Le Fondazioni nella Legge di Stabilità
Improvvisamente le fondazioni di origine bancaria ricompaiono nella cronaca economica. Senza troppo entusiasmo, per la verità: domenica scorsa sei fondazioni si sono fortemente indebolite (o meglio hanno definitivamente registrato il loro indebolimento) per aver dovuto azzerare le loro quote di partecipazione nelle quattro banche riportate a “nuova vita” dal Fondo di Risoluzione, abbandonando però lungo la strada i loro storici azionisti. L’opinione pubblica ha subito aggiunto a questa nuova débacle fondazionale molte precedenti difficoltà risolte, ma a duro prezzo: a Genova, Siena, Teramo le fondazioni hanno misurato una analoga caduta degli attivi bancari; altrove vive una sopravvivenza di valore negli attivi, annullata però da una parallela posizione debitoria; alcuni bilanci fondazionali portano tuttora importanti minusvalenze nelle appostazioni contabili delle banche conferitarie. Insomma il sistema è ancora solido, ma alcune crepe sono evidenti e una rincorsa verso una maggiore stabilità le Fondazioni debbono assumerla. In fondo quest’anno si compiono venticinque anni dalla promulgazione della legge Amato che, nell’avviare il necessario percorso di privatizzazione delle banche pubbliche italiane, produsse in maniera quasi accidentale la nascita delle fondazioni.
Oggi il momento è propizio per una rilettura stabilizzatrice delle funzioni fondazionali. La geniale produzione di un protocollo di intesa con il MEF ha definitivamente abbattuto il rischio di conflittualità con il soggetto vigilante: il passo successivo consiste nell’insediamento concreto delle fondazioni fra i protagonisti attivi della sussidiarietà, sostituendo alla stanca funzione di elemosiniere benevolente la più concreta iniziativa di collaboratore proattivo delle linee di intervento pubblico. Il Senato ha appena approvato (e ora ha inviato alla Camera) la Legge di stabilità 2016 (quella che una volta chiamavamo Legge Finanziaria): i commi 213-6 tratteggiano il ruolo delle fondazioni, in collaborazione questa volta con la Presidenza del Consiglio, nel finanziare un “Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile”. Tre quarti di quanto erogato al Fondo verrà restituito – come credito di imposta per gli anni successivi – a titolo di contributo finanziario dello Stato ai progetti direttamente operativi delle fondazioni in quell’ambito sociale.
A prescindere dall’obiettivo, peraltro di alta prospettiva, il progetto ha un carattere fondamentale per le fondazioni: invita a desistere dalla soggettiva, dispersiva e ormai ripetitiva accettazione obbligatoria delle richieste del territorio per concentrare la propria azione in un collettivo e ben preciso meccanismo di utilità sociale, capace di produrre nel tempo un unico effetto mirato, operativo nel paese intero senza le ormai tradizionali distorsioni regionali.
Le fondazioni di origine bancaria hanno un futuro se producono direttamente per il bene comune, non se delegano ad altri che, pur meritori, depositano nel tessuto sociale solo micro interventi, talvolta dall’esito incerto. In alcuni casi esse già operano in collaborazioni più o meno vaste: il progetto della legge di stabilità le fa socie dello Stato, per smantellare il buco nero che unifica ignoranza e delinquenza. Ma il disegno politico è ben maggiore: pagare le imposte senza remore per farsi soggetti attivi nella spesa del gettito.
Questo articolo è stato pubblicato da MF il 26 novembre 2015, con il titolo “E adesso progetti sociali al di là del territorio e a sostegno del bene comune”