Los Angeles della morte
Roma. L’artista colombiana Doris Salcedo (1958) è un’«umanista» del XXI secolo nel senso panofskiano di chi è convinto che la dignità dell’uomo sia fondata a un tempo sulla rivendicazione dei valori umani e sull’accettazione dei suoi limiti. Le sue opere stratificano significati multipli e concetti universali ineludibili: è così anche per «Plegaria muda», un lavoro composto da 120 elementi (nella versione più estesa sono 166) formati ognuno da una coppia di tavoli di legno sovrapposti a specchio e separati da uno spesso strato di terra da cui crescono fili d’erba. È un’installazione di grande impatto visivo commissionata dalla Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona e dal Museo d’Arte Moderna di Malmö e prodotta in partneship con MaXXI, dov’è esposta dal 15 marzo al 24 giugno, Muac di Città del Messico e Pinacoteca di Stato di San Paolo del Brasile. Le opere della Salcedo portano spesso in scena oggetti fortemente caratterizzati dall’uso quotidiano come mobili e vestiti, muti e inquietanti testimoni della storia di proprietari assenti, di vittime. Le sue opere parlano di violenza criminale o politica, di dolore, distruzione di vite altrui, ricerche legate alla memoria e alla comprensione di quanto accade nel mondo, all’elaborazione di un lutto che, tramite il processo estetico, trasforma il fatto singolo in esperienza collettiva. «Plegaria muda» (traducibile come «preghiera muta») nasce nel 2004 da un viaggio dell’autrice nei ghetti di Los Angeles e da un rapporto ufficiale sugli oltre diecimila giovani morti di morte violenta in 20 anni in quella città. «Ho focalizzato l’attenzione sull’aggressività delle gang giovanili, in particolare sul rapporto confuso che viene a crearsi tra vittima e omicida, dichiara la Salcedo. Vivendo in aree povere e situazioni precarie si comincia a comprendere la correlazione esistente tra questa condizione e la conseguente morte violenta, anonima e invisibile».
L’opera è anche una risposta al massacro di 1.500 giovani spacciati tra il 2003 e il 2009 per guerriglieri dall’esercito colombiano per avere le ricompense governative in denaro. «Conoscere, confrontare il nostro passato, spiega l’artista, è l’unica strada per vivere correttamente il presente e affrontare il futuro. Le morti anonime, senza sepoltura, le fosse comuni, uniscono la Colombia di oggi alla Bosnia di ieri e alla Spagna della guerra civile: Per questo è importante porre l’accento su ogni singola tomba, per articolare una strategia estetica che ci consenta di riconoscere il valore di ogni vita perduta e l’irriducibile unicità di ogni sepoltura». Sepolcri che la Salcedo ricrea nei suoi elementi base: la terra, i tavoli di legno come bare, l’erba come simbolo di vita e di resurrezione. L’opera, negli spazi della Galleria 2, coinvolge il visitatore con i suoi odori, il labirinto dei tavoli, l’umidità e la fragilità dell’erba in crescita. Il catalogo è pubblicato da Electa.
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