Museo quo vadis?
Ai nastri di partenza a Milano, dal 3 al 9 luglio, la 24ma Conferenza generale dell’ICOM-International Council of Museum. L’appuntamento chiama a raccolta ogni tre anni la comunità internazionale dei professionisti museali per discutere dei trend del loro campo.
Era il 1953 quando tra Milano, Bergamo e Genova l’Italia ospitò la Terza Conferenza generale, dedicata ai problemi dei musei distanti dai grandi centri e dei paesi sottosviluppati, all’architettura dei musei nella moderna urbanistica.
Quest’anno, sulla strada del suo 70mo anniversario dalla fondazione, ICOM, che conta 36mila membri in 138 paesi, si focalizza sul “ rapporto tra Musei e paesaggi culturali” che verrà proposto “come prospettiva strategica del Terzo Millennio”, ci anticipa Daniele Jalla, Presidente Italia. Il focus, caro alla museologia italiana, nasce proprio da ICOM Italia: “crediamo che un approccio integrato al patrimonio culturale imponga a tutti i musei di aprirsi al contesto in cui operano, assumendo una responsabilità diretta anche nei confronti del patrimonio e del paesaggio culturale di cui sono parte”.
Un invito al ripensamento del ruolo agito nella società che va oltre le eredità, aprendosi alla contemporaneità. “Apertura è la parola chiave di questa Conferenza” che ha già oltre 2500 iscritti, sottolinea Jalla. Apertura implica “confrontarsi sempre più con i grandi problemi dell’umanità e con quel contesto globale che impone soluzioni globali, ma anche il rispetto e la difesa delle differenze culturali, sentite come risorsa”.
Alle straordinarie potenzialità di trasformazione del nostro tempo, alcune già palesemente in moto nelle realtà più attive, e al ruolo del museo come elemento biologicamente attivo in un ecosistema culturale al servizio del progetto di territorio, all’evoluzione nella relazione con pubblici sempre più ampi e diversificati, alle opportunità della tecnologia abilitante nei nuovi processi di costruzione della conoscenza, allo sguardo interdisciplinare alla complessità, Il Giornale delle Fondazioni dedica approfondimenti da due mesi con la rubrica “Museo Quo Vadis”, mescolando generazionalmente le voci, i punti di vista come da stile della casa, tra ricerca, pratiche e politiche. Nuove costruzioni di senso che guardano a nuovi modi di costruire la sostenibilità in un approccio multistakeholders, con soggetti con i quali condividere ricerca e competenze, anche oltre i confini del paese (ndr il racconto del Must).
In questo numero parliamo molto del ruolo sociale del museo, come comunità educante, nell’accezione etimologica del termine, educere, portare fuori. Un ruolo che ha un portato politico e non certo ancillare, da distinguere dalla didattica, lo strumento, nel quale spesso è ancora confinato. Un ruolo che ha dignità pari alla conservazione e alla curatela e che, non ci stanchiamo di dire, non si esprime a valle, a giochi fatti sulla progettazione, all’apertura della mostra, ma a monte, dalla parte dalla domanda sulla missione, con una traduzione corale di tutte le funzioni.
Una lettura di contesto preparatoria al congresso, che intreccia economia e scienza, che reputiamo adatta ai giovani in formazione, agli amministratori pubblici, ai decisori degli enti filantropici sempre più consapevoli che i “goal del Millennio”, sfide e opportunità, si colgono con uno sguardo trasversale e che la cultura è il comune denominatore. Ruolo del museo e ruolo dell’arte. Proseguiamo l’apertura della testata con l’ascolto degli artisti - in questo numero, l’israeliano Yuval Avital - con la la domanda “What’s art for”, a cosa serve l’arte oggi, quesito con il quale la nostra testata madre “The art newspaper” ha celebrato il proprio primo quarto di secolo con un tour di confronto nei grandi musei del mondo (National Gallery, Hermitage, Moma e in autunno ai Musei Vaticani).
Una domanda che è un’urgenza dopo la kermesse di Art Basel. Numero espositori e visitatori in crescita costante come i “Prezzi ubriachi di un manipolo esclusivo di artisti che, alla faccia di qualsiasi crisi, continuano ad essere ricercatissimi e pagatissimi. Opere che pochi mesi prima sul mercato primario, ovvero delle mostre in galleria, avevano un prezzo, a Basilea, regno del mercato secondario segnano aumenti del 20, 30, 50%”. Gli artisti dell’arte povera sempre in auge. Alighiero Boetti del 1979 a 5 milioni di euro in una fiera nella quale domina per il pubblico il sistema delle caste, come ci racconta con trasparenza Francesco Bonami che se ne intende, sulle colonne de La Stampa “I super Vip, i Vip, imbucati dei VIP e poi dal venerdì l’orda dei Pip, i poco importanti e poveri”, coloro che vanno, grazie a Dio, alla fiera a vedere semplicemente l’arte come se fosse un museo, “disincantati dal suo valore commerciale”. Fiutati subito dai mercanti che intercettano i “tires kicking, ovvero quelli che nei concessionari danno un calcetto ai pneumatici delle vetture per far finta di intendersene e dare l’impressione di essere potenziali compratori”. Pur riconoscendo il ruolo fondamentale del mercato, il rumore assordante delle grandi cifre, dalle aste internazionali alle fiere, ricorda molto quello del mercato finanziario, drogato rispetto all’economia reale, i cui esiti sono di fronte ai nostri
occhi. A Basilea, concordiamo con Bonami la commozione, nella sezione monumentale Unlimited, dedicata ai grandi progetti speciali di singoli artisti, di fronte ”alla stanza del 1992 di pietre blu di quel Anish Kapoor bravo che non esiste più”, un’arte di cui si sente nostalgia.
© Riproduzione riservata
ph| ABI-TANTI. La moltitudine migrante, un progetto del Dipartimento educazione del Castello di Rivoli Museo d'Arte Contemporanea ©