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Maria Lai. Il filo e l’infinito

  • Pubblicato il: 16/03/2018 - 08:00
Rubrica: 
FONDAZIONI D'ARTISTA
Articolo a cura di: 
Roberto Mastroianni

Dalla collaborazione tra le Gallerie degli Uffizi, l’Archivio Maria Lai e la Fondazione Stazione dell’Arte di Usalai, nasce la mostra dal titolo “Maria Lai. Il filo e l’infinito” (9 marzo-3 giugno 2018), inaugurata in occasione della Giornata internazionale della Donna a Palazzo Pitti a Firenze. Questo progetto espositivo è l’ennesimo riconoscimento per una protagonista indiscussa dell’arte italiana del Novecento, dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia del 2017 e Documenta di Kassel e Atene, e per l’attività svolta dai due enti che si occupano di valorizzare il lascito materiale e immateriale della grande artista sarda recentemente scomparsa.  Il percorso espositivo si inserisce, infatti, in una strategia di valorizzazione della ricerca e della sperimentazione della Lai, incentrata sul concetto di relazione e sul recupero di materiali e temi della tradizione, attraverso la valorizzazione di una narrativa delle piccole cose, capace di includere elementi di cultura popolare e comunitaria in una sperimentazione dei linguaggi orientata a indagare la condizione dell’umano nella contemporaneità.


Iniziativa senz’altro meritoria quella delle Gallerie degli Uffizi di realizzare, in collaborazione con la Fondazione Stazione dell’Arte di Ulassai e l’Archivio Maria Lai, una mostra dal carattere retrospettivo dal titolo “Maria Lai. Il filo e l’Infinito”, curata da Elena Pontiggia, che ben dimostra come l’intero percorso dell’artista abbia sempre coniugato sperimentazione artistica e rilevanza delle questioni umane e sociali, articolandosi attorno ad alcuni nuclei teorici e formali fondamentali, come il valore della comunità, della relazione, dei legami affettivi e culturali, della conservazione e trasmissione delle tradizioni.
 
Maria Lai (Ulassai, 27 settembre 1919-Cardedu, 16 aprile 2013) è stata un’artista, visionaria e profetica, che nel silenzio e nella concretezza del gesto artistico ha cercato e trovato il filo rosso che unisce l’umanità nel fluire del tempo, raccontandola con forme e linguaggi capaci di unire innovazione e tradizione, in vista di una cartografia del presente e del futuro delle relazioni umane. Il rapporto con il territorio, la comunità e la sapienza arcaica delle comunità dell’Ogliastra sono stati elementi centrali della sua ricerca e della sua poetica confluiti in opere di arte partecipata e relazionale e in interventi di land art, che traevano origine da un recupero di elementi di cultura popolare, declinati in chiave universalistica e capaci di aprire percorsi di inclusione e sviluppo territoriale. Da questo punto di vista, la Fondazione Stazione dell’Arte rappresenta il punto di arrivo dell’ambizioso progetto che la stessa artista e il paese di Ulassai hanno coltivato per oltre un trentennio, portando un paese simbolo dell’isolamento della regione ogliastrina a diventare uno dei centri di aggregazione culturale più interessanti e innovativi della Sardegna.
 
La nascita della di Stazione dell’Arte trova, infatti, origine in una delle più importanti opere dell’artista, la performance collettiva “Legarsi alla montagna” del 1981, che ha avuto come protagonista l’intera comunità ulassese, dalla quale si sono innescati una serie di interventi che hanno portato all’apertura di moderno Museo d’Arte Contemporanea, che oltre ad accogliere le opere donate dall’artista si impegna in un importante lavoro di valorizzazione del territorio e di educazione diffusa ai linguaggi dell’arte, cui si aggiunge la recente costituzione dell’Archivio Maria Lai nel 2016, diretto dalla nipote Maria Sofia Pisu e con sede nel Museo Diocesano di Lanusei, finalizzato alla catalogazione e allo studio del pensiero e delle opere dell’artista.
 
Non è un caso che l’esposizione fiorentina si apra con il video/documentazione, che restituisce la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, una delle prime opere relazionali realizzate in Italia, con cui l’artista coinvolse gli abitanti del suo paese natio in un’azione attraverso la quale legare le proprie case con un nastro di tela di 26 km che dal paese arrivava fino alla montagna. La performance, ispirata a un’antica leggenda in cui si narra di una bambina che si salva dalla frana di una montagna durante una tempesta grazie a un nastro celeste che vola nel cielo, diventa emblematica di una poetica che crede che la bellezza, l’arte, la relazione siano elementi in grado di salvare le comunità dall’oblio e dal disfacimento.
Non è la prima volta che negli spazi appartenenti alle Gallerie degli Uffizi viene ospitata una mostra dell’artista sarda, questa però rappresenta il delinearsi di un disegno completo di operatività e sinergie istituzionali che portano Fondazione e Archivio a diventare attori fondamentali nel campo dell’arte in Italia. Se la presenza nel 2004 nel Giardino di Boboli  di un’installazione realizzata dalla Lai, “l’Invito a tavola”,  circoscriveva la natura sociale  della poetica dell’artista in una costante tensione tra elementi materiali e immateriali (una grande tavola apparecchiata con pane e libri in terracotta, che, intrisa di riferimenti alla cultura contadina e alla simbolica cristiana del pane, della parola e della scrittura), l’attuale esposizione ospitata a Palazzo Pitti rappresenta invece la consacrazione di una ricerca artistica durata più di settanta anni, che si è imposta in modo indiscusso per estetica ed elaborazione teorica sulla scena internazionale.
Questa mostra, infatti, oltre rendere ragione della poetica dell’artista, dal realismo lirico fino al concettuale, passando per le sperimentazioni polimateriche e informali, mette in risalto tutto il valore sociale della sua produzione, fondata su un’idea di arte intesa come “potenza” di restituire in forma concretamente simbolica i territori dell’umano più irriducibili alla mercificazione e all’omologazione, valorizzando la forza delle relazioni e della creatività.  
Le opere esposte dialogano restituendo il paesaggio culturale e interiore dell’artista e possibili cartografie dell’avvenire e delle comunità, basate sull’elaborazione del passato utile ad indagare il futuro. La presenza di un telaio disfatto, ingombro di fili spezzati e disordinati (“Oggetto-Paesaggio”, del 1967), fa da contraltare come un totem alle tele cucite e ai suoi i libri, dando vita a installazioni e gesti, che non lavorano solo sul filo e sulla tela, ma con il filo e con la tela. Al centro della mostra dunque elementi semplici e quotidiani come la tela, il telaio, il libro… media della memoria culturale e individuale che nella loro oggettualità assumono i linguaggi dell’arte contemporanea per restituire elementi immateriali antichi e universali. Le opere diventano in questo modo elementi di una scrittura più ampia e articolata, in cui le parole si confondono con cuciture e ricuciture, dando forma a un testo poetico molto vicino a quel senso originario di “textum” latino ovvero di un “tessuto” di sensi e significati, di interpretazioni ed emozioni che rimandano sempre al passato e al futuro e all’esperienza concreta degli esseri umani.
Filamento e tessitura, vere cifre stilistiche ed espressiva dell’artista sarda, danno vita ad opere capaci di incarnare quella specifica caratteristica umana di produrre senso “annodando” esperienze, cose e persone nel tempo. Inoltre, come spiega bene Eike Schmidt (direttore delle Gallerie degli Uffizi) in uno dei testi che accompagna l’esposizione, il mezzo tipico del lavoro dell’artista è “quel filo che ‘lega e collega’ in maniera senz’altro viva e che infatti spesso rimane libero e non ancora cucito”, dando vita a opere fatte di “fili in tensione, quelli cuciti e quelli che cadono liberamente”, che “disegnano forme e paesaggi che interagiscono con spazi, volumi e testi, senza tuttavia mai formare delle reti.
Si tratta di una prassi del tutto analogica, che implicitamente rifiuta la metafora guida della nostra era digitale”. Il valore sociale e relazionale della propria poetica viene messo in forma dalla Lai attraverso il filo e la tessitura mettendo in scena, sia un elemento di cultura materiale (il filamento e la tessitura), sia la struttura stessa delle comunità ovvero la capacità di fare e disfare simbolicamente e materialmente i legami temporali e spaziali che danno forma all’umanità, accettando la sfida dei linguaggi del contemporaneo, assumendoli e padroneggiandoli, al fine di esprimere specifichi e impellenti questioni poetiche e teoriche.
 
Il fil rouge che unisce questa mostra, come l’opera tutta dell’artista, è quindi la consapevolezza che solo il lento e minuzioso lavoro di tessitura di relazioni, emozioni, conoscenze ed eredità simboliche e materiali del passato può istituire uno spazio utile all’umanità per preservare se stessa umanizzando il mondo, anche quello che deve ancora venire. Insomma, indagare il futuro attraverso l’arcaico e dare così vita ad opere di lirica pura, immateriale e al contempo tattile, che raccontino l’umanità e la comunità.
 
Missioni queste assunte e portate avanti con vigore dalla Fondazione e dall’Archivio attraverso mostre, pubblicazioni e azioni di educazione e partecipazione che coinvolgono il territorio.
 
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