Le luci visionarie di Gino Sarfatti
Milano. Un uomo con una lampada in mano. Non si vede il viso ma solo le gambe, avvolte da un Principe di Galles di ottimo taglio, un paio di scarpe classiche che accennano un passo in avanti, la mano che impugna delicatamente l’asola maniglia della lampada. È un’immagine straordinariamente armoniosa, con allineamenti casuali come la linea della lampada parallela a quella del pantalone o la punta della scarpa coincidente con quella della lampada. Per Marco Romanelli, curatore con Sandra Severi Sarfatti della mostra «Gino Sarfatti. Il design della luce», si tratta di un’immagine che cristallizza appieno l’essenza di Sarfatti: per l’eleganza sobria della persona, la cura dei dettagli e, soprattutto, per quel gesto insolito di trasportare una lampada, la «607», pensata per essere mobile, in un periodo in cui la mobilità non era né un valore né un segno dei tempi, soprattutto per un oggetto stanziale come una lampada. «Illuminare - affermava Sarfatti – significa dar luce ovunque noi siamo».
Dopo un lavoro critico e archivistico pluriennale, promosso negli anni novanta da Riccardo Sarfatti, che del padre aveva raccolto il talento e il testimone, i curatori sono riusciti a «mettere in luce» l’opera omnia di Gino e a restituire a questo personaggio la statura di maestro che gli spetta nella storia del design italiano. Sarfatti appartiene infatti, secondo Romanelli, alle «intelligenze dimenticate» del design, ovvero a quel gruppo di progettisti (come Gianfranco Frattini, Sergio Asti, Ico Parisi, Gastone Rinaldi, Eugenio Gerli, Luciano Canella, Osvaldo Borsani, Roberto Menghi) che sono stati artefici del successo del design italiano, ma che, per ragioni diverse, erano «altrove» quando è arrivata l’onda di celebrità che gli anni ottanta ha regalato ai padri del design.
Ma questa non è l’unica anomalia nella storia di Sarfatti, il quasi ingegnere aeronavale che nel 1939 aveva fondato la Arteluce con Maurizio Tempestini.
Di quest’ultima Sarfatti era contemporaneamente imprenditore e designer, in una felice coesistenza di ruoli che tuttavia non appartiene ai confini della cultura del progetto italiano, giustamente messa in evidenza da Piero Gandini, anima della Flos, l’azienda che nel 1973 acquistò Arteluce.
Come conferma anche Silvana Annicchiarico, direttrice del Triennale Design Museum: «Sarfatti progetta producendo e produce progettando, non ha canoni da rispettare né tradizioni da difendere.
È piuttosto un esploratore di nuovi territori».
I 230 pezzi esposti rappresentano un ampio corpus dei circa 660 progettati da Sarfatti per Arteluce e, grazie a una selezione accurata, ci permettono di decifrare e comprendere i nuovi territori conquistati da Sarfatti.
Che sono quelli dei materiali, del colore, della tipologia, di un’innovazione che mette in discussione finanche lo statuto epistemologico degli apparecchi illuminanti. Senza urla o effetti speciali ma, al contrario, con il consueto garbo del design milanese. La lampada da terra «1063» del 1954, per esempio, «nasce attorno alla lampadina », essendo composta da un tubo in alluminio con la sorgente slimline a vista e da un reattore posto «eccentricamente » (in senso geometrico e formale) alla base. È la prima volta che viene conferito valore estetico a un tubo fluorescente lasciato a vista e ciò fa di questa lampada un capostipite nella produzione di Sarfatti che condurrà all’invenzione
di numerosi altri apparecchi.
O anche il caratteristico modello «600», una lampada da tavolo a luce diretta progettata nel 1966, caratterizzato da un sacchettino in sky (nei primi prototipi in pelle) riempito di pallini di piombo e utilizzato come appoggio in modo da rendere possibile l’orientamento della lampada in tutte le direzioni e la modifica dell’inclinazione.
Come ricordano i curatori, che lo spunto progettuale sia stato dato da un sacchetto di pallini da caccia o da un posacenere per il bracciolo di una poltrona, tipico dell’epoca e che Sarfatti ricordava di aver visto a casa della nonna, il modello «600» implicava una notevole (e assolutamente inedita) capacità funzionale, confermata anche dal lungo periodo di permanenza in produzione. Altra storia riguarda invece la «604», una lampada da tavolo a luce diretta progettata nel 1969 e caratterizzata dalla grande calotta in metacrilato e dalle 20 lampadine mignon da 3W che creano un effetto luminoso puntiforme stellato. Essa fu soprannominata, già ai tempi, «Moon» e appartiene a quel mondo di riferimenti, cari a Sarfatti, afferenti al cosmico e al gravitazionale. Da non trascurare la coincidenza cronologica con la discesa dell’uomo sulla luna. Insomma Sarfatti, pur ancorandosi a una genesi progettuale di tipo tecnico-funzionale, era in realtà un visionario e questa mostra finalmente lo dimostra.
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«Gino Sarfatti. Il design della luce», Triennale
Design Museum, Milano, fino all’11 novembre