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La dotta decadenza di Bologna

  • Pubblicato il: 09/11/2012 - 03:25
Rubrica: 
NOTIZIE
Articolo a cura di: 
Edek Osser e Tina Lepri
La casa color aragosta nel centro storico

Bologna. Una visione sconfortante: la fontana del Nettuno, capolavoro di Giambologna, simbolo della città, è a secco. Da tempo l’acqua non sgorga dai 90 ugelli bloccati dal calcare, mentre i celebri bronzi soffrono, coperti da incrostazioni e corrosi dagli acidi del guano di piccione che inquina la vasca. Dall’ultimo restauro sono passati più di vent’anni e adesso serve un intervento costoso. Il Comune non ha soldi, aspetta uno sponsor. Il degrado della fontana, nel cuore di Bologna, davanti  a San Petronio e a Palazzo d’Accursio, sede del Comune dove, proprio sopra l’ingresso, l’antico stemma in pietra è trattenuto da grossi elastici colorati per evitarne il crollo, segnala la crisi di tutto il centro storico. L’immagine stessa della città ha evidente bisogno di un radicale «restauro».
Eppure Bologna sembra decisa a puntare sul turismo, in lieve crescita nonostante la crisi, e quindi a valorizzare i suoi tanti tesori. Il ritardo è grave perché, ammette Alberto Ronchi, da un anno e mezzo assessore alla Cultura del Comune, «Bologna non ha mai coltivato il turismo culturale, né promosso il suo patrimonio. L’attenzione è ancora sulle fiere, l’industria, l’evento. Abbiamo dato per scontato che questa sia una città di passaggio». È quindi naturale che Bologna non sia percepita come una città d’arte nonostante i numerosi musei, pubblici e privati, le decine di chiese ricchissime di opere d’arte, i palazzi affrescati, i monumenti antichi e il suo caratteristico centro storico con 40 chilometri di portici, candidati a sito Unesco. Eppure l’immagine della città è sfocata e priva d’identità.
La crisi dei musei comunali
Il primo nodo del problema è la crisi degli 11 musei comunali. L’analisi di Alberto Ronchi è impietosa: «Ereditiamo una situazione caotica che non riguarda soltanto i nostri musei. L’attività culturale complessiva della città ha gli stessi problemi: l’offerta è di una ricchezza esplosiva con potenzialità enormi, ma c’è tanta confusione e pochissima capacità di dare un’ immagine unitaria e coordinata di Bologna. La nostra politica culturale è stata sempre un po’ schizofrenica. Basta pensare che a un certo punto, nel 2006 (sindaco Sergio Cofferati, Ndr), si è teorizzata e applicata l’idea che nei musei fosse giusto entrare gratis. Quando il commissario Anna Maria Cancellieri ha ripristinato il biglietto a pagamento, nel marzo 2011, c’è stato un crollo di visitatori». Dopo un buon 2010 (quando i musei erano gratuiti), nel 2011 il Museo Archeologico è passato da 109mila a 97mila visitatori, il Museo Morandi da 38 a 24mila, la pinacoteca di Palazzo d’Accursio è precipitata da 43 a 22mila. Ha retto meglio il MAMbo: 89mila nel 2010, con la grande mostra di Morandi, 88mila nel 2011 e altrettanti previsti nel 2012. Ma i guai dei Musei Civici sono prima di tutto strutturali, a cominciare dalla loro divisione in due gruppi: l’Istituzione Musei Civici, con le raccolte «storiche» (l’Archeologico, il Medievale, le collezioni d’arte antica, i musei del Risorgimento, della Musica, del patrimonio e dell’arte industriale) e, nella seconda struttura, laGam (Galleria d’arte moderna), con il MAMbo per l’arte contemporanea, Museo e Casa Morandi e quello «della memoria di Ustica» realizzato da Chistian Boltanski. Una duplicazione inutile, vero pasticcio organizzativo e burocratico.
Per mettere ordine, nel 2011, l’attuale Giunta aveva nominato un Consiglio d’amministrazione presieduto da Andrea Buzzoni, arrivato da Ferrara dove ha creato per il Comune un modello vincente con le grandi mostre a Palazzo dei Diamanti. Nove mesi di lavoro (gratuito) e infine Buzzoni e il Consiglio producono un documento di 35 pagine, uno strumento di lavoro per rilanciare i Musei Civici in funzione di una Bologna futura città della cultura. A fine marzo 2012 il rapporto viene consegnato al sindaco Virginio Merola. Non accade nulla, il documento non viene discusso. A luglio, ufficialmente per motivi personali, Buzzoni si dimette e con lui altri due componenti del Consiglio (cinque in tutto). Ronchi spiega che si tratta di un documento «utilissimo, di cui stiamo facendo tesoro ma che non è opportuno rendere pubblico. Contiene, per esempio, valutazioni sulla sicurezza dei musei che è bene restino riservate». Uno strano mistero. Comunque a novembre il Comune darà una direzione unitaria ai suoi musei, un’organizzazione snella e autonoma tutta da costruire che dovrà superare personalismi e inimicizie che finora l’avevano impedita in una tipica «guerra tra poveri». Una riforma necessaria anche perché, dice Ronchi, «nel 2014 Bologna diventerà “città metropolitana” dunque avremo problemi in più: al Comune andranno anche i musei dei centri vicini. Non siamo ancora usciti dal caos, ma quando avremo il nostro “sistema museale” potremo impostare indirizzi comuni, creare una filiera con gli altri musei della città. Adesso non c’è nessun coordinamento, a partire dagli orari di apertura. Abbiamo fatto un primo passo soltanto a luglio 2012, con la “Bologna Welcome Card” valida in tutti i musei».

Un ruolo per l’arte contemporanea
Il Comune punta sul rafforzamento del MAMbo, polo dell’arte contemporanea, museo molto attivo con aperture internazionali diretto dal 2005 da Gianfranco Maraniello, coinvolto nella svolta istituzionale dei Musei Civici. «Scontiamo un’eredità storica, dice, una mancanza di progettualità complessiva e di orientamento. Per questo, negli ultimi anni, la ricchezza di offerta culturale della città è stata percepita come un limite, a causa dell’assenza di coordinamento. Per il MAMbo la svolta è venuta nel 2010 quando abbiamo realizzato con gli americani la grande mostra su Morandi al Metropolitan di New York trasferita poi a Bologna. Data l’importanza, la qualità, il numero delle opere esposte, l’unica struttura adatta era il MAMbo, non il Museo Morandi. La mostra ha cambiato la percezione internazionale dell’artista che è entrato nella élite mondiale. È stato anche un successo della semplificazione organizzativa che ha superato la divisione tra i vari musei. Se applicata a tutto il sistema, porterebbe vantaggi giganteschi».
Il MAMbo, nato nel 2007 dal recupero della ex Manifattura delle Arti, è una costola della Gam che esiste da oltre trent’anni ma è ormai soltanto una sigla: le sue opere sono scomparse. Che fine hanno fatto? «Dal 2005, dice ancora Maraniello, abbiamo un progetto museale mai realizzato che riguarda tutto Palazzo d’Accursio, destinato ad accogliere le collezioni dell’800 e ’900 e la Pinacoteca Civica. Ma sono mancati interlocutori chiari, c’è stata una distribuzione improvvisata di funzioni dovuta alla rapida discontinuità politica: sindaci diversi, un anno e mezzo di commissariamento. Così le collezione comunali d’arte moderna della Gam sono finite nei depositi, invisibili».
Maraniello parla anche di future grandi mostre, che a Bologna mancano da trent’anni. «Quando sono arrivato al MAMbo come direttore, Bologna soffriva il complesso di Ferrara che per vent’anni ha seguito una scelta strategica chiara che l’ha portata a essere identificata con le famose mostre di Palazzo dei Diamanti. Ma Bologna è diversa. Ha altre caratteristiche: per esempio è importante la sua vocazione al contemporaneo. Non ha senso replicare modelli riusciti e identitari come quello di Ferrara, a pochi chilometri di distanza. Dobbiamo fare altro».

Genus Bononiae
Protagonista della vita culturale è da anni la Fondazione bancaria Carisbo (Cassa di Risparmio di Bologna), con il suo presidente, Fabio Roversi Monaco. Personaggio centrale della scena cittadina, è stato per 15 anni rettore dell’Università e oggi, attraverso la Fondazione, gioca un ruolo essenziale nel sostegno di tante istituzioni bolognesi. A coronamento della sua azione, Roversi Monaco ha ideato e realizzato un progetto ambizioso fin dal nome: «Genus Bononiae. Musei nella città». Dal 2003 la Fondazione Carisbo ha comprato o avuto in gestione otto edifici, palazzi storici e antiche chiese che sono stati accuratamente restaurati. Palazzo Fava, con un importante ciclo di affreschi dei Carracci, sede per mostre temporanee; l’oratorio di San Colombano, un museo esemplare di antichi strumenti musicali (collezione Tagliavini); nella ex chiesa di San Giorgio in Poggiale c’è una biblioteca; Santa Cristina è diventato auditorium per concerti; Palazzo Saraceni, sede della Fondazione, è aperto per mostre. L’ultima e più clamorosa realizzazione di Roversi Monaco è il Museo della Storia di Bologna, nel restaurato Palazzo Pepoli, inaugurato a fine gennaio 2012: allestito come museo virtuale, ricco di costosa tecnologia in parte interattiva, sorge a pochi passi dalle due Torri ed è costato 45 milioni di euro: 130mila visitatori nei primi otto mesi. Tra acquisti, restauri, allestimenti, la Fondazione ha investito nel progetto «Genus Bononiae» ben 130 milioni di euro con l’idea di creare nel cuore della città storica un percorso museale aperto, articolato in sedi diverse, ciascuna con una sua specifica funzione culturale. Un progetto colossale e di assoluta eccellenza.
Ma dopo l’apertura del Museo della Storia di Bologna, si è aperto un dibattito anche polemico sul metodo autoreferenziale con il quale è stato realizzato e sulla opportunità di un’impresa tanto costosa in una città che soffre ormai la crisi, con gli altri musei che stentano a sopravvivere per mancanza di fondi e hanno finora contato sull’aiuto della Fondazione Carisbo. Roversi Monaco resta convinto della validità del suo progetto: «Abbiamo riqualificato il centro storico partendo dalle strade: via Minghetti, via Manzoni, via Parigi, restaurate dalla Fondazione, e poi tutti gli edifici antichi salvati dal degrado: erano in abbandono, depositi per topi. Gli affreschi dei Carracci stavano lentamente morendo». Ma ci saranno le risorse per gestire tutte queste sedi e continuare a sostenere le istituzioni cittadine? Roversi Monaco reagisce con forza: «Chi afferma che abbiamo fatto il passo più lungo della gamba è qualcuno che a Bologna non ha mai realizzato nulla. È una caratteristica della città: l’importante è che non facciano gli altri. Del resto so bene che è comune l’idea che le Fondazioni siano vacche da mungere. Questa operazione è costata molto ma nel nostro bilancio ci sono i valori attualizzati degli edifici comprati e restaurati: risultano superiori a quello che abbiamo speso. E resteranno patrimonio della città». Nel futuro prossimo vede Bologna avviata a diventare importante città d’arte. «Subiamo la concorrenza insuperabile di Venezia, Firenze, Roma. Lo sforzo fatto finora dalla città non è sufficiente perché almeno una parte del flusso turistico si fermi qui. Il nostro è però un turismo colto, di qualità e sta crescendo. Credo che Bologna abbia ripreso un suo ruolo: l’Università, l’apparato museale, un insieme di centri di ricerca».

Troppi musei nascosti
Accanto a «Genus Bononiae» e ai Musei Civici, esiste un terzo polo museale troppo trascurato: i semisconosciuti musei dell’Università. Proprio Roversi Monaco, quando era rettore, ha riunito nello splendido Palazzo Poggi, con un moderno allestimento, alcuni dei musei scientifici dispersi in diverse facoltà. Aperto nel 2000, Palazzo Poggi espone l’eredità preziosa della tradizione scientifica cittadina: dalla spettacolare raccolta di cere anatomiche ai reperti naturalistici collezionati da Ulisse Aldrovandi nel Cinquecento. Purtroppo i visitatori sono meno di 3mila all’anno: un turismo raffinato, che viene anche da lontano. Non c’è coordinamento con gli altri musei, manca ogni forma di comunicazione, così Palazzo Poggi resta ignoto agli stessi bolognesi.
Più di ogni altra istituzione soffre di povertà e solitudine l’unico museo dello Stato, laPinacoteca Nazionale, scrigno dell’arte emiliana e non solo, un tempo perla dei musei di Bologna, circondato oggi da un quartiere frequentato anche da ladri e spacciatori. Il soprintendente ai Beni artistici Luigi Ficacci oltre che di Bologna si deve occupare anche di Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna-Rimini. Racconta che «per restauri, manutenzione, riparazioni e lavori vari nella Pinacoteca bolognese, nel 2012 il Ministero ha stanziato euro “zero”. Per gli altri “capitoli” ho in tutto 181mila euro. È possibile che arrivino fondi, anche dallo stesso Ministero a fine esercizio, ma non programmabili, quindi non posso prendere nessun impegno». Impossibile pensare a mostre o altre attività. Nel 2011 i visitatori della Pinacoteca bolognese sono stati appena 33.700. Eppure l’ingresso costa solo 4 euro.
L’epoca d’oro della Pinacoteca è stata quella della innovativa Soprintendenza di Andrea Emiliani, fino a tutti gli anni Settanta. Aveva aperto la città al mondo con le grandi mostre biennali, da Guido Reni ai Carracci, in collaborazione con i grandi musei, dal Metropolitan di New York alla National Gallery di Londra, che hanno ridato all’arte bolognese il prestigio che aveva perduto nel corso dell’800. L’ultima mostra è stata nel 1979 e da allora mostre importanti non si sono più fatte. «Sembra che Bologna si sia voluta trasformare seguendo un percorso inverso a quello di altre città che hanno tentato e qualche volta sono riuscite a diventare città d’arte promuovendo musei, eventi, mostre, puntando spesso sul contemporaneo, dice oggi Emiliani. Bologna ha compiuto questo sforzo prima degli altri, a partire dagli anni ’50 grazie a personalità come Cesare Gnudi e Carlo Ludovico Ragghianti e alla lungimiranza di Comune e Regione. Ho ereditato la Soprintendenza da Gnudi e Bologna è stata modello di salvaguardia e di progettualità: la città stessa è stata difesa da due leggi, quella sulla zona della collina inedificabile e quella di Pierluigi Cervellati che impose un vincolo sulla struttura del centro storico in quanto tale, che è servito fino a pochi anni fa».

Il centro storico decaduto
Sui mali profondi, sulle difficoltà di Bologna ad accettare un cambiamento di rotta per ridare forza alla sua tradizione culturale, il soprintendente Ficacci ha maturato convinzioni condivise da molti: «A Bologna c’è un rifiuto, che è poi molto italiano, a perseguire lo sviluppo dei servizi e dell’industria culturale. La paura del nuovo contraddistingue la città ed è il motore più evidente di una conservazione acritica e scaramantica del proprio passato. Teniamo separati da una parte una grande erudizione autoreferenziale e dall’altra un’organizzazione senza conoscenza, due mondi divisi, che non dialogano». Ormai i segni della decadenza di una città tra le più colte e ricche d’Italia sono davanti a tutti. Pier Luigi Cervellati aveva fatto di Bologna un modello europeo secondo il principio che la città storica è «un organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale».
Oggi Maria Pia Guermandi, consigliere di Italia Nostra, descrive così la situazione: «Espulse verso le periferie intere fasce di popolazione, le attività artigianali e il piccolo commercio, il centro storico di Bologna è divenuto un guscio vuoto, colonizzato da banche e grandi catene commerciali, desertificato al calar della sera o preda di una “movida” invasiva e senza regole, fonte di conflitti e degrado».
Contro questo decadimento è battaglia quotidiana per Paola Grifoni, soprintendente per i Beni architettonici e paesaggistici: «La città è molto maltrattata. Mi ha colpito, appena arrivata, tre anni fa, l’inaudita sporcizia. La città è fatta di portici che sono di proprietà privata. I condomini dovrebbero spazzare e lavare, ma ormai non lo fa più nessuno. C’è il problema della presenza di decine di migliaia di studenti universitari che hanno colonizzato alcuni quartieri centrali: rifiuti, scritte sui muri, bottiglie ovunque, rumori notturni. È una città viva, gli studenti ci sono da secoli. Ma adesso c’è meno attenzione, si rischia un rapido degrado del decoro cittadino». Forti polemiche ha suscitato di recente il colore aragosta squillante di un edificio ancora non finito, sorto al posto di una vecchia casa nella centrale piazza 8 Agosto. Ma la Grifoni non ha potuto intervenire: «La legge del 2010 che ha istituito la Scia, dichiarazione di inizio attività, è stata devastante a livello nazionale. Ciascuno può fare come crede. Per i colori a Bologna manca una normativa, basterebbe un semplice elenco dei colori ammessi. Adesso si può dipingere la casa a pois. Stiamo cercando di evitare l’invasione di tavoli, sedie e installazioni fisse su strade, piazze e marciapiedi. Sinceramente, tutto questo è molto frustrante per me ma anche per il Comune». Oltre ai colori c’è il problema della pavimentazioni in pietra delle caratteristiche strade del centro. Il traffico pesante sconnette le lastre, provoca buche pericolose. Si provvede con l’asfalto, che non potrebbe essere usato ma costa poco. Il Comune definisce questi interventi «temporanei». Per le solite ragioni economiche, pochi ormai si oppongono alle sponsorizzazioni pubblicitarie. Così in questi mesi la facciata del Cattedrale di San Petronio, in restauro, è imbrattata da due grandi cartelloni che promuovono una marca di scarpe sportive. Di fronte, nel cortile dello storicoPalazzo Re Enzo, proprietà comunale, tra bandiere e cartelloni è esposto un nuovo modello di automobile.
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da Il Giornale dell'Arte numero 325, novembre 2012