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MARCO SCOTINI.  TRACCE DI UN’ARTE CHE REINCANTA DAL DESERTO.

  • Pubblicato il: 15/10/2018 - 00:01
Autore/i: 
Rubrica: 
FONDAZIONI E ARTE CONTEMPORANEA
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo
Fra capitalismo e rischio estetizzazione dei commons. Dopo il direttore Enrico Bonanate e il fondatore, Piero Gilardi, incontriamo Marco Scotini, curatore del Parco Arte Vivente, che aprirà il suo prato alla prima personale italiana di Zheng Bo, artista nelle cui opere, dense di metafore e cornici narrative botaniche, si riassumono, oltre alle istanze ecologiche, quelle di resistenza alla marginalizzazione e al controllo sociale. Abbiamo parlato di limiti, possibilità e prospettive di un’arte che mira a generare una comune presa sulla realtà – a giocare un ruolo attivo nella sua trasformazione – ma che si confronta col rischio di esserne modellata e divenirne strumento di travestimento ideologico. Ecco le sfide che ci aspettano.

 
 
Attività aperte, abilitanti, approcci orizzontali, fruizione esperienziale, contenuti artistici e reti culturali d’alto profilo. PAV, tra sotto-investimento, spazi al chiuso ridotti (che il direttore Enrico Bonanate vede come minor possibilità di partnership in progetti di ampio respiro) e collocazione in un milieu urbano poco cooperativo, mira a portare il suo discorso oltre i confini attuali, in un’azione di coinvolgimento culturale efficace che produca effetti sensibili. Come fare? Eppure, qualcosa si smuove, nel rapporto fra arte e fenomeni di rilievo ecologico. E, forse, PAV è là dentro. Ne abbiamo parlato col suo curatore, Marco Scotini, prossimo ad aprirne il prato alla prima personale italiana di Zheng Bo.
 
A vedere com’è aumentata la percezione ambientale negli ultimi anni, sotto la minaccia del global warming, e come sta reagendo la cultura, il PAV – dice Scotini – “per l’unicità e specificità del rapporto tra ecologie e pratiche artistiche (in Italia e guardando all’Europa o fuori dall’ambito occidentale) è da considerare non soltanto un dispositivo pionieristico o un’istituzione che ancora vive di un certo isolamento, ma qualcosa di proiettato nel futuro imminente. Il suo carattere trasversale e la tipologia di spazi che occupa sono precursori di uno spostamento del campo contemporaneo dell’arte che, come tale, non può avvalersi più di un ambiente chiuso museale ma necessita di aree all’esterno, non esclusivamente espositive.” Cita la Libera scuola del giardino, il progetto di apicultura urbana Ur-Bees e Jardin Mandala di Gilles Clément: interventi, dice Scotini, che “offrono una varietà di utilizzi dello spazio esterno che non coincide certo con l’idea di parco di sculture”. Poi aggiunge: “Negli ultimi quattro-cinque anni s’è registrata una proliferazione inedita di letteratura, una moltiplicazione d’artisti che lavorano in ambito ecologico. Solo nell’ultimo anno s’annoverano tre-quattro biennali internazionali dedicate al tema (senza citare Manifesta 12 a Palermo che credo non possa rappresentare un confronto serio in argomento). L’importanza e i riconoscimenti di PAV di recente sono molto cresciuti, anche se il ritardo culturale italiano non facilita.”
 
Come un albero tenuto in vaso o un animale in cattività che attende d’essere reintrodotto in natura, PAV può dare molto di più: ha intrattenuto rapporti più deboli del possibile con scuole, università (tolta l’enclave artistica) e quelle risorse civiche di altra natura capaci d’originare alleanze orizzontali, permaculturali, di allargare il pubblico e di creare scenari di operatività diffusa, capillare, complessa. Se oggi si propone come perno di realtà micro-comunitarie consapevoli, per aumentarne la capacità d’impatto, ci si chiede quindi come possa dar vita a progettualità in grado d’influenzare dall’alto i top player del cambiamento ecologico; se può farsi hotspot di disseminazione, advocacy, lobbismo civico e dar impulso, dal basso, a processi e comportamenti virtuosi, nelle comunità con cui si relaziona. Come può, il PAV, compiere il passaggio finale – da realtà attiva a realtà attivatrice?
 
Prima di proporsi come attivatore di relazioni istituzionali (che comunque sono già molte e non solo nazionali)” puntualizza Scotini “il PAV ha dovuto costruire giorno per giorno la propria identità. Anzi, direi, ha dovuto resistere, combattere e proteggersi per poter definire una sorta di modello culturale alternativo e innovativo in un territorio che faceva fatica a capirne la necessità, l’esistenza – e che continuava a pensare l’arte fuori dalle sue relazioni extra-disciplinari. Oggi mi pare, però, che il terreno sia pronto per poter raccoglierne i frutti.”
 
Piero Gilardi ci ha detto che PAV vuol raggiungere la coscienza delle persone. Saprà sviluppare legami e produrre effetti in comunità ecologicamente determinanti? Far recepire – anche a chi è poco ecologicamente responsabilizzato – la necessità di cooperare per un cambiamento? Far intuire che si può attuarlo a partire dalla propria sfera d’azione? L’arte, a partire da PAV, può influenzare concretamente questi processi sociali?
 
“Vorrei mettere a fuoco due aspetti: uno relativo alle forme – ai mezzi – e uno al contenuto – ai fini. Anche se questi aspetti, nel nostro caso, non sono dissociabili – intendo dire che proprio le pratiche (in quanto tali) sono al centro dell’arte ambientale o ecologista.” avverte Scotini. “Quello che si propongono molti artisti (assieme a eco-militanti e attivisti) è la fuoriuscita dalle forme di produzione e di rappresentazione occidentali nei confronti dell’ambiente: s’interviene soprattutto sui processi che si pensa debbano essere re-immaginati. Perciò gli artisti contemporanei mettono all’opera tipi di creatività diversi da quelli solitamente associati all’espressione artistica: forme di participatory design, di mutuo apprendimento, modi di auto-organizzazione. Come afferma Silvia Federici, «questa è la creatività che si genera quando si modificano i nostri rapporti con gli altri», scoprendo il potere della cooperazione come forma di resistenza. Quel che caratterizza queste ricerche è un meditato processo di de-professionalizzazione che ne segna la distanza dai professionisti dell’architettura, della scienza, della comunicazione. Che cosa significherà mai fare un grattacielo per incrementare la biodiversità vegetale urbana quando questo è realizzato a spese della biodiversità sociale che, nei suoi strati più popolari, è costretta ad abbandonare l’area del nuovo insediamento? Ricorrere alle tecniche della bio-ingegneria o alla mercatizzazione dei costi ambientali non significa altro che portare ad un ulteriore sviluppo quel razionalismo capitalista che ha prodotto il degrado ambientale. In questi anni al PAV abbiamo lavorato con associazioni legate a rifugiati e migranti come Con Moi, associazioni di agronomi, istituti di formazione, mentre artisti come il collettivo CAE hanno lavorato con noi alla definizione di parallelismi tra precarietà sociale e specie vegetali a rischio – come Zheng Bo, che proporrà un rapporto tra erbacce e movimenti attivisti. La figura dell’artista come agro-ecologista, in Fernando Garcia Dory, o l’impegno nei community-gardens di Futurefarmers sono stati presentati al PAV in più occasioni con laboratori ed esposizioni. Ci vorranno tempi lunghi ma, in questo caso, il lavoro con l’arte credo sia importante per le nuove ecologie. Basta pensare a quanti secoli l’occidente ha impiegato per costruire quell’immagine di natura separata che oggi dovremmo abbandonare. Non dimentichiamo che il paesaggio nasce anche dentro la pittura… Sto continuando a parlare dell’Occidente, perché ogni discorso sull’Oriente ci costringerebbe qui ad aprire altre strade.”
 
Tornando al punto critico: senza stabilità e nuove risorse non si dà vita a nuove immagini della natura, a modelli diversi, né si coinvolgono le persone in modo strutturale. E chi punterebbe su qualcosa che potesse danneggiare i propri affari? L’arte, col potere economico di cui critica fini e forme di produzione, intrattiene una mésalliance: calata in esso tanto da divenire asset finanziario, bene posizionale o trend d’acquisto, magari ecologico, la saldatura tra il suo potere trasformativo e quello economico, è chiara. Contraddizione o sfida, compromesso o menzogna, serve capire se le sue istanze non siano, di fatto, riassorbite interamente dall’apparato economico che la sostiene.
 
Perché divenga pratica di cambiamento, l’arte bisogna superi i suoi limiti: primi, la dipendenza da coloro di cui ambisce modificare l’azione – e che limitano la sua azione – e l’endogamia culturale. Può l’arte uscire dai sistemi di produzione attuali, raggiungere nuovi equilibri, l’autonomia per perseguire i propri fini senza più vincoli? E – l’altra faccia della domanda, quella di Frédéric Triail che dice a Zheng Bo “on ne peut pas voir sans connaître”a chi si rivolge quest’arte? Sa spingersi oltre chi ha già la conoscenza per vederla, in modo non occasionale? Le risposte servono a capire – dando ordine inverso ai fattori della citazione di Silvia Federici – quali modificazioni dei nostri rapporti con gli altri si generano davvero con questa creatività: superare tali confini è un primo indice di potere trasformativo.
 
Per nostra fortuna” replica Scotini “siamo in un campo artistico che – ancora – rimane fuori dal sistema. Non credo che collettivi come l’europeo Myvillages o l’americano Futurefarmers, così come le artiste eco-femministe indiane Sheba Chhachhi o Navjot Altaf rientrino nei grandi circuiti che gravitano attorno all’arte contemporanea. Rimane il fatto che nella ri-cattura delle condotte eversive (a cui alludevi) ci siano altri fattori che insidiano ideologicamente il sistema rispetto ad una sua possibile e definitiva neutralizzazione. Qui è in gioco l’accezione di ecologia che si intende promuovere. Manifesta 12, che intitola l’ultima sua biennale The Planetary Garden, mentre non fa altro che promuovere la gentrificazione di Palermo, ne è un segno tutt’altro che equivoco. Che poi la si sia voluta far passare come una forma di resistenza antigovernativa (quando era già stata pianificata prima dell’insediamento del nuovo governo) mi pare rientri nei ruoli politici che le mostre stanno giocando. Altrettanto potrei dire di un libro appena pubblicato sui commons (proveniente dalla stessa area belga-olandese del brand Manifesta), Commonism. A New Aesthetics of the Real, in cui spiace molto vedere annoverati – tra i grandi padri del commoning – star come Liam Gillik o Tiravanija (che, al massimo, hanno fatto arte relazionale). Dunque, le forme che possono limitare i potenziali d’azione sono molte più di prima – vista la posta in gioco – ma, diciamo, che tutto ciò fa parte della stessa resistenza ecologista. Non si tratta infatti di lavorare solo sul rapporto con la natura ma con il sociale e il mentale. Alla tematica del ruolo svolto dal neoliberalismo nel sistema dell’arte ho dedicato il libro intitolato Artecrazia, mentre sull’apertura a 360 gradi dell’ecologia si è appena chiusa la biennale di Yinchuan che ho curato. È chiaro che lo stesso lavoro sull’ambiente forzi i confini disciplinari dell’arte e apra ad un pubblico che non è esclusivamente specialistico. Si tratta di un campo inclusivo per cui lavori fatti nelle fattorie come atelier, nelle periferie, in aree agricole, in terreni montani o in banche dati di semi, richiedono un discorso inclusivo e altri interlocutori. Se tutto ciò sta dentro l’arte è perché c’è bisogno di nuovi immaginari e se continuiamo a ridurre tutto ad un discorso scientifico, sarà difficile reincantare il mondo, come afferma Silvia Federici. Si tratta di praticare un altro tipo di creatività, non più associata alla professionalizzazione dell’artista come tale, con tutte le relative strutture deputate. Dunque, non è facile individuare interlocutori istituzionali forti, per promuovere assieme nuovi modi d’intervento: abbiamo sempre a che fare con lame a doppio taglio. Credo che al momento sia necessario piuttosto cercare di identificare un certo tipo di discorso, che va fatto eccedere e allo stesso tempo va protetto e comunicato, rispetto a tutti gli altri discorsi in circolazione. Senza questa preventiva caratterizzazione si rischia solo fraintendimento e neutralizzazione della ricerca. E per l’arte passare da un tema, o genere, pastorale ad un vero microcosmo pastorale – con tanto di produzione casearia – significherà abbattere secoli di ideologie che vi si sono depositate.”
 
L’egualitarismo biologico fra specie viventi, è l’artificio narrativo che consente a Zheng Bo d’inventare un mondo in cui specie vegetali bollate come dannose o inutili si riabilitano, e specie vegetali e animali si relazionano alla pari. Sullo sfondo di un’utopica indistinzione fra specie dominanti e dominate, Bo, in forma installativa, inscena l’emancipazione di queste ultime dallo stato di segregazione, dà spazio al silenzioso eroismo della vegetazione spontanea e invasiva (weed), ci lascia penetrare nel fascino del sottobosco, ed evidenzia – per contrasto – l’ideologia che separa le specie: Bo fa muovere le sue opere nel vuoto, le fa oscillare fra il desiderio d’inclusione, di riscatto, di una diversità sotto controllo, e l’assenza vertiginosa di immagini del potere che l’assoggetta. Tradurre i caratteri delle specie in chiave biologico-politica, allora, caricarle di valore allegorico, fa, di queste piante cresciute in penombra, nella semi-invisibilità, finalmente esibite, anche dei segni indiretti delle prevaricazioni e oppressioni subìte: esemplari rappresentativi dell’impermeabilità iconografica degli apparati culturali da cui sono state rimosse e occasione, per Bo, di offrire un ritratto latente del potere.
Arte trasparente, costruita con pochi segni, semplici, così comuni da essere inafferrabili, inarrestabili, perturbanti – Bo s’appropria di un’eredità simbolica sepolta sotto decenni di rappresentazione realista e opera, al contempo, con esseri viventi, presenti e individuati nell’ambiente circostante l’installazione, che ci riaggancia continuamente al reale. Bo postula la necessità di un’intimità prolungata con questi esseri, per arrivare a conoscerli, a stupirsene. La sua arte è un invito a guardarci attorno, a metterci in contatto col presente, a riconoscervi l’identità comune, l’interdipendenza: a esprimerci come un essere collettivo, su modello dell’equilibrio auto-regolativo, inclusivo, della natura.
Non c’è martirologiarivolta botanica: quando l’erbaccia arriva a agire politicamente, in sostituzione di poteri precedenti, e ricorda agli uomini che non sono tutto, Bo, non convinto che la strada sia aderire al suo partito, il Weed Party, risponde all’invito dell’ispiratrice (e all’istanza anti-antropocentrica) con scetticismo verso l’adesione ai nuov-ismi:
 
“Beyond these concepts created by us, there is you and thousands and millions of other beings that I will probably never be able to meet in my life. We have occupied space and time, occupied energy and possibilities. You are trying to remind us that we are not all. – How can more people come to see that we are limited, and accept our limitedness? Is joining the Party the only way? I don’t know, but I have to do something. I have to find a few trustworthy friend.
 
Con l’ultima mostra, The God-Trick, che richiama alla situated knowledge di Donna Haraway, e questo passaggio di Bo, sembrano demolirsi le spinte culturale all’oggettivazione (anche in certe forme di lotta), senza rinunciare alla prassi destrutturante del compito epistemologico, e alla priorità della relazione. Si rivendica un humus politico antecedente a ogni coltura umana (che, più o meno inavvertitamente può influire sulle modalità di azione della stessa erbaccia-leader di partito). Si può dire però, anche, che non esiste liberazione relazionale senza liberazione epistemologica? E che il futuro della specie umana stia nella capacità di risituare la propria conoscenza, anziché nella adesione a un agire ecologista epidermico, che oscilla fra schemi ideologici, autocentrati, autoritari, e non incide sull’identità profonda del corpo sociale? Il conto alla rovescia ecologico vuole risposte, ma l’eccessiva strutturazione e organizzazione della vita umana non cela, forse, il pericolo maggiore per l’uomo stesso e il suo ecosistema? Come risituare la conoscenza senza collassare nella complessità o arrendersi all’idea che solo il bisogno, con il desiderio, possa sbloccare gli equilibri della storia?
 
“Sono d’accordo su tutto. Ma” chiarisce Scotini riposizionarci epistemologicamente non ci sottrae dalla lotta o dalla resistenza – e credo di aver dedicato al tema l’intera Biennale di Yinchuan, Starting from the Desert. Quello che chiami «eccesso di strutturazione e organizzazione» è ciò che ho indicato come Scienza di Stato, seguendo Deleuze e Guattari.” E precisa: “Le ecologie, abbiamo scoperto che sono molteplici e che non è possibile ricondurle ad un pensiero centrato – fatto di cause e misure – se vogliamo produrle, farle divenire, non annientarle o espropriarle. Mi fa ridere (ma neppure tanto) vedere l’attuale concentrazione esclusiva su fenomeni naturali che ci eccedono – il riscaldamento globale, l’OGM – trascurando le vere relazioni quotidiane, lavorative, economiche, comunitarie, riproduttive, di comunicazione inter-specie, ecc. Quello che dovrebbe succedere alla scienza di Stato e contrastarla non sarebbe altro che una Scienza Nomade, fuori dai modelli teoretici che fabbricano condotte, assegnano ruoli, limitano e controllano i soggetti (umani ed extraumani).” E aggiunge: “Se è vero che l’economia politica è la scienza della scarsità, è proprio dal deserto che dobbiamo cominciare. Potrà sembrare strano ma le nostre vite sono diventate incredibilmente povere grazie a cinque secoli di sfruttamento capitalista. Il Capitale non ha solo eroso la terra e consumato le risorse ma avvilito i nostri corpi, depotenziato le nostre menti, ridotto a monolinguismo i nostri infiniti linguaggi. Quella che vedo come Scienza Nomade dovrebbe essere in sostanza una scienza delle possibilità, dei possibili. Le shockterapie neoliberiste ci hanno fatto credere che quello in cui viviamo è l’unico mondo possibile. Dovrebbe stare dunque proprio qui la nostra decisione di fare esodo, di uscire dalla terra del Faraone, di passare al deserto…
 

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Ph |  Yin Shuai | Zheng Bo (dx) e Marco Scotini (sx) sullo sfondo del MOCA, 2018, Biennale di Yinchuan, Cina.