Le fondazioni bancarie debbono smettere di essere un Giano bifronte modello Amato
Venti anni dopo, chi sono le fondazioni di origine bancaria? Un donatore benevolente capace di convogliare verso la società italiana, soprattutto nei settori dell'Arte e dell'Educazione e al netto dei costi, un miliardo all'anno prodotto da un patrimonio che oggi (2011) vale contabilmente 43 miliardi di euro. Un gestore di un patrimonio nel quale, se si trovano tracce del controllo azionario di banche - originariamente obbligatorio ma da tempo espressamente negato - si tratta di un residuo del passato, anche se cospicuo a Siena, parecchio significativo in altri casi e tuttora maggioritario in quattordici situazioni consentite dalla legge: nondimeno questo cespite antico fornisce oggi alle fondazioni il 55% dei proventi. Questa dunque la loro articolata fisionomia: un operatore collettivo con meriti indiscussi nell'aggregato, ma con qualche disguido locale; dopo Siena altre (poche, o meglio modeste) malesorti già traspaiono dai bilanci e facilmente si cumuleranno, se i loro Consigli non cambiano le strategie e le politiche di bilancio. Le intensive immobilizzazioni negli attivi e l'aumentato indebitamento a breve nel passivo, con le conseguenti rigidità dei bilanci, necessitano di un controllo, meglio se autocontrollo.
Ma è soprattutto il modello di azione delle fondazioni da modernizzare: il moderno Giano bifronte ritrovato dal loro avveduto creatore Giuliano Amato come esito inatteso della riforma originaria, deve riunificare se stesso, cessando il mecenatismo di altri tempi e costruendo con le sue risorse una unica faccia da presentare alla società italiana e, perché no, europea. Oggi vige un modello di azione, creduto appunto tassativamente bicefalo, bipartito fra una azienda finanziaria attiva nel mercato per il reddito e una azienda di erogazione per la distribuzione in assenza di mercato. Due rami di azienda ristretti nello stesso soggetto giuridico, slegati e anzi ignoranti l'uno l'altro, tanto da statuire per legge una separatezza delle competenze, che ne abbatte sovente il livello, a vantaggio di una consulenza non sempre appropriata. Viceversa l'impiego diretto del patrimonio nei settori autorizzati (i c.d. «mission related investment») e la specializzazione in quei progetti, può radicalmente modificare la filosofia operativa delle fondazioni e trasformare il principe (o il satrapo) che alcuni vedono in esse in un agente civile di pregio: da donatore a operatore. E cesseranno le incomprensioni di fronte a investimenti di capitale in edilizia assistenziale e sociale, musei, ospedali, scuole, editoria e multimedialità, spettacoli, mostre, aziende di servizi locali e così via, senza un «prima» finanziario e un «dopo» erogativo, gestiti con piena imprenditorialità, capaci anche di associare altri capitali, purché nell'ambito e nel rigido rispetto di un budget a pareggio, inclusi gli ammortamenti. Non-profit non vuol dire solo dono, vuol dire anche equilibrio di bilancio senza attribuzione di utili a terzi.
Giuliano Segre è presidente della Fondazione di Venezia
Da Milano & Finanza del 21 febbraio 2013, Numero 37, pag. 20
La versione integrale è disponibile su www.milanofinanza.it