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Le fondazioni non sono tutte uguali

  • Pubblicato il: 20/09/2013 - 20:08
Autore/i: 
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Giuliano Segre

Un nuovo attore fra i protagonisti della crisi: le fondazioni di origine bancaria. Non tutte ma alcune, oggi in difficoltà per la loro robusta partecipazione nella società bancaria originaria. Queste fondazioni «grandi azioniste» non sono poche, da quelle tredici di modesta grandezza autorizzate al formale controllo della banca pure di esigua dimensione, a quelle che mantengono una partecipazione non maggioritaria ma di fatto di controllo, come a Siena, e che sono tuttora più di una, sia infine quelle che in forma variamente associata esprimono maggioranze di governo in banche maggiori. La lettura degli attivi patrimoniali illustra queste evidenze: è una lettura non difficile poiché i bilanci sono (meritoriamente) resi pubblici; ma è anche una lettura ansiogena a causa delle banche partecipate. Il rapporto «fondazione-banca» ha portato recentemente il Governatore della Banca d’Italia ad assegnare serie responsabilità alle fondazioni per il cattivo andamento delle banche: «alcune fondazioni tendono a interpretare in maniera molto ampia le prerogative di azionisti; ... ciò ha determinato eccessi; ... episodi di questa natura influiscono negativamente». Osservato che alcune non vuol dire tutte e che episodi non vuol dire sempre, resta però il disagio per una lettura così radicale, dedicata al tutto seppure espressa per una parte. E allora è utile tornare sull’argomento proponendo ampie categorie di ragionamento. La crisi della banche italiane non dipende dai loro proprietari: la catastrofe dell’eccesso di contratti rispetto alla pochezza dei valori sottostanti è un mostro prodotto dalla finanza; il disastro dei debitori però impatta in Italia su modelli influenzati dalla scarsezza di capitali del paese, da sempre in ritardo storico alla Gerschenkron. Il capitale di debito ha rimediato alla carenza di capitale di rischio e ora il tessuto finanziario lacerato dalla crisi va ricostruito e con esso l’attrezzatura patrimoniale della banche, ma - e qui è evidente la preoccupazione del Governatore - il mercato dei capitali italiano non mostra soluzioni consistenti. Le fondazioni interessate sono già intervenute; oggi per natura giuridica non possono trovare per sé altri capitali, né quindi riescono ulteriormente a offrirne. D’altra parte non possono - ancora per legge - aggregare in un patto altri investitori, magari confortati dalla patrimonializzazione del socio fondazione.
Una possibile soluzione dovrebbe percorrere strade già intravviste dieci anni fa, quando sei ottavi delle fondazioni esistenti entrarono insieme nel capitale della Cassa Depositi e Prestiti, senza pretese di leadership, ma anzi alla ricerca di una operatività diversa dalle ottocentesche erogazioni benevolenti. Un analogo progetto di ricapitalizzazione delle banche - in assenza o in integrazione del mercato - è fattibile in molti modi: dall’utilizzo tutto esterno di un normale strumento di investimento in equity aperto alle fondazioni per la sottoscrizione e/o il conferimento di titoli del settore a quello tutto interno della fusione fra più fondazioni: in entrambi i casi razionalizzando l’attivo risultante.
Oppure (o inoltre) modellando titoli di capitale non votante o di debito subordinato costruiti sulla disponibilità di lungo periodo del sottoscrittore fondazione che finalmente stabilizzerà i propri proventi finanziari futuri. Già il vigente d.lgs. 153/99 prevedeva all’art. 28, c.3, la conversione delle azioni ordinarie della banca conferitaria in azioni privilegiate (ipotesi a) o in obbligazioni convertibili (ipotesi b). Naturalmente con un percorso fortemente condiviso (come accadde 20 anni fa) con le autorità finanziarie del paese.
Le fondazioni sono un soggetto giuridico, normalmente di qualità, che ha storia antica (la «universitas bonorum») e che nel nostro paese si è rapidamente consolidato, tanto da far emergere nell’ancora inedito censimento Istat del non profit l’esplosione delle fondazioni che hanno raggiunto in Italia il numero di 6.220, con un incremento del 102% negli ultimi dieci anni. Né sono incongruenti con le attività economiche: in alcune realtà esercitano ruoli di capogruppo di complessi economici rilevanti, senza abbandonare la missione che assorbe il loro risultato economico. Dunque anche le fondazioni possono partecipare del necessario «fare» per l’Italia, censurando così autonomamente i propri eccessi (anche in «Frankenstein Junior» il mostro diventa buono).

Questo articolo è stato pubblicato su MF lo scorso 22 agosto 2013, con il titolo «Se alcune fondazioni hanno dato problemi alle loro banche, non si faccia d’ogni erba un fascio»