La politica ha preso coscienza dell'esistenza delle industrie creative
Roma. Stati Generali della Cultura, organizzati da Lincei, Treccani e Sole 24 Ore. Panorama desolante quello offerto dai quattro Ministri intervenuti - Profumo, Barca, Ornaghi e nel pomeriggio Passera - nessuno escluso. In testa il capo del MIBAC che Andrea Carandini definisce alla guida di un Ministero «morto e rassegnato». Apparsi imbarazzati e privi di qualsiasi visione strategica sul tema di fronte ad una platea urlante, ma rispettosa di fronte all'intervento energico e monumentale del Presidente della Repubblica (riportato integralmente in prima pagina del domenicale del Sole) che pazientemente ha osservato lo spettacolo.
Con la consistenza e la lucidità che lo contraddistingue il professor Pierluigi Sacco, preside della Facoltà di arti, mercati e patrimoni dello IULM di Milano, risponde con la competenza pluriennale del valutatore al Ministro Fabrizio Barca, sul mancato utilizzo dei fondi comunitari:«gran parte dei bandi sono andati deserti, perché mal realizzati». Non mancano solo denari, ma soprattutto le strutturali competenze di pianificazione, visione strategica sulla filiera e incapacità di innestare nuove competenze.
«Le abbiamo, soprattutto nei giovani, ma questi sono costretti ad andare a lavorare all'estero, dove trovano la possibilità di mettere a frutto le loro competenze» continua il professore.
«In Italia viviamo una deriva schizoide: oggi per la prima volta ho sentito i Ministri parlare di industrie culturali creative, quando nel resto dell’Europa se ne parla da almeno vent’anni», continua Sacco che evidenzia in modo costruttivo i problemi per cercare soluzioni, ribellandosi alla definizione ricorrente, reiterata anche dai Ministri, del patrimonio artistico inteso «petrolio» dell’Italia: una metafora deleteria, che riconduce ad un approccio passivo. Il patrimonio genera ricchezza se produce comportamenti volti a costruire una grande narrazione collettiva che rimetta in gioco nuovi contenuti e ispiri nuove produzioni.
Continua la contrapposizione tra visione economicistica della cultura e utilità sociale: «Siamo soliti parlare esclusivamente di turismo: non c'è in Italia un'opinione pubblica che capisca il valore della cultura per la cittadinanza attiva. Un italiano su due partecipa attivamente alla cultura, l'altro non sa cosa sia: se non recuperiamo la partecipazione di quella metà, sarà impossibile averne la sostenibilità politica. Imprescindibile la sensibilizzazione dei giovani fino all'età scolare. Abbiamo bisogno di una produzione che generi fatturato, certamente, ma abbiamo bisogno di capire le ricadute sociali, sul benessere, della partecipazione culturale. Ad esempio, oggi sappiamo che le persone della terza e della quarta età che partecipano più attivamente prendono meno medicine e sono meno ospedalizzate! Questo elemento ha un impatto detonante sulle politiche di welfare...».
Una pista di pensiero e ricerca che è condivisa anche da Walter Santagata, quella della cultura come fattore di benessere. Negli anni '50 si parlava di Tesori della nazione. Dagli anni '90 si è introdotta la disciplina di economia della cultura come valorizzazione dello sviluppo locale. Il tema oggi è quello delle industrie creative.
Punti cardine del «libro bianco della creatività», datato 2008, che ora sono sdoganati.
Ma fortunatamente si apre la nuova frontiera della cultura per la qualità sociale. Santagata torna sull'imprescindibile riforma delle istituzioni, auspicando una trasformazione del MIBAC, da Ministero per i beni e le attività culturali a Ministero per la Cultura, e non solo nella denominazione, ma con una «direzione per le industrie culturali che sappia occuparsi di architettura, design, moda, cucina».
Secondo Santagata il settore pubblico non più in grado di erogare risorse, non lo è neppure negli indirizzi e nelle politiche di fund raising. Si possono coinvolgere i privati, partendo dalle associazioni degli Amici dei Musei che in Italia non trova l'eccellenza anglosassone, anche se c’è resistenza da parte dei politici per i quali «i soci diventano un controllore che chiede il perché di certe decisioni ed è meglio non avere nessuno che ponga domande indiscrete».
In Germania alcune Kunsthalle hanno oltre 10mila soci, a testimonianza di una democrazia della cultura che coinvolge il pubblico non solo nella richiesta di contributi, ma nella conduzione del museo.
Chiare le richieste di intervento presentate al Governo da Sacco:
1. in primo luogo, favorire l’accesso al credito per le nuove imprese culturali e la possibilità di incubazione dell'imprenditorialità per supportare lo sviluppo delle competenze;
2. la costituzione di un’agenzia per l'esportazione dei contenuti creativi in analogia a quanto realizzato da alcuni paesi europei, come l'Olanda, che hanno fatto un lavoro straordinario sulle economie emergenti (es. sul design, la moda...);
3. l’esportazione di brand, come nel caso del l'intervento del Louvre ad Abu Dhabi, sotto forma di prestito delle opere e «travaso» di competenze nella costruzione di standard metodologici;
4. la creazione di un rapporto tra il manifatturiero italiano di qualità e le industrie creative al fine di elevarne la qualità.
«Oggi si lavora su modelli obsoleti con forme di riciclaggio della creatività vecchie di vent'anni: non c’è una rilettura creativa del passato, ma una rilettura pigra. Abbiamo bisogno di centri di trasferimento creativo: nel food abbiamo una generazione nuova di cuochi stellati, vorremmo fosse così nella moda e nel design» dice Sacco. Lo conferma la fuga di artisti dall'Italia nel 2011, 6000 secondo Roberto Grossi, Presidente di Federculture, che paragona l'esodo a quello delle grandi migrazioni italiane all'inizio del '900, mentre in altri Paesi, come la Cina, vengono creati poli di residenza, 56 nella sola Pechino, per catturare il DNA della creatività internazionale.
E' evidente, non siamo più competitivi nei settori nei quali crediamo di essere un Paese di punta. Il nuovo indicatore di interesse per la cultura Indice24, che analizza gli elementi riconosciuti di posizionamento competitivo dei brand dei Paesi attraverso Google-Harvard, il data base di otto milioni di libri in lingua inglese pubblicati tra il 1800 e il 2000, palesa che il «Food» è l'unico settore in crescita (passato da 5 punti nel 1900 a 78 nel 2000 ), rispetto alla discesa vertiginosa di tutti le «arti»: architettura da 60 a 18; arte visiva da 600 a 105; Moda da 85 a 34. Regge il Design, passato da 265 a 230.
Non resta che rimboccarci le maniche, cogliendo l'invito, pars construens, formulato all'esecutivo e a tutti dal Presidente della Repubblica, pur riconoscendo a Mario Monti l'aver attenuato la crisi di fiducia sul debito del Paese, priorità assoluta.
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