La primavera delle fondazioni private in Italia
Quando si parla di fondazioni, nel nostro Paese, la mente va subito alle fondazioni di origine bancaria, una delle specificità italiane, il cui operato e la cui gestione è da sempre oggetto di controversie e contrastanti pareri.
Meno note sono le altre due principali categorie di Fondazioni presenti nel nostro Paese: le fondazioni di origine privata dotate di un patrimonio finanziario ben sufficiente a consentire il perseguimento dei propri scopi e le fondazioni, spesso nella fattispecie «di partecipazione», che devono ricorrere a contributi esterni per perseguire il proprio equilibrio di gestione. Fra queste ultime una certa notorietà caratterizza le Fondazioni per la gestione dei teatri lirici, segnate da continue tensioni finanziarie e una certa conflittualità dei loro dipendenti. Un'altra categoria di un certo rilievo è poi rappresentata dalle «Corporate Foundations»; il fenomeno è ancora peraltro in fase di rodaggio, almeno nel nostro Paese.
Sono invece sempre state sotto traccia le Fondazioni private, che nascono grazie alla visione filantropica di un fondatore o di una famiglia fondatrice. Anche nel nostro Paese esse nascono solo quando alcuni soggetti, grazie a un importante patrimonio accumulato, perlopiù attraverso attività economiche svolte a condizioni di mercato capitalistico, decidono liberamente di dedicare parte di tali ricchezze ad attività filantropica. Il fenomeno è più noto nel mondo anglosassone, sia per la cultura di mercato che ne è caratteristica, sia per una minore presenza dello Stato e di un sistema di welfare state basato su di esso. Ciò è dovuto, di nuovo, alla matrice capitalistica, che guarda con diffidenza a uno Stato che, oltre a fissare le regole, a controllare che vengano correttamente applicate, a redistribuire la ricchezza per equità e per favorire la coesione sociale, voglia anche farsi produttore dei servizi di pubblico interesse (nel senso inglese del termine, che non vuole assolutamente dire statale). Ma anche la storia gioca un ruolo importante: la rivoluzione francese e il neo centralismo napoleonico, fatto proprio poi dall'impero tedesco prussiano, hanno quasi cancellato i corpi intermedi, passando sotto la gestione statale tutto il tema della produzione dei servizi di pubblica utilità, e quindi il sistema dell'istruzione e del welfare, fra il 19^ e il 20^ secolo. A giudicare dalla crisi dei debiti pubblici e dal declino della qualità dei servizi pubblici (il cittadino sembra suddito delle burocrazie autoreferenziali), non è stato un modello proprio vincente. Solo grazie alla fase neoliberista, che ha segnato le economie occidentali (e la definitiva sconfitta del comunismo) a partire dagli anni '80 dello scorso secolo, si è dato impulso a una forte cultura di mercato anche nell'Europa continentale, e così anche da noi sono nate e si sono sviluppate fondazioni private con capitale.
Questa è una notizia molto bella, nonostante il fenomeno presenti numeri molto piccoli, se rapportato al PIL. Queste fondazioni, in primo luogo riescono a operare con un'efficacia e un'efficienza che può essere propria delle imprese abituate a operare in contesti competitivi di mercato. Il fondatore ha infatti tipicamente un vissuto di imprenditore ed è intriso di tale cultura. Grosmann e Porter, in una famosa serie di articoli apparsi su Harvard business Review ormai quasi venti anni fa, hanno dimostrato che competenze manageriali e imprenditoriali sono un fulcro della buona azione filantropica, perché le buone pratiche consentono di dare molto più valore al denaro che viene utilizzato. Con il motto «fare bene il Bene» si intende proprio la razionalità nell'attività filantropica, quella razionalità che le buone intenzioni di volontari impegnati nella filantropia spesso soffocano a motivo della passione con cui vengono affrontati i temi della charity o della gestione dei beni culturali.
In secondo luogo queste istituzioni possono operare veramente in condizioni di libertà e senza vincoli o interessi. I componenti i loro organi non hanno bisogno di creare il consenso per essere rinominati e le interferenze del mondo pubblico, soprattutto nelle sue articolazioni meno trasparenti, sono in pratica impossibili. Questo specifico profilo consente benefici rilevanti su un piano etico e valoriale, di cui il nostro Paese sembra avere veramente bisogno.
Ecco perchè penso che siano così promettenti, e certamente la cultura di lasciare tutto o parte del proprio patrimonio a istituzioni filantropiche potrà prendere sempre più piede anche nel nostro Paese. Esse dovrebbero essere favorite fiscalmente, beninteso esclusivamente con riguardo a quelle fondazioni private che si dotino di un patrimonio adeguato per sostenere le proprie finalità, tralasciando quelle di altra natura. In particolare dovrebbe essere agevolata la destinazione di risorse alla formazione del loro patrimonio e le relative imposte sulle rendite finanziarie ridotte. Con vincoli antielusivi evidenti, già ben sperimentati negli altri paesi più avanzati sul tema: la destinazione non personale delle risorse (tipica invece delle fondazioni per il sostentamento di una famiglia o di un gruppo di soggetti privati) e la destinazione di un rendimento minimo a erogazioni.
Le fondazioni private hanno dimostrato di operare molto bene e meritare questo beneficio che, a ben vedere, non è per loro, ma per la società che può beneficiare della loro azione. Si sono aperte internazionalmente, sono speso gestite da manager esperti e managerialmente formati. La partecipazione di molte di esse al network della European Venture Philanthropy Association (EVPA) è un segno positivo ulteriore. Magari nella speranza che si realizzino casi di imitazione!
Angelo Miglietta è ordinario di Economia e Gestione delle Imprese presso la IULM di Milano, dove è anche pro-Rettore. È stato Segretario generale della Fondazione CRT e prima membro del consiglio di amministrazione della Fondazione Cariplo