiume Po, parte del Sistema Nazionale delle Ciclovie Turistiche lanciato dal Ministero delle Infrastrutture (MIT) il 27 luglio 2016 in collaborazione con il Ministero dei Beni Culturali (MiBACT).
Da quel momento ha iniziato il suo iter di attuazione come opera pubblica, perché VENTO è un’infrastruttura ciclopedonale che si porta dietro tutta la sua grammatica fatta tanto di atti, bandi, protocolli, offerte, appalti, tempi, sicurezza, ribassi, etc. e quanto di tecnica progettuale e quindi di lunghezze, larghezze, pendenze, incroci, parapetti, curvature, cordoli, rampe, ponti, aree di sosta, segnaletiche e pavimentazioni, argini, valutazioni ambientali e inserimenti paesaggistici. Tutto ciò la fa assomigliare a una infrastruttura tradizionale come potrebbe essere una strada o, addirittura, un’autostrada. La somiglianza ci aiuta solo a spiegare che il progetto di una ciclabile di lunga distanza, come lo sono quelle turistiche, non è improvvisabile da chiunque solo perché sa pedalare, ma richiede un’abilità tecnica non seconda a quella di una tradizionale strada. Messa da parte la somiglianza, cerchiamo di vedere dell’altro che, poi, è ciò che più ci interessa. Già perché questo tipo di infrastrutture, che noi abbiamo chiamato leggere per la loro discrezione con cui stanno nel paesaggio e per come sono usate, vanno pensate fin dall’inizio con ambizione culturale, nel senso che possono essere delle formidabili ricuciture di un patrimonio materiale e immateriale che giace scomposto sul territorio e che è uscito dall’immaginario turistico alcuni decenni fa.
E’ un salto concettuale: anche per questo abbiamo voluto immaginare una ciclabile lunga, che abbiamo chiamato dorsale cicloturistica, che non sia la sommatoria di microprogetti ma un’ambiziosa linea capace di dare una forma nuova al capitale culturale diffuso sul territorio. Per meglio capire, vale la pena chiarire un paio di questioni ‘tecniche’ semplici e cruciali.
Le piste ciclopedonali sono percorse a piedi o in bicicletta, quindi a bassa velocità. Ciò le rende inevitabilmente un dispositivo che tiene in costante e intimo contatto l’utilizzatore con ciò che scorre al suo fianco a 5 o a 20 km/h. Le ciclovie sono infrastrutture abilitanti proprio perché avviano e rendono possibile un rapporto di connessione intima, capillare e continua tra utilizzatore, territorio e abitanti. Grazie a ciò si innesca una simmetria inedita tra passante e abitante. Il primo ha la possibilità di scoprire e il secondo di rendersi disponibile ad accoglierlo. Il territorio si rianima sulla spinta di migliaia di cicloturisti che, senza ciclabili, non si sarebbero avventurati là e gli abitanti non si sarebbero inventati nuove attività. Le tradizionali infrastrutture, specie quelle per l’alta velocità in tutte le loro varianti modali, ci obbligano a un rapporto territoriale intermittente, dove quel che conta è solo l’origine e la destinazione. Semmai qualche sosta nel mezzo, che il più delle volte avviene in un’anonima e standardizzata area di servizio. Gli abitanti che sono rimasti in queste terre di mezzo, sono i testimoni di un continuo spaesamento e vittime di una retorica che li obbliga a spostarsi in città, alimentando un circuito perverso di abbandono delle aree interne, crescita delle periferie e consumo di suolo, agricoltura e natura. Abbiamo bisogno di progetti per le aree interne, che siano dignitosi e duraturi. In questo il cicloturismo con le sue dorsali e le sue piste locali che vi si attaccano può essere una proposta valida e adeguata a rompere parte della marginalizzazione delle aree interne.
La differenza che corre tra ciclovie e autostrade è come quella tra slow-food e fast-food: nel primo caso si gusta il cibo in quanto esito di un processo creativo, tradizionale, genuino e curato da persone calate in una storia e in una geografia. Nel secondo si mangia in fretta qualcosa di omologato per forma e sapore e scientificamente disgiunto dalle tradizioni, dalle storie e dalle geografie. Dal treno veloce o dall’auto a 130km/h non si ha la possibilità di catturare ciò che il territorio racchiude e propone nella sua complessità. Il paesaggio viene perforato e non se ne coglie il suo racconto se non per rapidi cenni o afferrando i soli elementi simbolici del paesaggio (il castello, il campanile, il vigneto, il capannone, la fabbrica) ma con distanza asettica. La velocità stessa ce li rende sfuggenti. Camminare e pedalare al contrario sono un modo non per attraversare i territori, ma per addentrarvisi. In questo modo, inevitabilmente si vive una relazione continua con quel che è attorno che prende calore, personalità e perfino voce. Se ne leggono le differenze fin nei dettagli: colori, odori, consistenze si rivelano perché i nostri sensi li possono cogliere dandoci informazioni altrimenti inafferrabili.
In aggiunta a tutto ciò vi è anche un’altra differenza strategica. Ciclabili e sentieri hanno piena ‘permeabilità trasversale’ con il territorio perché non ci sono barriere insormontabili a lato, né il contatto avviene solo per stazioni o caselli. Questo fa sì che le relazioni tra viaggiatore e abitante siano possibili ovunque e ovunque sono reciproche. Il cicloturista si può fermare in ogni trattoria, ogni bar, ogni locanda, ogni piazza, ogni slargo, ogni castello, ogni vicolo, ogni chiesa, ogni parco e ogni museo. Può toccare le pietre e accarezzare i mattoni. Può parlare con chiunque raccogliendo le mille inflessioni del linguaggio. Può assaggiare le varianti enogastronomiche che ci sono lungo un pugno di chilometri visto che il nostro Paese ne è ricchissimo. Può accorgersi di come varia la forma delle piazze o quella delle cascine o quella delle chiese saltando di paese in paese. Può finalmente spostarsi tra siti UNESCO (lungo il Po ci sono una dozzina di occasioni UNESCO ma completamente sconnesse tra loro). Può entrare dentro una chiesa, una grangia, una villa palladiana, una corte agricola, un castello e godersi il fresco e gli interni. Camminando o pedalando è il paesaggio che ti salta addosso in tutte le sue sfaccettature. Quei lunghi fili leggeri, dalla forma di ciclovie, vanno progettati con intenzione fortemente culturale perché si tratta di fili che ricuciono pezzi di territorio e di culture che sono isolati e dispersi e che proprio per questa dispersione non riescono a proporsi più a nessuno, ammuffendo negli infiniti angoli del nostro paesaggio. Le Ciclabili turistiche e i sentieri diventano così potenti fili narrativi per tutti quelli che vi pedalano o camminano in quanto scoprono, letteralmente parlando, storie e paesaggi che ignoravano e che la retorica del turismo di massa e del marketing aggressivo gli nascondevano.
VENTO è il progetto di uno di quei fili. L’impegno progettuale è pertanto ben più grande di quello del solo disegno della traccia ciclabile e richiede anche l’apertura di tavoli diversificati e, soprattutto, richiede di investire in coordinamento e cooperazione tra diversi soggetti. Il cicloturista deve poter giungere in un luogo che poi è effettivamente aperto negli orari giusti, ben allestito, provvisto di una storia leggibile, attorniato da servizi non solo adeguati ma anche rispondenti ad un progetto culturale che non mi fa trovare la tigella o i wurstel e crauti ovunque vada.
Occorre eliminare tutte le barriere burocratiche stupide che rallentano fino a impedire la fruizione intelligente del territorio. Qui sì che la tecnologia può aiutare a frantumare dannose regole burocratiche disegnate attorno a geografie delle competenze ormai super desuete. Ma occorre volontà e intelligenza umana. Soprattutto dell’uomo politico.
Un’unica App su smartphone potrebbe consentire di entrare in tutti i beni culturali lungo VENTO senza fare code inutili, di apprendere informazioni su ciò che vedo, di capire dove si può prendere un battello o un treno o un bus o come si può prenotare una cena in riva al fiume. Tante sono le cose da fare nel momento in cui una dorsale come VENTO riallinea le opportunità e ci strappa dall’anonimato della frammentazione per elevarci a una dimensione di sistema dove ciò che conta è un unico territorio, quello tra Venezia e Torino, con tutte le sue innumerevoli ricchezze che ora finalmente diventano percepibili, come lo sono le pietre preziose contenute in uno scrigno che le raccoglie assieme al contrario delle stesse pietre ma gettate qua e là e non percepibili.
Quel che manca è lo scrigno. Uno scrigno adeguato a raccogliere questa dispersione rispettandone la bellezza e la diversità oltre a dare visibilità a quelli che chiamiamo paesaggi ordinari, la cui bellezza non è minore e la cui storia è densa altrettanto. Si pensi ai paesaggi della bonifica idraulica che costellano il corso del Po o a quelli agricoli o ai piccoli centri storici dei nuclei rurali: ordinaria bellezza sulla quale è stato depositato un ingiusto strato di polvere.
Con questa intenzionalità il progetto di una ciclabile turistica sfuma del tutto in un progetto di territorio. Per questo diciamo con convinzione e da tempo che le ciclabili di lunga distanza del futuro non possono né crescere per caso né provenire unicamente dallo sforzo dal basso (comuni, associazioni locali), perché mai i tratti di mini ciclabili urbane si sono fuse spontaneamente in un ambizioso tracciato turistico di 200 km (ricordo che in Germania una ciclabile turistica deve essere lunga almeno 150km e non deve avere interruzioni al suo interno).
Solo con questa pretesa le infrastrutture leggere che abbiamo in mente, quelle disegnate con la filosofia di VENTO, diventano dei potenti riattivatori occupazionali ed economici soprattutto per le aree interne del Paese, quelle dove oggi non c’è traccia di turismo e neppur di rilancio occupazionale. Le dorsali cicloturistiche diventano esse stesse un volano culturale, non seconde ad altre forme più note. Il desiderio di rianimazione territoriale e culturale innescabile con le ciclabili ci fa affermare da tempo che il cicloturismo non è dato tanto dall’equazione bici+luogo turistico che andrebbe a depositare nelle terre già visitate un ulteriore opzione e attrattività (richiesta pur legittima), quanto dall’idea di immaginare un turismo, gentile, nelle aree dove turismo non c’è e dove, come abbiamo detto, potrebbe divenire un motore di sviluppo sostenibile. In Europa così è accaduto in molte parti.
Le lunghe dorsali cicloturistiche sostengono mediamente cinque occupati per chilometro e generano un indotto diffuso che oscilla tra i 150 e i 250.000 euro per anno. Un’occupazione sana e dignitosa, che nasce e vive accanto ai capisaldi culturali e che diviene essa stessa presidio territoriale e argine allo spopolamento dei territori. Una forma ben più efficace e ambiziosa di quell’occupazione precaria che ci viene offerta dalla devastante logistica o dagli immensi centri commerciali con i loro altrettanto immensi consumo di suolo e con le loro asfaltature. Oggi siamo più vicini all’obiettivo, visto che VENTO sta per essere realizzata, ma è compito di tutti noi dare impulso a questo progetto affinché sia il laboratorio per un progetto di territorio robusto che rimane nel tempo e che, soprattutto, sia replicabile altrove e sia desiderabile per i nostri cittadini, specie i più giovani. Un’altra sfida culturale nella sfida che ci attende per risollevare il Paese. Anche a colpi di pedale e paesaggio.
Paolo Pileri, DAStU Politecnico di Milano
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