Le Fondazioni di origine bancaria tra nodi irrisolti e opportunità
Quali sono le criticità e i nodi irrisolti del sistema fondazioni di origine bancaria in Italia?
Le fondazioni bancarie nacquero in un momento di grande ottimismo. Il boom finanziario dell’epoca Clinton autorizzò a credere in una potenzialità del mercato finanziario ampia e quasi illimitata nel tempo, capace di fornire impieghi patrimoniali sicuri e lucrosi. Oggi dobbiamo dire fu un abbaglio.
I limiti di quella prospettiva ottimistica si sono rivelati a metà del primo decennio del secolo che viviamo. Il tempo perso inizialmente nel trovare consistenti impieghi alternativi alle partecipazioni bancarie non fu più recuperato. D'altra parte si crearono presto le condizioni di molteplici «crisi» bancarie. Gran parte delle fondazioni bancarie rimasero azioniste delle società cosiddette conferitarie, ciò delle banche pubbliche trasformate in società per azioni malgrado le indicazioni normative contrarie a tale presenza, ha creato nel tempo una situazione piena di rischi fra i patrimoni delle fondazioni. La necessità di rafforzare il capitale della banca è stato spesso un carico molto pesante per le fondazioni. Questa, dunque, è la prima grande criticità.
Approfondiamo allora la questione del rapporto fondazioni-banche.
Lo stretto legame fra fondazioni e banche ha molte ragioni. Occorre ricordare l'originaria forte repulsione verso il distacco fra banche e enti proprietari delle medesime. All'inizio questa rottura fu percepita come un modo per espropriare le comunità locali delle proprie casse di risparmio. In realtà nel contesto della legge del 1990, cd. Amato, mancava una visione che superasse l'esigenza della trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni. Da qui la spinta al recupero degli «enti conferitari» da parte delle borghesie locali. Un atteggiamento -questo - ambivalente: da una parte sembrò favorevole spinta ad una gestione che non fosse rimessa nelle mani della «politica» e dunque dagli enti locali, dall'altra portò però a mantenere fondazioni e territori legati, con cedimenti forti e frequenti al localismo.
Lo scandalo MPS ha portato sulle pagine dei quotidiani internazionali il rapporto bizantino tra banche e Fob.
È un problema ampio e va oltre la Fondazione Monte dei Paschi, vicende simili hanno riguardato la Fondazione Carige e la Fondazione Cassa Di Risparmio di Macerata tanto per fare degli esempi. Porrei inoltre un’altra questione, non meno «scabrosa»: il rapporto delle fondazioni con il Tesoro. Questo è azionista di maggioranza di una SpA, la Cassa Depositi e prestiti, che per un altro 30% circa è posseduta da fondazioni bancarie. Nel contempo il Tesoro è l’autorità di vigilanza delle fondazioni. È una contraddizione che sembra pacificamente accettata, mentre dovrebbe essere oggetto di una riflessione molto seria.
Fabrizio Barca ha di recente ripreso un termine coniato negli anni ’60 da Raffaele Mattioli per descrivere l’intreccio inestricabile tra banche e industrie inaugurato negli anni ’30. Barca lo utilizza per denunciare l’anomalia dei rapporti fra stato e partito ma l’espressione si addice perfettamente al rapporto che connota banche/fondazioni e Tesoro: il catoblepa, una figura mitologica di animale dalla testa pesante e sempre rivolta verso il basso.
Se a questi aspetti di crisi, che sono «endogeni» al sistema, aggiungiamo la crisi finanziaria iniziata nel 2008, comprendiamo meglio come al modello originario di fondazione, disegnato dalla proposta di Legge delega del ’97, se ne sia poi contrapposto uno molto diverso.
A proposito della grande crisi scoppiata nel 2008, che influenza ha avuto sulle fondazioni di origine bancaria?
A mio parere uno è stato l'effetto principale: quella che inizialmente era stata una preferenza che definirei dall'anima profonda locale delle fondazioni, diviene un'opzione che potremmo definire «coatta»: salvaguardare le banche e soprattutto i grandi gruppi a cui queste si sono aggregate. Se lo Stato, in Italia, a differenza di altri paesi a cominciare dal Regno Unito, non è stato chiamato a grandi interventi di sostegno, ciò si deve in gran parte alle fondazioni azioniste.
Quale travisamento c'è stato delle intenzioni iniziali?
Il disegno originario prefigurava un fenomeno differente: l'iniziale proposta legislativa Ciampiprevedeva di governare la fuoriuscita delle fondazioni bancarie dal controllo delle banche, oltre alla presenza di un’autorità indipendente di vigilanza (solo temporaneamente individuata con il Tesoro). «Traghettava» le fondazioni verso un rinnovato regime generale riguardante tutte le persone giuridiche private di carattere non lucrativo.
Mancò la volontà politica di portare a compimento quel progetto e quello che doveva essere solo un percorso di transizione, fu prolungato da una stagione di sovrapposizioni normative di carattere «speciale».
La classe dirigente delle fondazioni non è stata in compenso all’altezza dei compiti e l’Acri non ha fatto mai veramente sua la battaglia per modificare la disciplina codicistica degli enti senza fini di lucro. È stato un errore. È mia convinzione che senza la modifica del Libro I del Codice civile, che significa ribadire la natura privata delle fondazioni e garantirne un controllo sostanziale serio (molto ci sarebbe da lavorare sul punto), le fondazioni non potranno uscire dalla marginalità che oggi le connota anche quando sono «grandi», per giocare un ruolo più importante nella società italiana.
Un tema, quello dell’autonomia delle fondazioni dalla politica , che si fa più urgente anche alla luce della relativa staticità delle procedure di designazione delle «poltrone».
La «Carta delle Fondazioni», approvata nel 2012 dall'Assemblea dell'ACRI, nel prevedere una incompatibilità delle cariche nelle fondazioni con qualsiasi incarico o candidatura politica, è stato certamente un atto di buona volontà se ne dovrebbe valutare l'applicazione. La questione è ancora aperta: il problema si collega, per le fondazioni bancarie, alla particolare posizione che gli enti locali vengono ad avere anche soltanto di fatto, nella configurazione degli organi delle fondazioni. Nei consigli molto dipende dagli statuti:occorrono regole di rinnovo che garantiscano insieme indipendenza e continuità.
Un modello convincente è quello che vede decadere i membri degli organi collegiali non nello stesso momento ma con scadenze differenziate. Il rinnovo complessivo degli organi nello stesso momento è stata una soluzione suggerita dal modello delle società lucrative (dove la funzione della «continuità» è assicurata dall'Assemblea dei soci). Nel caso delle fondazioni bancarie, il rinnovo all'unisono rischia di trasformare la fondazione in mera appendice degli enti locali territoriali e il fenomeno di designazione dei membri di spettanza dei medesimi enti, in un seguito di relativi risultati elettorali.
Negli ultimi anni si è parlato molto ed in effetti è risultata evidente la «crisi dello Stato» Le istituzioni statali sembrano in crisi sia nel loro ruolo che nella loro capacità di risposta alle richieste sociali. In questo vuoto, quali opportunità si aprono alle fondazioni?
Non è questione di «opportunità per le fondazioni». Voglio dire che in una situazione assestata, da definire in qualche modo «normale», le fondazioni sarebbero chiamate ad essere i soggetti più rappresentativi e significativi che opera fra «Stato» e «mercato». È un discorso rimasto poco sviluppato e facile preda della retorica. A me è capitato di approfondire – in tempi lontani – da Adriano Olivetti la nozione di fondazione intesa come soggetto dell'economia sociale che è fuori dal mercato, dallo Stato e dalle loro logiche. Parlare di fondazioni è sempre parso fondamentale come potrebbe essere per la nozione di «common» elaborata e ripensata da Elionor Ostrom nel libro «Governing the Commons» che le è valso il premio Nobel nel 2009.
I commons sono un altro grande tassello del rapporto società economia, molto male inteso - a dire il vero – dal pensiero di una sinistra nostrana un po' vaga che la butta o in retorica traducendo «common» semplicemente in «bene pubblico».
Nel quadro di una situazione non distorta dalle ragioni della crisi, le fondazioni dovrebbero avere funzioni importanti e fondamentali: innanzitutto, fare quello che non fanno gli altri. Dunque, non l'impossibile supplenza dello Stato nel welfare ma la ricerca per la riorganizzazione del welfare in alcuni aspetti strategici, portando avanti ricerca teorica e verifica empirica su casi esemplari affrontati con spirito di squadra fra le varie fondazioni. Si pensi al rapporto fondamentale tra sanità e territorio. Può essere chiaro, insomma dovrebbe essere il fatto stesso che ci sono le fondazioni a dettare le opportunità. Non è la richiesta di soccorso, come è stato intesto, che crea opportunità. Questo modo di fare porterà ad aggiungere fallimenti a fallimenti.
Fare quel che gli altri non fanno, può anche significare aggregare risorse in una logica di impulso dell'anima filantropica dei territori. Ecco come dovrebbero essere intese le fondazioni che riprendano, esse stesse a fondo, lo spirito delle «fondazioni di comunità».
© Riproduzione riservata
Sergio Ristuccia. Avvocato; ha compiuto un lungo percorso professionale attraverso le istituzioni pubbliche ricoprendo all'interno di queste posizioni di responsabilità. Dal 1991 al 2012 ha presieduto il Consiglio Italiano per le Scienze Sociali. Nel 1996 ha fatto parte del Comitato di esperti chiamato a elaborare la proposta di legge delega che ha portato al conferimento della natura di fondazioni private agli enti proprietari delle azioni delle banche. È autore di un'ampia letteratura sull'argomento.