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Patrimonio Culturale: Memorie e identità in cantiere

  • Pubblicato il: 15/06/2015 - 23:58
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Luca Dal Pozzolo
Hubert Robert, vista immaginaria della Grande Galleria del Louvre, 1796

Di fronte alle contraddizioni - anche culturali - indotte dai processi di globalizzazione, la frase di Augé mostra una prospettiva interessante. Proprio attraverso le superficiali e ingannevoli somiglianze tra rovine e cantieri, emerge il diverso portato delle due accezioni nei confronti del futuro. Secondo questa prospettiva, di seguito si proverà a verificare la pertinenza della metafora del cantiere applicata ai tre termini attorno ai quali s’incardina la relazione: patrimonio, memorie, identità
 

 
«L’umanità non è in rovina, è in cantiere. Appartiene ancora alla storia». MARC AUGÉ, Le temps en ruines, Éditions Galilée, Paris, 2003
 

Di fronte alle contraddizioni - anche culturali - indotte dai processi di globalizzazione, la frase di Augé mostra una prospettiva interessante. Proprio attraverso le superficiali e ingannevoli somiglianze tra rovine e cantieri, emerge il diverso portato delle due accezioni nei confronti del futuro. Secondo questa prospettiva, di seguito si proverà a verificare la pertinenza della metafora del cantiere applicata ai tre termini attorno ai quali s’incardina la relazione: patrimonio, memorie, identità.
 
Il patrimonio in cantiere.
Accoppiare la parola cantiere a patrimonio consente di superare alcune sfumature di senso che il termine patrimonio assume nella nostra lingua: meno problematico in questo senso l’inglese heritage. In ogni caso, è l’aspetto di rendita economica che si porta dietro la parola patrimonio a non essere pienamente coerente con ciò che intendiamo come patrimonio culturale. La preoccupazione sottesa di qualcosa che si debba principalmente conservare e che produca rendite e dividendi, sempre a rischio di depauperazione per troppo sfruttamento, qualcosa che solleciti maggiormente il dovere di difendere, di restaurare, di rallentare il più possibile il suo destino di prossima rovina, piuttosto che la tensione per la creazione di nuovo valore. L’evocazione di un passato aureo (una eredità, un patrimonio accumulato) e un destino futuro che scivola fatalmente in una premonizione di rovina. Come avviene per la prima volta nella storia dell’arte in questo quadro, dove Hubert Robert che sta restaurando e riallestendo la Grand Galerie del Louvre la rappresenta come rovina[1]. Robert rovescia il paradigma consueto; la sua stessa opera in corso di esecuzione, il suo cantiere, è immaginato come presagio di rovina, ma in ciò non è estraneo il valore che a partire dal romanticismo acquisiscono le rovine: la distruzione della sua stessa opera adombra anche l’ingresso di Robert nell’Olimpo della storia. Anche se in rovina. Robert pensa al suo cantiere come a una futura rovina; noi possiamo, a nostra volta, rovesciare nuovamente la questione e pensare al nostro patrimonio come a un cantiere. Perché? Perché il patrimonio non risiede nella pietra, ma nell’interazione tra la pietra, le cose, il paesaggio e il nostro sguardo, è il portato di una continua ricreazione del valore, sia che si ponga al centro dell’attenzione o che venga dimenticato; è il processo stesso con cui doniamo senso e scopriamo valori, sempre in transizione. Anche la rovina, non è banalmente uno stato della materia, come sa bene Robert, ma è, al tempo stesso, un paesaggio, uno sguardo, una dimensione culturale.
Dopo il romanticismo, le rovine non sono più quelle di un tempo, sono cambiate; anche le rovine si trasformano nel senso e nell’immaginario, sono «in cantiere».
 
Quella pietra, quei muri, sono stati attraversati da un mondo che ora non esiste più, e che tuttavia si radica nei suoi resti materiali ancor oggi, sicché non può far a meno che essere presente, e sarà futuro e continuerà a incrociare il nostro sguardo, a stimolarlo, a ostacolarlo, a questionarlo, a sfidarne i sensi[2]. Il patrimonio non è più quello di una volta, è quello di oggi, quello che stiamo ricreando io e voi, adesso, quello che stiamo allestendo per il prossimo futuro, preparando questa iniziativa sull’Anno del Patrimonio. È il cantiere nel quale stiamo lavorando, per arricchirlo, di senso, di prospettiva e di futuro. E che le testimonianze materiche vadano conservate, tutelate e mantenute, è questione che do per acquisita come condizione necessaria e irrinunciabile ma che - da sola - non è ancora sufficiente a creare patrimonio e nuovo patrimonio.
 
 
Memorie in cantiere
Anche la memoria non è più quella di una volta; alla metafora del cervello come una cassettiera dove in ogni scomparto è contenuto un ricordo, le neuroscienze hanno sostituito una nuova concezione della memoria come atto costruttivo e ricostruttivo, di continua rie-elaborazione del ricordo, in cui le esperienze e i fatti posteriori creano nuovi contesti di senso e gettano nuove luci e nuove ombre, trasformando i paesaggi della memoria.
 
Lo sapevano i retori antichi, che ancoravano la struttura della dissertazione nell’architettura di un monumento, dove a ogni intercolumnio, a ogni timpano, a ogni varco corrispondeva un argomento, sicché il discorso si sviluppava nel processo di ricostruzione della sequenza architettonica. Lo sapeva Proust quando notava il dilavamento dei ricordi troppo frequentati e l’esplosività ricreativa delle sensazioni gustative, olfattive, tattili – La madeleine della Zia Leonie[3] o la sconnessura nell’acciottolato dell’androne dei Guermantes, saggiata più volte nell’indugiare del passo che tinge d’azzurro ogni cosa, rinviando a un dislivello tra lastre di pietra in una Venezia assorta nell’aria tersa di qualche anno prima.
 
Sì anche la memoria è un cantiere, e i patrimoni culturali ne sono le radici che la ancorano alla terra, alle potenze ctonie, e di qui la rilanciano in mille traiettorie del futuro. Sì io posso ritrovare in questa colonna le scanalature parallele dello scalpello a grain d’orge, ma è dopo aver letto Ruskin[4] che appoggiandomi alla pietra, sotto ai polpastrelli, nella fredda rigatura dell’arenaria, io mi ritrovo in contatto con quell’antico scalpellino gotico, ne posso percepire ancora la fatica e la destrezza, fino a trasformare questa grana rugosa della pietra in una potentissima macchina del tempo, nella mia personale madeleine. Ci voleva la pietra, ci voleva Ruskin e ci volevo io, lì, in quel momento e in questa convergenza per accendere la magia di questa macchina del tempo. Molto più di un ricordo in un cassetto; un patrimonio culturale all’opera, in divenire nella sua potenzialità evocativa e ricreativa. Tutto ciò non sarà privo di una qualche forma di feticismo, ma è anche la ragione per cui la documentazione non ci basta; anche la più accurata tomografia assiale, non può restituire la fisicità del monumento, il suo avvolgere i sensi, la sua luce, l’umidità sulla pelle, la temperatura dell’aria, gli odori che mi pervadono indiscretamente; tutto sta seminando dentro di me richiami e valenze che l’aria fresca di una mattina futura farà esplodere dietro i miei occhi, in altro luogo. E’ la memoria del futuro che sta lavorando dentro me, e queste architetture ne sono le fondamenta dalle quali spicca la progressiva costruzione della mia memoria, che ritroverò fragrante quando avrò bisogno di un qualche precedente che mi ancori un futuro anteriore.
 
 
L’identità in cantiere
Ma è proprio accostata al termine identità che la parola cantiere, evita il rischio di una interpretazione retrograda e pericolosa, di qualcosa di fisso, d’immobile, di cristallizzato, di divisivo, da opporre, da custodire gelosamente contro qualcuno. Identità in cantiere sottolinea la mobilità, il divenire, il portato processuale di un continuo confronto tra io e alter, la possibilità di cambiare senza perdersi - per dirla con un termine alla moda - la resilienza dell’io nella sua apertura al mondo. E proprio l’Europa, per ciò che concerne l’identità ha scommesso sulla sfida più difficile, su di una cornice culturale che tenga insieme identità multiple e plurilinguistiche, sul caleidoscopio della diversità come ricchezza inesauribile, come innesco della creatività, come motore cognitivo per le sfide del futuro. E queste identità non sono concetti vuoti, ma lingua e paesaggio. Noi abitiamo le nostre lingue, noi «siamo parlati» dalle nostre lingue come sostiene Foucalt, sulla scorta di Mallarmé e Heidegger, così come abitiamo il nostro paesaggio culturale, ne siamo orientati e sostenuti nella nostra stessa postura, nell’inclinazione, nello sguardo che rivolgiamo agli altri e all’altrove. E’ attraverso al nostro paesaggio culturale che possiamo percepire una qualche forma del mondo. Dice Focillon «…il paesaggio gotico, o piuttosto l’arte gotica come luogo, ha creato una Francia inedita, un’umanità francese, tali linee d’orizzonte, tali profili di città, insomma una poetica ch’esce da lei, e non dalla geologia o dalle istituzioni capetinge»[5] .
 
Potremmo aggiungere la fitta texture dei campi lavorati del senese, riprodotti negli affreschi del Lorenzetti, le alte schiere delle case a traliccio dei Paesi del Nord, le meraviglie del Barocco a Praga, e oltre, nella lista dei paesaggi culturali che l’Unesco non finirà di censire… Ma questo cantiere di paesaggi identitari multipli e di sguardi incrociati è sollecitato a un confronto non solo europeo, ma interculturale, a un’apertura verso un mondo sempre più integrato e globalizzato, alla possibilità di essere condiviso con nuove cittadinanze che vengono da fuori Europa. Questi paesaggi, questi patrimoni culturali e il nostro sguardo che li fonda e li avvolge è sfidato ad aprirsi, a poter essere condiviso, fatto proprio e rielaborato da nuovi cittadini e migranti, da uomini e donne che non cercano solo salvezza e lavoro, ma anche possibilità di riconoscimento, dignità e identità. Sapremo aprire il nostro sguardo e il nostro patrimonio a raccontare di noi, a spiegare perché siamo così e non altrimenti, lasciando che altri si ancorino alle porosità, alle faglie, al cretto delle nostre identità, costruendo le loro traiettorie identitarie e arricchendo le nostre, avviluppandole di nuovi immaginari e potenzialità? Non è un tema solo di oggi e, anche se ora si configura in modo diverso tutto ciò è comunque già nel nostro patrimonio, da Marco Polo ai mercanti del Medioevo, alle rotte delle spezie, che hanno portato a un confronto millenario tra le culture attorno al Mediterraneo, pur nei percorsi carsici imposti da guerre e conflitti devastanti. Così Edward Hollis ci ricorda che Carlo V, l’imperatore che diceva di se stesso «Io parlo spagnolo con Dio, italiano con le donne, francese con gli uomini e tedesco con il mio cavallo» viveva la sua storia d’amore con Isabella e con l’Alhambra che aveva eletto a sua dimora, attraversato dalla nostalgia nel suo mirador per non poter capire e leggere quelle mura amate: «(…) infatti le decorazioni che ricoprivano l’Alhambra, e che per Carlo erano solo una meravigliosa tappezzeria, rappresentavano pagine e pagine di istruzioni. Per Abu Abdallah Muhammad, che sapeva leggere l’arabo, i muri dell’Alhambra erano poesia e proclama, monito e sacra scrittura. (…) L’anticamera della Sala degli Ambasciatori proclamava: «Sono come una sposa abbigliata per le nozze, dotata di bellezza e perfezione»[6]
Ma non è solo questione di pietre e di passato, ciò che l’identità in cantiere implica è la nostra capacità di dare nuovi sensi ai luoghi, ai monumenti, alle povere cose quotidiane, alla nuda pietra, la possibilità d’integrarli in un paesaggio culturale in movimento che espandiamo e ricreiamo in continuazione, poiché il patrimonio culturale è questa miscela indissolubile di storia materiale e immaginario, di beni fisici e beni culturali proiettata nel futuro, nel futuro nostro e del paesaggio che vogliamo abitare. E’ per questa ragione che il patrimonio si arricchisce con la sua proiezione al futuro, è per questa possibilità di orientare tali ricchezze al futuro che un Anno del Patrimonio Europeo può fornire un contributo inestimabile di consapevolezza all’identità degli europei e dei nuovi cittadini. Se non fosse così avrebbe ragione Rem Koolhas quando sostiene che: «il fatto che la crescita dell’umanità sia esponenziale implica che il passato a un certo punto diventi troppo “piccolo” per essere abitato e condiviso da chi è vivo. (…) L’identità è una trappola in cui un numero sempre maggiore di topi deve dividersi l’esca originaria e che, osservata da vicino, forse è vuota da secoli»[7]. Lo abbiamo detto prima: il passato non è uno stock finito e congelato, il passato non è più quello di una volta, cresce allo stesso passo del nostro futuro e di questo occorre prendere coscienza, anche attraverso l’istituzione di un Anno Europeo che sappia declinare le potenzialità del patrimonio al futuro, che mostri appieno l’alveo di cultura, i paesaggi in cui le nostre identità possano riposare nella loro diversità e rallegrarsi della loro coalescenza.
Nel momento in cui un delirante fanatismo religioso distrugge millenarie testimonianze di cultura pensando di mutilare l’identità d’interi popoli, non c’è miglior risposta di una riflessione profonda su patrimonio, memoria e identità, che mostri come tutto ciò cammini con le gambe di uomini e donne, come le pietre più dure e resistenti alberghino negli sguardi, come i monumenti più mirabili si costruiscano nelle culture delle persone e delle società, sicché l’offesa alle cose - per quanto folle e degradante possa essere - sarà sempre e necessariamente risarcita e metabolizzata da una società civile. Che l’Anno Europeo ci aiuti a riappropriarci del nostro patrimonio culturale, ci aiuti a capire che sono le persone e le loro culture il patrimonio in continua trasformazione, ci renda consapevoli che i valori si originano anche dal nostro sguardo, come Duchamp ironicamente ci ha ricordato[8], ci insegni a percepire il patrimonio come una ricchezza che non dobbiamo temere di perdere condividendola con altri, perché siamo noi a farlo vivere, costruendolo e difendendolo in continuazione, con la nostra memoria, con la nostra identità, con i nostri sogni e il nostro immaginario.
 
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Fonte: http://www.fitzcarraldo.it/ricerca/pdf/patrimonioculturale_dalpozzolo.pdf

 
Luca Dal Pozzolo  è Direttore Osservatorio Culturale Piemonte
 

 

[1] “Immagine sconcertante, questa rovina futura, la prima del genere è stato detto, in tutta la storia della pittura. (…) La rovina fa meno vagheggiare su ciò che è stato che su ciò che sarà, o più esattamente su ciò non sarà più. Il movimento dello spirito rovescia il modo di procedere di Petrarca o quello di Du Bellay. La rêverie sulle rovine era una memoria; eccola divenuta un’anticipazione”. Pittura militante e architettura rivoluzionaria. ANDRÉ CORBOZ, A proposito del tema del tunnel in Hubert Robert (1978) in Ordine sparso. Saggi sull’arte. Il metodo, la città e il territorio, Franco Angeli S.r.l., Milano, 1998, pp. 76-77

[2] “Allora, che cos’è passato, in questo mobile? Heidegger risponde “il mondo” di cui faceva parte: così questa cosa sussiste ancor oggi, e con ciò è presente e non può che essere presente; ma in quanto oggetto appartenente a un mondo passato, questa cosa presente è passata”. JEAN-FRANÇOIS LYOTARD, La phénoménologie, Presses Universitaires de France, trad it. La fenomenologia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2008, pag.85-86

[3] “La memoria olfattiva si inscrive nella lunga durata, è una traccia di storia e di emozione che le circostanze ravvivano. L’odore, che è sempre intriso di affettività, è un mezzo per viaggiare nel tempo, per strappare all’oblio briciole d’esistenza”. DAVID LE BRETON, Le Saveur du Monde. Une Anthropologie des Sens, Editions Métailié 2006, trad it. Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore, Milano, Prima Edizione, 2007, pag. 277-278“La memoria olfattiva si inscrive nella lunga durata, è una traccia di storia e di emozione che le circostanze ravvivano. L’odore, che è sempre intriso di affettività, è un mezzo per viaggiare nel tempo, per strappare all’oblio briciole d’esistenza”. DAVID LE BRETON, Le Saveur du Monde. Une Anthropologie des Sens, Editions Métailié 2006, trad it. Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore, Milano, Prima Edizione, 2007, pag. 277-278

[4] “Tutto il resto per cui i costruttori si sacrificarono se n’è andato: tutti gli interessi, le aspirazioni, i successi della loro vita. Noi non sappiamo per cosa essi si siano affaticati, e non vediamo alcuna traccia concreta di una loro ricompensa. La vittoria, la ricchezza, l’autorità, la felicità: tutto se n’è andato con loro, sebbene conseguito con ben più di un amaro sacrificio. Ma di loro, della loro vita e delle loro pene sulla terra, una ricompensa, una testimonianza è rimasta a noi. In quei cumuli di pietre grigie lavorate fin nell’intimo. Hanno portato con sé nella tomba il loro potere, i loro onori, i loro errori; ma hanno lasciato a noi la loro devozione”. JOHN RUSKIN, The Seven Lamps of Architecture, 1880, trad.it. Le sette lampade dell’architettura, Editoriale Jaca Book s.p.a., Milano, Prima edizione italiana 1982, sesta ristampa febbraio 2007, pag.64

[5] HENRY FOCILLON, Vie des Formes suivi de Eloge de la main, Presses Universitaires de France, Paris, 1943, Ed. It. Vita delle forme seguito da Elogio della mano, Piccola Biblioteca Einaudi, Giulio Einaudi Editore s.p.a, Torino 1972, 1987, 1990 e 2002, pag. 25

[6] EDWARD HOLLIS, The secret Life of Buidings, trad. It. La vita segreta degli edifici. Dal Parteneone alla Vegas Strip in tredici racconti, Adriano Salani Editore s.p.a., Ponte alle Grazie, Milano 2011 pag. 156-157

[7] REM KOOLHAS, Junkspace, Quodlibet, Macerata, prima edizione novembre 2006, prima ristampa gennaio 2012, P. 28

[8] A proposito di slittamento dei valori e della potenza costruttrice delle culture, chi ritiene che l’orinatoio di Duchamp nel museo sia una battuta di spirito dell’arte contemporanea, rifletta sul valore inestimabile che le discariche storiche hanno oggi per gli archeologi….