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Luca Massimo Barbero

  • Pubblicato il: 21/09/2012 - 19:13
Rubrica: 
NOTIZIE
Articolo a cura di: 
Guglielmo Gigliotti
Luca Massimo Barbero. Foto: Andrea Sarti/CAST1466

Venezia. Alla Collezione Peggy Guggenheimdal 29 settembre al 10 febbraio, la mostra «Giuseppe Capogrossi. Una retrospettiva» documenta l’intero percorso, dal figurativo degli anni Trenta all’astrattismo degli anni Cinquanta-Sessanta, dell’artista che inventò un segno universale.
Realizzata grazie alla collaborazione con la Fondazione Archivio Capogrossi di Roma e ai prestiti di 70 opere da parte di collezioni private e musei italiani e stranieri, la mostra è curata da Luca Massimo Barbero, curatore associato della Collezione Peggy Guggenheim.
Luca Massimo Barbero, come nasce questa mostra?
Da una necessità e da una curiosità. La mostra era un desiderio che coltivavo da tempo.
Che tipo di desiderio?
Proseguire nel mio percorso di reperimento delle radici della contemporaneità. Come già nello spirito delle mostre che ho curato, ad esempio quelle di Fontana, Tancredi, gli Anni Sessanta, Cardazzo, o del libro su Torino sperimentale tra ’59 e ’69, mi interessa trovare una definizione della contemporaneità: ecco, è quella che ha radici con proiezioni di futuro. Noi siamo figli delle idee di quel tempo, e abbiamo ancora da imparare da questi padri: fecero scelte molto più coraggiose di tante oggi a noi contemporanee.
Dopo la svolta verso il noto segno «a pettinino» avvenuta nel ’49-50, Capogrossi distrusse quasi tutte le opere dei decenni precedenti. Quelle che conosciamo si sono salvate perché erano in collezioni pubbliche e private. Che significato ha quel gesto?
Ha un significato morale. Vuol dire: io nasco ora. Bisogna ricominciare da capo, da questo zero. È un gesto artistico, anche se la storia dell’arte ne soffre.
Corrado Cagli, presentando la mostra del gennaio 1950 alla Galleria del Secolo di Roma, dove Capogrossi presentò per la prima volta la sua rivoluzione segnica, parlò in catalogo di «elementi chiamati dal fondo dell’inconscio collettivo». Quei segni misteriosi parlano anche di noi?
Assolutamente sì. Il suo è un segno, un protosegno, originale e originario. Si articola non sullo spazio, ma nello spazio, e quello spazio, quel «campo», è una realtà esistenziale, vive e respira.
Per lei si può esprimere il mondo, o l’intera vita, con un solo segno, per quanto variato?
Capogrossi ne è la dimostrazione più limpida. Il suo è un alfabeto tanto incisivo quanto muto; ha la stessa valenza dei graffiti paleolitici e di una scrittura che viene dal futuro. In questo segno c’è tutto.
Capogrossi era molto taciturno e riservato. Ha parlato rarissime volte del suo lavoro.
Si era dato come consegna il silenzio. Lo dimostrano opere, immobili e rocciose, come «Giocatore di ping-pong» del 1931, prestatoci dalla Gam di Roma Capitale. Il silenzio ha fatto parte della sua pittura da sempre, perché pittura venata di enigma metafisico.
A 10 anni vide due bambini ciechi, come raccontò da adulto, «disegnare su fogli pieni di piccoli segni neri, una sorta di alfabeto misterioso». Fu per lui uno shock. Non sembra stia parlando dei suoi segni «maturi»?
Il fatto è che la cecità esclude la dipendenza dalla natura e dalla realtà. Il disegnatore cieco non si preoccupa di tradurre il mondo. E così Capogrossi.
Del modulo segnico liberato dall’inconscio Capogrossi non divenne progressivamente anche schiavo?
Si può dire che fino al 1958 è assolutamente propulsivo. Dopo il ’58 finisce un’epoca, finisce il dopoguerra, e si disserrano le porte della stagione che porta al New Dada e alla Pop art.
In Italia la sua nuova pittura procurò scandalo e sdegno, all’estero solo successi.
Con la mostra del 1950 alla Galleria del Secolo a Roma, che, mi si passi il bisticcio, è da ritenere una delle mostre del secolo, Capogrossi si immise da subito al centro della grande corrente internazionale. Già un anno dopo è l’unico italiano chiamato da Michel Tapié  nella mostra «Véhémences Confrontées» di Parigi, dove esposero Pollock, Kline e Mathieu; nel ’53 è invitato da James Johnson Sweeney in «Young European Painters» al Guggenheim di New York, nel ’55 è tra gli espositori di «The New Decade» al MoMA. In 10 anni arriva in 200 collezioni americane, tra cui molti musei: è una febbre. Lo comprava Rockefeller, ne aveva uno in casa Leo Castelli, che pure gli dedicò una personale nel ’58. Il successo in Europa fu, come spesso è capitato, un effetto di ritorno.
Eppure Peggy Guggenheim non comprò mai Capogrossi, a differenza degli eredi dello zio, Solomon R. Guggenheim, che per il museo di New York nel 1958 acquistarono «Superficie 210» del ’57.
La compostezza di Capogrossi non poteva appassionare Peggy. Lei a quel tempo comprava Bacon e Vedova, Tancredi e gli spazialisti, perché era attratta da ciò che riusciva a coinvolgerla nel gesto e nella figura.
Chi compra oggi Capogrossi? È ambìto?
Non esistono molti Capogrossi sul mercato, soprattutto di quelli importanti. Chi li comprò lo fece per amore vero, e non li ha più lasciati andare. Fatto sta che oggi Capogrossi non è inflazionato.
Capogrossi è attuale?
Sì, lo è perché è fuori dal tempo, non è un classico ma un «luogo» dove si originano immagini. Questa mostra, infatti, non vuole chiudere Capogrossi in cliché, ma permettere nuove aperture. Il catalogo, ad esempio, edito da Marsilio, ricco di documenti, vuole essere un nuovo punto di partenza. Ci sono i contributi, oltre ai miei, di dieci studiosi, tra cui Francesca Romana Morelli (autrice, assieme a Guglielmo Capogrossi, del primo volume del Catalogo ragionato dell’opera dell’artista romano, con lavori fino al 1949, di prossima uscita, Ndr), Valerio Rivosecchi, Francesca Pola e Giorgina Bertolino.
E lei, che lezioni ha tratto dai suoi studi su Capogrossi?
Che un artista può essere una miniera di significati vivi, dunque ho tratto stupore. E poi ho ricavato un grande nutrimento per gli occhi.

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da Il Giornale dell'Arte numero 323, settembre 20129