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Meno privati, meno pubblico

  • Pubblicato il: 12/05/2013 - 01:22
Autore/i: 
Rubrica: 
SPECIALI
Articolo a cura di: 
Chiara Tinonin

Torino. Dai restauri alle mostre, dalle partnership di lunga data ai progetti co-firmati, la sponsorizzazione è uno degli strumenti più importanti per l’intervento dei privati a supporto della tutela e valorizzazione dei beni culturali e della produzione di nuova cultura.
Quanto valgono le sponsorizzazioni in Italia? Dall’indagine «Il futuro della sponsorizzazione»[1] negli ultimi quattro anni il volume delle sponsorizzazioni è diminuito del 28% (da 1,8 a 1,3 miliardi di euro), toccando nel 2012 un minimo storico che ci ha riportati ai livelli dei primi anni Novanta. In questo scenario il settore che soffre più degli altri è la cultura, che attrae solo l’11,6% delle sponsorizzazioni totali, con 150 milioni di euro investiti complessivamente (cfr. Il Giornale dell’Arte «Nel 2013 sponsorizzazioni indietro di 20 anni»). Pur considerando la congiuntura economica e il significativo ridimensionamento dei budget di comunicazione delle imprese, guardando questi dati viene da chiedersi se la sponsorizzazione possa ancora rappresentare un modello valido per la cooperazione pubblico-privato nella cultura e, in caso affermativo, in che modo le cose debbano cambiare per fare in modo che la sponsorizzazione torni ad essere uno strumento diffuso.

Secondo Dario Destefanis, responsabile dell’ufficio stampa Lifestyle di Fiat Group, la sponsorizzazione culturale è una grande opportunità in un’arena competitiva in cui le aziende hanno soprattutto necessità di veicolare contenuti di qualità su canali, media e luoghi diversi. E’ un elemento imprescindibile della cooperazione pubblico-privato anche per Alessandro Bollo, Responsabile Studi e Ricerche della Fondazione Fitzcarraldo, che sottolinea quanto il settore culturale debba aprirsi al cambiamento, proponendo alle imprese nuove modalità d’interazione. «La cultura è resiliente, cioè tenace: si muore molto meno qui che in altri comparti, ma questo si sposa con un sistema immunitario forte rispetto al cambiamento. Nel 2013 siamo ancorati tenacemente a salvare il presente e abbiamo poca capacità di prefigurarci una visione del futuro». Fa ben sperare, secondo Bollo, che se molte istituzioni culturali di fronte alla crisi sono immobili «al bordo dei settori, invece, ci sono realtà più aperte a pensare strade nuove perché molto spesso hanno iniziato a lavorare durante la crisi e non sono abituate a contare sui finanziamenti pubblici» come ha affermato in occasione della tavola rotonda organizzata da Il Giornale delle Fondazioni e Fondazione Fitzcarraldo per il lancio del nostro «Sponsor Tour» che, oltre al dibattito, vuole facilitare il confronto fra operatori[2].
Nessun dubbio, poi, sulla necessità di perfezionare la valutazione degli investimenti culturali, sottolineata da Massimo Coen Cagli della Fundraising School di Roma. «Dovremmo lavorare insieme, operatori culturali e imprese, sulla valutazione dell’impatto degli investimenti culturali. Come si stanno evolvendo i modelli delle istituzioni culturali in questa direzione? Come si rileggono rispetto al valore che apportano alla loro comunità?».

Dare risposta a queste domande significa comprendere che oggi non possono esserci tutela e valorizzazione senza l’attenzione e l’interesse della comunità alla vitalità culturale del proprio territorio e che, se sappiamo che i privati intervengono più volentieri là dove c’è una presenza pubblica, oggi contemporaneamente un minore intervento privato nella cultura spinge verso un minore intervento pubblico.
Una considerazione che negli Stati Uniti è stata quantificata dall’Hauser Center for Nonprofit Organizations di Harvard in un rapporto preoccupante: senza finanziamenti privati, un’organizzazione culturale statunitense perde metà del suo finanziamento pubblico.
Certo, è cosa nota che negli Stati Uniti «le arti sono trattate come un bene pubblico e finanziate come un bene privato» come ha affermato Jim Bildner, senior researcher dell’Hauser Center presentando «SustainArts», un progetto pluriennale ideato dal Centro per analizzare i collegamenti tra i finanziamenti pubblici e privati alla cultura, la partecipazione dei cittadini e la vitalità delle nuove produzioni artistiche in alcuni grandi centri urbani: Detroit, San Francisco, Philadelphia, Miami, Chicago, St. Paul e Minneapolis, Boston e Los Angeles[3].
Uno studio che dovremmo importare anche in Italia perché se da oltreoceano, nella patria del cosiddetto modello dell’«azionariato diffuso» della cultura, è già chiaro, in Europa iniziamo ora a comprendere che senza partecipazione attiva non è più pensabile un sistema welfaristico efficace per le arti e la cultura.
«Sempre di più la sostenibilità economica dovrà andare a braccetto con la sostenibilità sociale» afferma Bollo. «Fino a due anni fa non era così, la sostenibilità economica si basava su patti sociali diversi che avevano a che fare con il valore intrinseco della cultura, il concetto di bene meritorio, il concetto di politica culturale che regolava l’offerta con modalità proprie. La sfida di oggi è capire quale nuovo patto sociale vogliamo costruire».
Un patto sociale che porta la cultura nell’immaginario del quotidiano «progettando con un senso diverso, progettando per qualcuno. Il nuovo modello non dovrebbe essere di out-out, ma di e-e. Dobbiamo costruire un baricentro di possibilità: co-progettazione, storytelling con le imprese e condivisione di senso con le persone, prendendoci carico di leggere i bisogni del territorio».

Sono proprio la cultura e le arti a giocare un ruolo fondamentale nel descrivere la vitalità di una comunità, tanto che «dovrebbero essere considerate nel portafoglio strategico per la trasformazione urbana» ha detto alla tavola rotonda dell’Hauser Center Carol Coletta, Presidente di ArtPlace, una fondazione americana privata che negli ultimi due anni ha finanziato circa 80 progetti in 46 comunità per 29 milioni di dollari. Coletta ha continuato affermando che «sempre di più le persone non distinguono tra organizzazioni culturali non profit e for profit: non fanno questo tipo di distinzioni quanto pensano a che cosa fa di un luogo un grande luogo. A volte non fanno questo tipo di distinzioni nemmeno tra un bellissimo cafè e una galleria d’arte: è tutto parte della stessa cosa». Un pensiero che suggerisce quanto oggi una politica culturale debba quasi superare la faccenda «cooperazione pubblico-privato», dandola per scontata, per concentrarsi sugli aspetti di attivazione della cittadinanza attiva, partecipazione, radicamento delle persone ai propri luoghi. Non a caso il BMW-Guggenheim Lab, con il workshop di Mumbai, ha lanciato «Is Your City Public or Private?», una piattaforma online per raccogliere (e mappare) la percezione degli utenti sulla privacy dei luoghi pubblici della città che abitano. Una partnership tra impresa e museo che porta là dove si crea il futuro.

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[1] L’indagine predittiva è condotta annualmente da Stage Up e Ipsos. Nel 2012 Il Giornale delle Fondazioni ha collaborato alla ricerca per il settore Arte e Cultura.
[2] Torino, Fitzlab, «Il futuro della sponsorizzazione culturale» (Marzo 2013)
[3] In occasione della Spring frontline with faculty series «Are arts relevant in a 21st Century World?» (28 Febbraio 2013)