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Linciaggi e razzismo: così è l’America first

  • Pubblicato il: 18/05/2018 - 08:04
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
James H. Miller, da Il Giornale dell'Arte numero 386, maggio 2018
In Alabama museo e memorial dedicati alle vittime del terrore razziale

Montgomery (Stati Uniti). Il primo museo pubblico e memorial dedicato alle vittime del terrore razziale negli Stati Uniti, e in particolare ai 4.400 afroamericani linciati tra il 1877 e il 1950, è stato appena inaugurato a Montgomery, Alabama con un obiettivo di riconciliazione durante un periodo di pesanti disordini.

«C’è ancora così tanto da fare in questo Paese per poterci affrancare dalla nostra storia di disuguaglianza razziale, dice Bryan Stevenson, direttore e fondatore dell’Equal Justice Initiative (EJI), che è stata capofila del progetto. Possiamo ottenere di più in America se ci impegniamo a raccontare la verità sul nostro passato».

Dopo due anni di progettazione e costruzione e dopo aver raccolto circa 20 milioni di dollari da Google, dalla Ford Foundation e da filantropi come i fratelli Pat e Jon Stryker, attivisti miliardari, il Legacy Museum e il National Memorial for Peace and Justice sono stati inaugurati con un summit di due giorni su «pace e giustizia» iniziato il 26 aprile. Tra gli oratori e performer presenti, gli attivisti Marian Wright Edelman e Gloria Steinem, Al Gore e gli artisti hip-hop The Roots e Common.

Una volta entrati nel vasto memorial da oltre 24mila metri quadrati, progettato in collaborazione con il MASS Design Group di Boston, i visitatori vengono guidati attraverso 800 colonne in acciaio appese che rappresentano le contee degli Stati Uniti dove ebbero luogo linciaggi documentati. Su ognuna sono incisi i nomi di quanti vennero assassinati. Il percorso attraverso le colonne a un certo punto procede in discesa in modo che le lastre restino sospese, come corpi, sopra le teste dei visitatori. A fianco della struttura principale copie di ogni colonna giacciono al suolo, in attesa di essere richieste ed erette come monumenti nelle relative contee.

«La storia dei linciaggi deve essere rievocata con forza e in un luogo in cui la gente ci si possa confrontare, la possa integrare nella propria visione storica», argomenta Kirk Savage, professore di architettura e storia dell’arte presso la University of Pittsburgh, che da oltre 30 anni studia i monumenti storici statunitensi. «Come atti di terrorismo, e i linciaggi erano, hanno ramificazioni che sono molto più ampie degli orribili eventi in sé».

Si può meglio comprendere il valore della struttura in relazione alle quasi 60 statue di Montgomery erette in onore della Confederazione favorevole alla schiavitù. Sul terreno dell’Alabama State Capitol, per esempio, si erge un monumento marmoreo alto 27 metri dedicato ai soldati confederati. A pochi passi di distanza, la Prima Casa Bianca della Confederazione cerca di collegarsi alla storia di «quando un Governo era formato da poche risorse eccetto il cotone e il coraggio»,come si apprende dal suo sito web.

L’anno scorso, i legislatori dello Stato hanno approvato una legge per contrastare ciò che gli sponsor definivano «correttezza politica», proibendo la rimozione di qualsiasi monumento che dati più di 40 anni. Allo stesso tempo, la città è quella in cui Rosa Parks boicottò la segregazione sui trasporti pubblici e Martin Luther King jr guidò marce da Selma, in Alabama, per rivendicare pari diritti di voto per gli afroamericani.

«Montgomery ha il duplice riconoscimento di essere stata la culla tanto dei moderni movimenti per i diritti civili quanto della Confederazione, osserva Georgette Norman, ex direttrice del Rosa Parks Museum della città e membro dell’Alabama African American Civil Rights Heritage Sites Consortium. Era il posto più improbabile per dare inizio a una rivoluzione eppure successe. E ora Montgomery è di nuovo in prima linea».

Parallelamente al memoriale, si estende su oltre mille metri quadrati il Legacy Museum: From Enslavement to Mass Incarceration, costruito in un ex magazzino un tempo utilizzato per imprigionare gli schiavi. Il lungo arco temporale della violenza razziale e della discriminazione negli Stati Uniti arriva fino a oggi, quando mediamente un uomo di colore su tre trascorre periodi in carcere. Secondo l’EJI, «questa storia continua a modellare il presente ed è una delle ragioni per le quali oggi abbiamo incarcerazioni di massa, dice Savage. Dobbiamo pensare davvero a questa vicenda per risolvere il problema del razzismo in questo Paese».

Il Legacy Museum presenterà anche opere di artisti come Hank Willis Thomas, Glenn Ligon, Jacob Lawrence, Elizabeth Catlett, Titus Kaphar e Sanford Biggers. Quest’ultimo produrrà le più ampie installazioni nella sua serie «Bam», per la quale colleziona sculture africane trovate nei mercatini delle pulci, le immerge in una densa cera marrone, spara loro con armi da fuoco e registra il processo con telecamere ad alta velocità. Raccoglie quindi i resti, che evocano sculture classiche con arti mancanti, e li fonde in bronzo. «Esse parlano anche della violenza perpetrate dalla polizia contro i neri che si ritrova in tutti gli aspetti del Legacy Museum, mostrando nella sua interezza la patologica esperienza degli africani in America, dalla tratta in Africa alle incarcerazioni di massa di oggi, spiega Biggers. Non farò pressioni su nessuna istituzione per cambiare questa storia», aggiunge, ma descrive le idee alla base del museo e del memorial come «qualcosa di nuovo e di molto importante».

Un’altra sezione del museo è una collezione di barattoli contenenti terra proveniente dai siti dei linciaggi. La Norman ha contribuito a raccogliere del terriccio da sotto un albero fuori Selma. «Ne abbiamo tolto tanto da arrivare, per così dire, alle radici della storia di molti, fino a dissotterrare l’eredità vivente di qualcuno. È stato incredibile e molto toccante, racconta. Era una giornata particolarmente uggiosa. Avevamo appena riempito l’ultimo barattolo con il terriccio. Appena prima di chiudere, improvvisamente, le nuvole hanno cominciato a diradarsi. Abbiamo pianto».
 

di James H. Miller, da Il Giornale dell'Arte numero 386, maggio 2018