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La riforma del Terzo Settore (prima parte)

  • Pubblicato il: 15/04/2016 - 16:28
Rubrica: 
NORMA(T)TIVA
Articolo a cura di: 
Francesco Florian

Prime riflessioni sul  testo del Disegno di legge, licenziato in data 30 marzo 2016, riguardante la delega al Governo per la riforma del Terzo Settoredell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale
 
  
 
Il testo del Disegno di legge, licenziato in data 30 marzo 2016, riguardante la delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale, è in sostanza quadripartito. Con successivi decreti legislativi, infatti, si provvede/provvederà:
 

  1. Alla revisione della disciplina del Titolo II del Libro Primo del Codice Civile (e quindi in materia di associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato, riconosciute quali persone giuridiche o non riconosciute.
  2. Al riordino ed alla revisione organica della disciplina speciale relative ai c.d. enti del terzo Settore e ciò mediante l’adozione di un apposito Codice del Terzo Settore.
  3. Alla revisione della disciplina in materia di impresa sociale.
  4. Alla revisione della disciplina in materia di servizio civile nazionale.

 
 
Il tutto si basa su una definizione del Terzo Settore (art. 1 del provvedimento) che viene identificato con il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà ed in coerenza con i rispettivi statuti e atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di produzione e scambio di beni e servizi.
 
Sempre in termini generali, il disegno di legge individua i principi e criteri direttivi generali cui dovranno attenersi i decreti legislativi attuativi. Essi sono:

  1. Riconoscere, favorire e garantire il più ampio diritto di associazione, in stretta e fisiologica connessione con il dettato costituzionale;
  2. Riconoscere e favorire l’iniziativa economica privata il cui svolgimento può concorrere ad elevare i livelli di tutela dei diritti civile e sociali;
  3. Assicurare l’autonomia statutaria degli enti, in funzione del perseguimento delle finalità stabilite;
  4. Semplificare la normativa vigente, garantendone la coerenza giuridica, logica e sistematica.

 
Da queste «sommarie informazioni» emerge tutta la dignità del cd Terzo Settore, la sua funzione di attuazione concreta di precetti costituzionali come pure di vera e concreta azione volta ad elevare i livelli di tutela (e non solo) di diritti civili e sociali, che non si esprimano evidentemente in termini soggettivamente lucrativi o commerciali.
 
Emerge anche come l’intervento debba essere articolato su due livelli: un livello di riforma del Codice Civile ed uno relativo alla adozione di un Codice del Terzo Settore, volto ad armonizzare, coordinare e, perché no, modificare la disciplina speciale applicabile alle varie tipologie di enti, la cui diversificazione il più delle volte deriva da una differente disciplina fiscale (una associazione, per il codice civile, infatti, è sempre una associazione sia che si tratti di Onlus, Aps, volontariato o altro).
 
Un intervento così concepito è senz’altro condivisibile, condiviso  e, così concepito, fa ben sperare. Si tratterà casomai di verificare la portata del rapporto, in termini giuridici, che si verrà a creare tra Libro Primo del Codice Civile e Codice del Terzo Settore; pare verosimile, fin d’ora, immaginare un rapporto di genus a species: se vorrò costituire una Fondazione ONLUS avrò di riferimento il Codice del Terzo Settore, incardinandomi sotto il profilo civilistico nella disciplina del Codice Civile. Che tale impostazioni possa essere sempre lineare o ben delineata, solo la pratica ce lo potrà attestare.
Considerata la complessità ed articolazione del disegno di legge, in questa sede proviamo a condurre delle riflessioni limitatamente al primo degli interventi previsti dal legislatore e cioè quello di riforma del Codice Civile.
 
Il testo del disegno di legge si apre, sul punto, affrontando un aspetto che, sul piano sistematico, verrebbe per ultimo ed addirittura sarebbe pure eventuale: il riconoscimento della personalità giuridica. Ebbene, all’art. 3 lett. a) si afferma il principio di revisione e semplificazione del procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica in uno con la individuazione delle informazioni necessarie (dai bilanci agli atti essenziali dell’ente) cui dare pubblicità. Non solo. Dovranno pure essere individuati i requisiti essenziali/obbligatori da inserire negli statuti, comprensivi della disciplina per la conservazione del patrimonio. Se la semplificazione della procedura volta ad ottenere la personalità giuridica ci potrebbe portare all’adozione di un sistema incentrato sulla verifica di mera legittimità degli statuti degli enti e non più concessorio da parte dell’autorità amministrativa, per la seconda parte si potrà assistere a quella concorrenza tra fonti  (Codice Civile e Codice del Terzo Settore) cui accennavo sopra e quindi l’operatore dovrà tenere di riferimento i due corpi normativi, in relazione al tipo di ente che vorrà costituire. E ciò è sicuramente meglio della attuale “sparpagliata” disciplina.  Sotto il profilo della conservazione del patrimonio, essa è sicuramente previsione che mira a misurare la stabilità dell’ente non commerciale in prospettiva di tutela dei terzi e della pubblica fede e di ciò vi è sempre concreto bisogno. Pare pure corretto il secondo dei principi affermati nel provvedimento: occorre che venga disciplinata la responsabilità degli amministratori.
 
E’ da salutare con soddisfazione la lettera e) dell’art. 3 in cui si prevede che debba essere individuata la disciplina del procedimento per ottenere la trasformazione diretta e la fusione tra associazioni e fondazioni, rimasta, dopo la riforma del diritto societario, lettera morta o argomento accademico ovvero anche esclusa o ammessa in sede civile od amministrativa. La chiarezza sul punto è ormai divenuta indispensabile.
A destare perplessità ed a richiamare l’attenzione è quanto previsto alla lettera d). «Prevedere che alle associazioni ed alle fondazioni che esercitano stabilmente e prevalentemente attività d’impresa si applichino le norme previste dai titoli V e VI del libro quinto del codice civile (“Delle Società”, ndr) , in quanto compatibili».
 
Ad una lettura tutta d’un fiato, pare che vi sia una equiparazione tra attività d’impresa ed attività commerciale (necessaria e fisiologica per le società), con una ulteriore equiparazione tra azienda-attività d’impresa- attività lucrativo/commerciale. Con il che si abolisce/abolirebbe la distinzione tra imprenditore (art. 2082 del codice civile[1]) e imprenditore commerciale (art. 2195 cc[2]), assumendo che tutta la dinamica citata si riversi nel contratto di società (art. 2247 del codice civile[3]). In questo contesto l’azienda si identificherebbe con l’impresa che si identificherebbe con l’impresa lucrativa, in quanto assoggettata al regime delle società, e che, conseguentemente, fallirebbe.
E’ ormai dato acquisito da giurisprudenza e dottrina che azienda ed impresa non coincidono; che alla definizione di imprenditore di cui all’art. 2082 del c.c. non è connaturata la presenza dello scopo di lucro; che quest’ultimo caratterizza l’imprenditore commerciale (art. 2195 c.c. ) il quale può organizzare i propri interessi mediante il contratto di società ( art.  2247 c.c.) in cui è essenziale la distribuzione dell’utile. Da ciò le procedure fallimentari.
Ora, al di là del fatto che lo “stabilmente” ed il “prevalentemente” dovranno per forza declinarsi in termini temporali, il primo, e percentuali, il secondo, ciò che non torna è la citata equiparazione. Se infatti una associazione di volontariato o culturale che effettua assistenza domiciliare o promuove la conoscenza del patrimonio culturale, vuole perseguire attraverso la propria autonomia statutaria finalità solidaristiche che elevano i livelli dei diritti civili e sociali (in coerenza ed applicazione della costituzione e dei principi dianzi descritti), essa dovrà organizzare uomini, mezzi, strumenti e fattori di produzione (azienda, art. 2555 cc[4]) per esercitare una attività economica e organizzata al fine della erogazione di servizi (art. 2082 cc) senza per questo “essere” un imprenditore commerciale (art. 2195 c.c) in quanto quella stessa attività economica organizzata  consegue una remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo irrilevante lo scopo di lucro (così l’ incontestato e incontestabile brocardo giuridico).  Dalla lettura della disposizione, tutto ciò diviene contratto di società (art. 2247) cui lo scopo di lucro e, di più, la distribuzione dell’utile (lucro soggettivo) è essenziale. Ma la nostra associazione non gestisce una clinica privata a sette stelle……..
Se però rileggiamo quanto sopra sulla base di una chiave ermeneutica fiscale, ebbene impresa e lucro, art. 2082 (imprenditore) e art. 2195 (imprenditore commerciale) non sono poi così tanto differenti e in tantissimi casi (se non tutti…) coincidono.
La citata apparente (voglio sperare…) equiparazione rischia in concreto di far naufragare il Terzo Settore che invece si vuole sistematizzare e consolidare, al di là delle inevitabili e gravi antinomie tra libro I e libro V del codice civile.
Se infatti la lettura qui data dovesse essere confermata in sede di adozione dei decreti attuativi, la nascita di associazioni e fondazioni avrebbe “ben poco senso pratico” e  si dovranno invece ampliare/inventare forme lucrative sociali che non si addicono a tutti i tradizionali settori non profit, ed in particolare a quello dei beni ed attività culturali.
In conclusione, l’impostazione civilistica deve sicuramente essere chiara ed aderente alla realtà in modo tale da evitare e contenere abusi, fatti anche di concorrenza sleale e/o elusione fiscale; ma non può si può confondere la parte con il tutto e quindi disciplinare l’uso corretto degli istituti giuridici forzando principi civilistici consolidati in funzione del loro eventuale  abuso.
 
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[1] E' imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

[2] Sono soggetti all'obbligo dell' iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano:
1) un'attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi;
2) un'attività intermediaria nella circolazione dei beni;
3) un'attività di trasporto per terra, o per acqua o per aria;
4) un' attività bancaria o assicurativa ;
5) altre attività ausiliarie delle precedenti.
Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano.

[3] Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un' attività economica allo scopo di dividerne gli utili.

[4] L' azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell' impresa