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Mobilità e nuovi paesaggi alla Triennale

  • Pubblicato il: 17/11/2012 - 13:43
Autore/i: 
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Gaia Piccarolo
La stazione centrale di Berlino

Milano. In un contesto di crisi delle risorse e revisione dei modelli tecnocratici di sviluppo, sembra azzeccata la scelta di riportare la riflessione su un tema, quello delle infrastrutture, che la cultura progettuale (soprattutto in Italia) tende a considerare poco attraente, e del quale si dovrebbe invece misurare l’efficacia ad agire sulla realtà fisica, economica ed estetica del territorio, sul progresso sociale e sulle stesse abitudini di vita.
La mostra, curata da Alberto Ferlenga con Marco Biraghi, Benno Albrecht, Giulio Barazzetta, Giacomo Polin e Massimo Ferrari, si articola in quattro sezioni: una storica, una dedicata a opere recenti all’estero, una a opere da poco realizzate o in corso di realizzazione in Italia e l’ultima a una panoramica su scala globale.
Si tratta di uno stato dell’arte sulle infrastrutture osservato dal punto di vista privilegiato dell’architettura e orientato a una rifondazione concettuale del tema come strumento operativo per affrontare le sfide della contemporaneità, accompagnato da esempi virtuosi di «una storia ancora utile». Non a caso, la mostra si apre con una «quadreria degli antenati» in cui, fra gli altri, i disegni del piano di Algeri di le Corbusier e le centrali elettriche di Sant’Elia rappresentano l’incontro folgorante, nei primi decenni del Novecento, fra l’universo delle infrastrutture e quello dell’architettura. Il racconto di questo incontro si snoda attraverso affondi su esperienze significative per l’attenzione riservata, oltre che alla funzionalità e all’innovazione tecnica, al paesaggio, allo spazio pubblico, alla qualità architettonica e ambientale dei manufatti, veri e propri monumenti della modernità: dal lungofiume di Lubiana di Joe Plecnik alle opere stradali e idrauliche di Paul Bonatz in Germania, dalla metropolitana di Mosca fino alla più recente Autostrada A3 del Canton Ticino di Rino Tami. L’Italia è ben rappresentata dalle grandi centrali idroelettriche di Piero Portaluppi, dalle stazioni di servizio Agip di Nino Dardi o dall’immancabile Università delle Calabrie, con un approfondimento dedicato alla stagione ingegneristica degli anni ‘50-‘80, in cui l’opera di figure come Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi e Silvano Zorzi ha assegnato al nostro paese un ruolo trainante sulla scena internazionale, simboleggiato dalla pioneristica  Autostrada del Sole. Il quadro che emerge dalla rassegna delle attuali realizzazioni non risulta altrettanto incoraggiante, sebbene sia evidente lo sforzo di mettersi al passo con quanto fatto all’estero rispetto alle diverse scale e tipologie di intervento, compreso il riuso di infrastrutture dismesse: dalla volontà di qualificare le opere dal punto di vista formale agli interventi che dimostrano una sensibilità a tematiche ambientali e paesaggistiche, come il laboratorio «Km 129» a Reggio Emilia o il progetto Mose di Venezia. Il coinvolgimento di archistar risulta pratica ricorrente ma non unica, mentre sembra emergere una positiva tendenza alla permeabilità fra infrastrutture e beni culturali e paesaggistici.
La sezione più affascinante è però quella dedicata agli interventi a scala sovranazionale o mondiale, la cui formulazione trova sensazionali anticipazioni nella storia del Novecento. Visioni utopiche come Ecumenopolis di Konstantinos Apostolos Doxiadis o Atlantropa di Herman Sörgel fanno da sfondo concettuale alle titaniche opere infrastrutturali del regime sovietico, del New Deal statunitense e della Germania nazista, ma anche alle colossali opere del nuovo millennio: il tunnel di Bering, le barriere verdi africane e cinesi, lo sfruttamento energetico delle aree desertiche, la creazione di nuove vie d’acqua, e infine un repertorio di rappresentazioni delle reti dei flussi che innervano la Terra mettono in luce come questioni quali il cambiamento climatico, la desertificazione o l’esaurimento delle risorse energetiche non possano essere affrontate se non alla scala globale.
In definitiva, la mostra vuole essere un invito, forse troppo ottimistico e al prezzo di varie assenze, a essere costruttivi, interpretando i ritardi come occasione per agire con maggiore consapevolezza e la crisi come spunto per la sperimentazione. Immaginando le future generazioni di infrastrutture non solo come motori dello sviluppo economico, ma come risorse per la valorizzazione e la riqualificazione del territorio.

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da Il Giornale dell'Architettura numero 110, novembre 2012