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Per non fermarci solo agli esiti elettorali

  • Pubblicato il: 14/06/2016 - 06:30
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Ledo Prato

Sta cambiando, è cambiata la geografia economica del Paese? La semplificazione istituzionale e la cosiddetta disintermediazione stanno indebolendo la rappresentanza dei territori? Siamo ad un punto di non ritorno? Se volessimo scorrere i programmi che i diversi schieramenti hanno presentato nella recente campagna elettorale, è probabile che non troveremmo risposte alle nostre domande. Eppure abbiamo eletto i Sindaci che dovranno governare e rappresentare i territori. Il Sindaco di Roma sarà anche il Sindaco della Città metropolitana ma nessuno dei candidati ne ha parlato e, persino i cittadini romani, per lo più lo ignorano. Il fatto è che in questi ultimi anni, a causa di molteplici fattori economici, sociali e politici, dopo anni di vaghe e improponibili discussioni sul federalismo (a cui non sembra più interessata neanche la Lega), abbiamo assistito ad una ricentralizzazione che tende da una parte a “disconoscere” i territori e dall’altra a “privilegiare” i rapporti con le grandi città metropolitane, sull’onda di quanto è avvenuto in Paesi come la Gran Bretagna, la Spagna e la Francia. Anche se Milano o Roma non hanno né la dimensione né il profilo di città come Parigi o Londra, non c’è dubbio che esse sono parte di una rete sovranazionale alimentata da flussi di persone, scambi commerciali, risorse finanziarie, investimenti immobiliari e così via. Come in quei Paesi, anche in Italia il Governo tende a rivolgere una particolare attenzione verso le due città (vedi Expo a Milano e Olimpiadi a Roma), immaginando che la crescita economica in queste due aree possa contaminare l’intero Paese e migliorare la competitività a scala internazionale (si parla infatti di città-mondo). La spinta alla polarizzazione dello sviluppo emerge chiaramente se si analizzano i grandi flussi di persone alimentati dall’alta velocità, così come dall’andamento del traffico aereo internazionale. Non solo ci sono intere aree del Paese non servite dall’alta velocità (dalla dorsale adriatica a gran parte del mezzogiorno) o città medie, in Emilia come in Toscana, letteralmente marginalizzate perché non servite dall’alta velocità, ma persino città come Torino o Genova, soprattutto per la loro collocazione geografica, hanno un numero limitato di connessioni giornaliere (Bologna 250, Torino 83). Non è molto diversa la situazione nel traffico aereo internazionale. Milano e Roma rappresentano il 62% e, con l’aggiunta di Venezia e Bologna, si arriva al 77%. Gli scali internazionali quindi sono limitati a pochi poli. Eppure le due aree metropolitane di Milano e Roma generano rispettivamente solo il 9,7 e il 9,3% del PIL nazionale mentre Parigi e Londra contribuiscono rispettivamente per il 30,4 e il 22% del PIL di Francia e Regno Unito. Per trovare una situazione simile all’Italia bisogna andare in Germania dove le 6 città più importanti contribuiscono al PIL fra il 4 e il 6,7%. Italia e Germania sono paesi policentrici, a differenza della maggior parte degli altri paesi europei. Nel nostro Paese, fra le 30 province che contribuiscono in misura maggiore alla formazione del PIL, i 2/3 non sono città metropolitane. Questo dato conferma che c’è una parte importante del Paese che, nonostante tutto e fra non poche difficoltà, ha una grande vitalità, si è organizzato in distretti industriali, ha sperimentato innovazione, vive una dimensione sociale aperta all’integrazione, compete in molti casi sul mercato internazionale. Una parte di Paese che ha cominciato a fare i conti con un esasperato campanilismo, con una certa autoreferenzialità, con gli sprechi e le sovrapposizioni, con l’idea di poter fare a meno di positive relazioni persino con la città vicina. E questi processi non hanno portato all’isolamento o alla contrapposizione nei confronti delle aree metropolitane. Anzi, in molti casi, hanno generato nuove geometrie economiche. Questo quadro, sommariamente richiamato, ci restituisce un Paese che presenta specificità, caratteristiche storiche, culturali, economiche e persino morfologiche tali per cui una politica di ricentralizzazione che mortifichi ulteriormente le istituzioni locali ed i livelli di rappresentanza dei territori rischia di indebolirli ulteriormente e, alla lunga, di perdere opportunità per lo sviluppo dell’intero Paese. Questa considerazione può essere estesa anche alle politiche per i beni e le attività culturali, al turismo e, più in generale alla filiera economica del “made in italy”. Stiamo parlando di settori che sono intimamente legati ai territori. E’ così per il patrimonio culturale diffuso, è così per il turismo che vive di competizione fra territori oltre che fra Paesi, è così per l’economia del made in italy che è impastata con le tradizioni artigianali locali, alle tipicità territoriali nell’enogastronomia e così via. In tutti questi settori, nel corso di questi ultimi 10/15 anni, è cresciuta la dimensione distrettuale: dai distretti industriali a quelli agricoli, da quelli turistici a quelli culturali. Non tutti sono casi di successo ma molti hanno assunto dimensioni economiche di assoluto rilievo. Con lo sviluppo dei distretti è cresciuta anche la capacità di rappresentanza dei territori e i corpi intermedi hanno avuto un ruolo decisivo. Anche qui è bene sottolineare che non si tratta di processi omogenei e non tutti con esiti positivi (permangono difficoltà in molte aree del Mezzogiorno). E tuttavia, se in questi settori abbiamo raggiunto dei tassi di crescita incoraggianti (nei flussi turistici, nei consumi culturali, nella fruizione del patrimonio, nell’enogastronomia, nella moda, nel design, nel legno ecc), pur in un periodo di forte crisi, è proprio grazie ad una organizzazione dei diversi fattori ad una scala territoriale che ha favorito integrazione, identità, coesione sociale. E tuttavia, da qualche tempo, ci sono segni evidenti di sofferenza. Ci troviamo quindi di fronte a due spinte: da una parte una politica che ricentralizza, che spinge in direzione delle grandi aree metropolitane (allo stesso tempo temute e sostenute dal centro), che considera le organizzazioni di rappresentanza dei territori e dei corpi intermedi un “intralcio” allo sviluppo e dall’altra una vivacità delle economie locali e distrettuali che stenta a trovare nuovi modi per rappresentarsi e rappresentare i territori di riferimento, con le istituzioni locali depotenziate di mezzi, risorse, funzioni e, qualche volta, prive di visioni di medio-lungo periodo. Spetta alla politica trovare l’equilibrio fra queste due tendenze in atto per provare a governare processi che generino innovazione senza cancellare la spina dorsale del Paese. Ed il primo passo è restituire centralità alle città, riconoscendone il carattere di luoghi della innovazione economica, sociale e culturale. Un riconoscimento “dall’alto” ma anche una rinnovata capacità progettuale dal “basso” che le amministrazioni e gli attori locali dovrebbero essere capaci di generare. Per quanto riguarda le politiche per i beni e le attività culturali, il turismo e la filiera economica del “made in italy” occorre rivolgere uno sguardo attento alle scelte che si faranno nei prossimi mesi. C’è infatti il rischio di una progressiva divaricazione fra le politiche di quadro e quelle di settore, con un progressivo indebolimento dell’efficacia delle stesse misure riformatrici adottate dal Mibact negli ultimi tempi. Lo strabismo di certo non aiuta.

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