L'arte sfida il pubblico a un impegno sociale
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Rubrica:
CULTURA E WELFARE
Articolo a cura di:
Neve Mazzoleni
Aperta fino al 20 agosto la mostra a cura di Massimiliano Gioni che dal tema delle migrazioni e della crisi dei profughi, rivendica il diritto dell’immagine in arte, ovvero il diritto della narrazione empatica, letteraria, multi-sfaccettata e umana degli eventi della realtà, rispetto al cannibalismo mediatico che impone la dittatura dell’unica analisi della realtà. Un progetto a quattro mani fra due istituzioni fra le più attive nell’offerta culturale milanese: Fondazione Trussardi e Fondazione la Triennale. Con Fondazione Cariplo.
Milano.Il confine fra la cronaca, il reportage e il cannibalismo mediatico è davvero sottile. L’immagine è abusata, replicata, decontestualizzata, falsificata e speculata, anche grazie alla velocità di diffusione della rete. Nel film “Lo sciacallo” del 2014 di Dan Gilroy, un giovane intraprende un’avida scalata ai network televisivi, dopo il suo casuale incontro con un reporter che lavora sulla scena di un incidente realizzando riprese a scopo di vendita dell’esclusiva: quel modello gli suscita uno spregiudicato slancio di autoaffermazione, portandolo a spingersi oltre il rispetto della vita umana.
Il caso del reporter Kevin Carter, che nel 1993 scattò una foto che ritraeva un bambino africano malnutrito guardato da lontano da un avvoltoio, portò a livello internazionale la discussione sul senso dell’abuso delle immagini a scopo giornalistico. Allora il reporter, che tutti giudicarono in modo indiscriminato, fu lasciato solo dal sistema, allontanato dalla professione fino ad arrivare a un esito drammatico con il suo suicidio.
In questi ultimi anni siamo stati abituati a vedere immagini terribili di persone in mezzo al mare, affidate a imbarcazioni di ripiego, che attraversano carichi di speranze il Mediterraneo, in cerca di pace e un futuro migliore di quello che hanno lasciato. Purtroppo molto spesso abbinate a scene di morte, con corpi galleggianti al pelo dell’acqua. Oppure di esodi biblici ai confini terrestri, con lunghe code e accampamenti di ripiego di famiglie intere.
La Terra inquieta è il titolo quasi profetico della mostra in corso fino al 20 agosto a Milano, curata da Massimiliano Gioni e promossa a quattro mani dalla Fondazione Triennale e dalla Fondazione Trussardi, nella sede della prima istituzione, che affronta proprio il tema delle migrazioni e della crisi dei rifugiati, soffermandosi anche sul concetto di confini e dignità delle persone.
Con 65 artisti internazionali, la mostra si svolge fra la galleria di piano terra per proseguire al piano superiore. Prendendo come riferimento la raccolta di poesie del caraibico Édouard Glissant, affascinato dalla coesistenza delle culture diverse, direttamente esperita nella sua terra, l’esposizione propone una rottura con la sfiducia verso l’abuso e falsità delle immagini, che tornano invece ad essere autentiche testimonianze e interpretazioni dei traumi umani, come dichiara il curatore: “Gli artisti che si confrontano con gli eventi traumatici della nostra contemporaneità rifiutano la tradizionale relazione gerarchica tra autore e spettatore e la linearità di una narrazione unica e onnisciente”.
Il modus operandi è quindi la narrazione, molto spesso in prima persona, oppure affidata a percorsi di polifonia, di coralità, con montaggi di frammenti per contenere l’appiattimento della globalizzazione e stimolare il valore delle contaminazioni e della diversità culturale, come metafora della molteplicità dei piani di lettura della realtà. Molti lavori sono documentari, oppure cataloghi di oggetti e documenti, carteggi, fotografie.
Gli artisti riaffermano il diritto dell’immagine, capace di suscitare una maggiore comprensione della complessità della realtà, ma anche foriera di scambi, reti, costruzione di comunità. Non si tratta di una mostra sulle migrazioni, che declina i codici tradizionali del giornalismo, con accento sugli aspetti miserabili e deteriori, ma riparte dalla letteratura, autobiografismo, fiction, sceneggiatura, stressando elementi emotivi, umani, rispetto alla crudezza della cronaca.
La mostra va vista con raccoglimento e tempo, per analizzare gli oggetti ritrovati appartenenti a persone annegate nella tragedia di Lampedusa, nella raccolta di reperti del Comitato 3 ottobre, oppure soffermarsi sui messaggi subliminali del video Vertigo Sea del ghanese John Akomfrah, che crea paralleli tra il mare e le migrazioni, tra queste la caccia alle balene e tra Moby Dick e la schiavitù. Il video di Steve McQueen indaga la Statua della Libertà dalla prospettiva di un elicottero che le ruota intorno: il simbolo del paese dell’oro che all’inizio del XX secolo appariva come un miraggio per generazioni di migranti europei, qui in questa lettura è inquietante, imprendibile, tutt’altro che incoraggiante. Le fotografie scattate all’epoca a Ellis Island da Lewis Hine e Ausgusts Sherman, mostrano i migranti di allora con occhio antropologico, ritratti con compostezza e caratterizzati dagli abbigliamenti di origine. Non come oggi, dove emerge un senso di abbandono e disperazione di coloro che intraprendono un viaggio senza sapere se sopravviveranno.
Nella riaffermazione del diritto all’immagine, si evita appunto la spettacolarizzazione dell’evento e la sua iper-esposizione: i migranti allora diventano personaggi storici, ritratti con caratteristiche che richiamano sentimenti di coraggio, di forza morale, come negli scatti di Aris Messinis o Yasmine Kabir, attraverso anche l’utilizzo della scultura con funzione memoriale, che lavora fra il minimalismo lirico (come per la croce di Dan Võ, dove il nome della nonna morta viene ricordata in caratteri latini, nonostante l’origine vietnamita) e l’esempio civico come nelle statue di Andra Ursuţa.
Permangono comunque tratti di precarietà, per dare il senso della fragilità e instabilità dell’oggi, come per l’installazione di Mona Hatoum che propone un mappamondo di biglie di vetro posato a terra, o la manciata di abiti buttati a caso, come trascinati dalle onde di Kader Attia, nell’installazione La Mer Morte. Come sostiene Gioni: “Se prima erano le persone a sognare attraverso i confini, oggi, assai più tragicamente, sono i confini ad attraversare le persone. Ed è questo forse l’aspetto più duro e profondo di molte opere in mostra: queste opere rivelano una rinnovata fiducia nella capacità dell’arte e degli artisti di raccontare e quindi trasformare il mondo, rivendicando una responsabilità civile e sociale per l’arte e gli artisti. Ma questa responsabilità degli artisti deve corrispondere una nuova responsabilità degli spettatori: queste opere implicano noi spettatori in una presa di posizione che non può essere solo estetica”.
Un invito alla responsabilità civile che passa per lavori come quelli di Adel Abdessemed Hope o Pawel Althamer, Black Market, dove i richiami forti alla tratta dei barconi e al commercio di corpi è esplicito riferimento nei sacchi della spazzatura o nella statua di ebano nero.
L’invito all’impegno arriva in modo esplicito nella lettera del Sindaco di Lampedusa e Linosa, Giulia Nicolini, rivolto all’Unione Europea per prendere consapevolezza civile sull’immane tragedia dei naufragi dei barconi e dei cadaveri dei migranti in cerca di pace, in modo che il Mediterraneo torni mare di scambi e non il Mare mostrum di Runo Lagomarsino o il cupo elemento di Thierry De Cordier e si instauri la solidarietà fra i popoli. Così come ben rappresentato dall’immagine guida della mostra, tratta dall’opera Non attraversare il ponte prima di arrivare al fiume di Francis Alӱs, dove l’artista ha coinvolto in una performance un gruppo di bambini di Tangeri e Tarifa sullo stretto di Gibilterra, il punto dove le coste europea e africana sono più vicine, per simbolicamente rappresentare un ponte di umanità. Il tentativo ottimista dell’arte di ricucire gli strappi e far riaffiorare comunità, proposto senza eccessi, violenze, forzature, ma attraverso la dignità della testimonianza rispettosa e umana che appartiene agli artisti.
Il pubblico accoglie la sfida di prendersi carico di un messaggio di impegno sociale?
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