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La storia esiste solo se c’è un domani

  • Pubblicato il: 15/11/2018 - 08:05
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Hito Steyerl, da Il Giornale dell'Arte numero 391, novembre 2018
Hito Steyerl in una foto di Trevor Paglen

Hito Steyerl, artista e teorica «I musei non hanno a che fare con il passato, ma con il futuro».
Ci sono due video, uno all’inizio e uno alla fine della Manica Lunga Castello di Rivoli. «Broken Windows» e «Unbroken Windows». La prima cosa che mi colpisce è il suono, come se «Broken Windows» raccontasse la storia della non comprensione del suono delle finestre rotte da parte delle tecnologie preposte alla sicurezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Per prima cosa ho pensato che fosse un mio errore, ma poi continuava a succedere anche nell’altro video. Nello spazio si avverte una sorta di eco di campane, e non quello di finestre rotte. Tutto ciò dà un senso di incongruenza tra l’immagine della rottura della finestra e il suono».

Rubrica in collaborazione con la Fondazione Marino Marini di Firenze


Così Carolyn Christov-Bakargiev, curatrice con Marianna Vecellio di «Hito Steyerl. The City of Broken Windows/La città delle finestre rotte», descrive i lavori presentati dall’artista tedesca (1966) per la mostra clou della stagione al Castello di Rivoli - Museo d’arte contemporanea, aperta dal primo novembre al 30 giugno (catalogo Skira).

«La mostra racconta l’incapacità della macchina di raggiungere effettivamente la classificazione del suono richiesta dall’intelligenza artificiale, continua la curatrice. Ci sono riferimenti a Georges-Louis Leclerc de Buffon, un protagonista dell’Illuminismo francese attivo nella classificazione di animali e oggetti. Quindi siamo in presenza di un nuovo tentativo di Illuminismo, ma è un tentativo assurdo, perché la macchina che sta ascoltando individua il suono di campane e non vetri rotti. Questa incongruenza potrebbe essere un’allusione al fallimento del progetto teleologico dell’intelligenza artificiale. Ma forse no. Ci sono parole speciali che vengono dette in momenti diversi dei due video. Tutto è in superficie, o riguarda la superficie e la materialità. Così nel secondo video un dipinto che raffigura una  finestra sprangata è in superficie, il vetro è una superficie, la superficie è l’enjeu, la sfida, è dove tutto avviene, compresi la distruzione e i bombardamenti in Iraq. C’è una superficie che è la Nigeria o, nel secondo video, la superficie della finestra sprangata e rotta di Chicago. Tutto riguarda la superficie che viene bombardata, distrutta, provocata, portata al collasso. Ci sono comunque due superfici. Una è relativa all’atto del dipingere una finestra illusoria su una finestra sprangata e rotta, che impedisce la trasparenza dello schermo, e poi c’è la superficie del vetro trasparente che si rompe per insegnare all’intelligenza artificiale a riconoscerlo. Ci sono riferimenti a un mondo di grigiore, conflitti, violenza e spoliazione, ma è tutto implicito in questa apparente semplicità fatta di pittura, fiori e vetri che si rompono».

Il progetto, che offre un contributo su come l’immaginario contemporaneo digitale plasmi le emozioni e l’esperienza del reale, include un intervento dell’artista Chris Toepfer, che oltre a essere protagonista dell’opera  della Steyerl, esegue al Castello di Rivoli un dipinto trompe l’œil. La Steyerl è anche una raffinata teorica.

Pubblichiamo una sintesi di «Un carrarmato sul piedistallo», il saggio d’apertura del suo libro Duty Free Art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria (traduzione di Nicoletta Poo, 212 pp., € 23,00), edito da Johan & Levi, in libreria da metà novembre.

C’è un carrarmato su un piedistallo. Esce fumo dal motore. È un carrarmato sovietico da battaglia (...) e un gruppo di separatisti filorussi a Kostjantynivka, nell’Ucraina orientale, lo sta riconvertendo; lo fanno scendere dal basamento su cui stava come monumento alla Seconda guerra mondiale e lo mandano direttamente in battaglia. (...)». Si potrebbe pensare che, nel momento in cui un carrarmato diventa parte di un monumento, il suo ruolo storico attivo sia concluso. In questo caso però sembra che quel basamento sia servito solo da deposito temporaneo (...).

A quanto pare l’ingresso nel museo, e persino nella storia, non è una strada a senso unico. Il museo è un garage? Un arsenale? Il piedistallo di un monumento è una base militare? Si aprono a questo punto anche domande di carattere più generale. Come possono essere pensate le istituzioni artistiche in un’epoca definita da una guerra civile planetaria, dall’aumento delle diseguaglianze e dalla diffusione di tecnologie digitali coperte da brevetto? I ruoli delle istituzioni hanno ormai confini nebulosi, che vanno dal fomentare gli utenti per scatenare piogge di tweet alla prospettiva della «neurocuratela», cioè l’idea che i quadri sorveglieranno i visitatori attraverso il riconoscimento facciale e il tracciamento dello sguardo, al fine di verificare se un’opera riscuote sufficiente gradimento o se qualcuno si comporta in modo sospetto.

(...) Nell’esempio del carrarmato rapito, la storia invade l’ipercontemporaneo. Non è più il resoconto di eventi post factum, ma agisce, simula, continua a cambiare. La storia è un attore proteiforme, quando non un combattente irregolare. Attacca sempre alle spalle. Preclude qualunque futuro. Francamente, fatta così, la storia fa schifo. Non è più un’impresa nobile, da studiare in nome dell’umanità per evitarne il ripetersi. Al contrario, la storia in questi termini è parziale, partigiana e privatizzata, un business interessato, un pretesto per rivendicare qualcosa, un oggettivo ostacolo alla coesistenza e una nebbia temporale che castiga i popoli nella stretta mortale di origini immaginarie. La tradizione degli oppressi si trasforma in un battaglione di tradizioni oppressive. È il tempo ad andare all’indietro oggi? Forse qualcuno ha sostituito la marcia avanti con una marcia circolare? La storia sembra morphizzata in un loop (...).

[In] un film con Tom Cruise ed Emily Blunt intitolato «Edge of Tomorrow – Senza domani», la Terra è stata invasa dai mimics, una feroce specie di alieni. Nel tentativo di eliminarli, i due protagonisti restano intrappolati in una battaglia che si ripete in loop: ogni volta vengono uccisi, per ritrovarsi di nuovo vivi al rispuntare del giorno. Devono trovare un modo per uscire da questo loop. E il capo dei mimics dove vive? Sotto la piramide del Louvre! (...) Il nemico è dentro al museo (...).

I mimics si sono impadroniti di quel luogo e hanno trasformato il tempo in un’eterna ripetizione. Ma che significato ha la forma circolare del loop e come si collega alla guerra? Di recente Giorgio Agamben ha ragionato sul termine greco stasis, che significa sia guerra civile sia immutabilità: qualcosa di potenzialmente molto dinamico, ma anche il suo esatto contrario. Oggi molti conflitti sembrano impantanati in una stasis, in entrambi i significati del termine. La stasis descrive una guerra civile che non si risolve, si trascina. Il conflitto non serve per forzare la soluzione di una discordia, ma è un mezzo per perpetuarla. L’obiettivo è una crisi stagnante. Deve essere indefinita perché è una grande fonte di profitto: l’instabilità è una miniera d’oro inesauribile.

(...) L’attuale versione della stasis si svolge in un’epoca in cui si combatte una guerra non convenzionale con strumenti d’avanguardia. (...) La stasis è il tempo che si ripiega su se stesso, in un contesto di guerre e privatizzazioni permanenti. Il museo lascia filtrare il passato nel presente e la storia si corrode sensibilmente e si corrompe. «I figli degli uomini», splendido film di Alfonso Cuarón, inscena un’altra possibile reazione delle istituzioni artistiche alla guerra civile planetaria.
(...) La Turbine Hall della Tate Modern è diventata la sede del ministero delle arti, dove preziose opere trovano un porto sicuro: un’arca delle arti. (…) La distruzione del patrimonio archeologico da parte di Daesh (noto anche come Isis), preceduta da massicce devastazioni e saccheggi di oggetti di valore culturale avvenuti durante l’invasione americana in Iraq, pone una domanda: non sarebbe meraviglioso avere un’arca delle arti per portare in salvo i tesori di Palmira o di Ninive (...)? Si tratta però di un’istituzione ambigua; non si capisce fino in fondo quale funzione potrebbe avere in realtà. (...)

A parte le biennali internazionali, la conservazione dell’arte in zone franche, o di stoccaggio duty free, è forse la più importante forma attiva di arte nell’epoca contemporanea. Una sorta di risvolto distopico della biennale, in un’epoca in cui i sogni libertari di globalizzazione e cosmopolitismo si sono tradotti in un caos multipolare abitato da oligarchi, signori della guerra, multinazionali troppo grandi per fallire, dittatori e popoli che da un giorno all’altro si ritrovano apolidi. Alla fine del XX secolo la globalizzazione era descritta con una formula: il valore della società civile moltiplicato per internet fratto migrazione, urbanesimo metropolitano, potere delle ong e di altre entità politiche transnazionali. Saskia Sassen ha definito queste attività «pratiche di cittadinanza che vanno al di là della nazione». Internet era ancora piena di speranze e la gente ci credeva (...).

Le forme di organizzazione di cui le ong per i diritti umani e i movimenti per i diritti delle donne sono stati pionieri sono ora impiegate da squadracce fasciste al soldo di oligarchi, unità di jihadisti con la GoPro, esuli che speculano sul mercato valutario e troll che attaccano su internet facendosi passare per appassionati di feng shui euroasiatici. (...)

La stasis è un meccanismo che converte in «azienda» il «cosmo» di cosmopolita, e in «proprietà privata» l’idea di polis inscritta in quel termine. Per l’arte, il modello istituzionale corrispondente è lo stoccaggio nei porti franchi, che si basa sull’esenzione fiscale e su una extraterritorialità strategica. «I figli degli uomini» fa capire che questo modello potrebbe benissimo essere scelto dalle istituzioni pubbliche per far fronte alla guerra civile planetaria, mettendo al sicuro le opere d’arte fino a ritirarle dalla circolazione. Mentre la biennale internazionale era la forma di arte attiva che corrispondeva all’idea di globalizzazione del tardo Novecento, lo stoccaggio duty free e i bunker di massima sicurezza (...) sono il suo equivalente nell’era della stasis globale e dei confini ridefiniti dalla Nato tramite recinzioni pop up. Ma questo non è un esito scontato né inevitabile.

Pensate a come fu esposto «Guernica» proprio durante una guerra civile globale del secolo scorso. «Guernica» fu dipinto per il padiglione della Repubblica spagnola all’Esposizione Universale di Parigi del 1937, per denunciare gli effetti degli attacchi aerei sulla popolazione civile. In termini di conservazione, la scelta fu pessima: la tela fu appesa praticamente all’aria aperta (...). Nel futuro immaginato nel film «I figli degli uomini», la tela di Picasso trova riparo dal caos della guerra in una sala da pranzo privata. È quindi «al sicuro» (...) ma pochissimi avranno la possibilità di vederla. Durante la guerra civile storica, invece, fu presa una decisione completamente diversa: esporre la tela, metterla letteralmente «fuori» (...). Lo scenario suggerito dal film è contraddittorio perché la prima cosa da conservare, se non addirittura da creare, è un contesto in cui l’arte possa essere vista e fruita. E questo perché l’arte non è tale se non la si può vedere. E se non è arte, non c’è alcun motivo di conservarla. Più che l’opera in sé, a essere minacciata dalla reazione che le istituzioni oppongono alla guerra civile (che sia privatizzazione o iperprotezione) è la sua accessibilità (...) Di qui la contraddizione: l’arte richiede visibilità per essere ciò che è, eppure questa visibilità è proprio l’aspetto che viene compromesso dallo sforzo di conservazione o privatizzazione. (...)

Che cosa ha a che fare tutto questo con il museo? Prima di tutto la storia esiste solo se c’è un domani, se i carrarmati restano chiusi nelle collezioni storiche e il tempo va avanti. Il futuro arriva solo se la storia non occupa né invade il presente. Il museo deve rendere inservibile il carrarmato nel momento stesso in cui lo accoglie, come i vecchi cannoni che vengono riempiti di cemento prima di essere collocati nei parchi. Altrimenti il museo diventa uno strumento per prolungare la stasis preservando la tirannia di una storia partigiana e parziale, che si rivela peraltro una grande opportunità commerciale.

(...) Nel 1937 «Guernica» era un’opera d’arte nuova, commissionata di recente e che affrontava un tema di attualità. I curatori non scelsero «I disastri della guerra» di Goya o un’altra opera storica, anche se avrebbe potuto funzionare altrettanto bene. Commissionarono opere nuove e pannelli educativi per parlare del presente. Per riattivare quel modello, occorre fare lo stesso. Se si vuole riattivare questa storia, bisogna che sia diversa, che proceda al livello successivo. Con opere nuove, nel presente. Si tratta naturalmente di un’impresa colossale, che va al di là del compito del museo come viene generalmente inteso (...)

La storia esiste solo se c’è un domani. E, per contro, un futuro esiste solo se si impedisce al passato di infiltrarsi continuamente nel presente, se tutte le specie di mimics vengono sconfitte. Di conseguenza, i musei non hanno a che fare con il passato, ma piuttosto con il futuro: l’obiettivo della conservazione non è tanto preservare il passato quanto creare il futuro dello spazio pubblico, il futuro dell’arte e il futuro in quanto tale.

Duty Free Art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria
(traduzione di Nicoletta Poo) 212 pp., € 23,00), edito da Johan & Levi
 

Hito Steyerl, da Il Giornale dell'Arte numero 391, novembre 2018

Ph: Hito Steyerl in una foto di Trevor Paglen