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La casa-cittadella Fendi Nouvel

  • Pubblicato il: 15/10/2018 - 00:00
Rubrica: 
FONDAZIONI D'IMPRESA
Articolo a cura di: 
Federico Castelli Gattinara, da Il Giornale dell'Arte numero 390, ottobre 2018
È l’archistar Jean Nouvel a firmare Rhinoceros, ambizioso progetto realizzato in 28 mesi in un palazzo al Velabro dalla più giovane e creativa delle sorelle dell’alta moda
Alda Fendi è emozionata: l’11 ottobre si inaugura finalmente il suo Rhinoceros, la  nuova sede della Fondazione Alda Fendi - Esperimenti nell’area del Velabro, un palazzo risistemato tra Otto e Novecento non di particolare pregio, ma in posizione strepitosa, rialzata, accanto all’Arco di Giano. Ultima e più giovane delle cinque sorelle dell’alta moda, non ha volato basso e per ristrutturare quei quattro piani sormontati da due livelli di terrazze (3.500 metri quadrati in tutto) ha chiamato l’architetto francese Jean Nouvel, Premio Pritzker 2008, al suo primo intervento in città. «Lui come architetto è forte, spiega, è concettuale ma anche poetico. Ideale per Roma».
 
La ristrutturazione vera e propria è stata rigorosa, tanto che in questi 28 mesi di lavori, al posto dei 12 preventivati («e spese triplicate», ammette, anche se non si sbottona sui costi complessivi), architetto e Soprintendenza sono filati d’amore e d’accordo: le mura esterne non sono state praticamente toccate, sono stati conservati stratificazioni e segni mantenuti in parte anche negli interni, dove sono stati abbinati a resina nera, intonaci bianchi, ferro e acciaio, con arredi di design.

Prende così il via una cittadella dedicata alle arti, che vuole essere quanto di più sperimentale, trasversale e dinamico oggi si può concepire, potenziando al massimo la linea seguita da sempre dalla Fondazione, istituita nel 2001 insieme alle due figlie, con sede e galleria d’arte al Foro Traiano 1, e da allora con la direzione artistica di Raffaele Curi. Per l’11 ottobre è prevista una kermesse delle arti in cui tutto si mischia e si compenetra: fuori le installazioni luminose di Jean Nouvel, con le ombre degli alberi proiettate sulla facciata, e di Pierre et Gilles (compresa la loro fotografia di Alda Fendi), ai quali sarà dedicata una mostra nel 2019.

All’interno altre installazioni, tra cui una di fiori e carta velina che avvolgerà un intero ambiente e una di frutta africana. Il clou saranno quattordici disegni di architetture di Michelangelo prestati per la prima volta da Casa Buonarroti di Firenze, raccontati e commentati da Nouvel, mentre una parete di monitor anticipa uno strepitoso prestito dell’Ermitage, con il quale si avvia una serrata collaborazione: la scultura dell’«Adolescente» di Michelangelo, in arrivo il 14 dicembre. E ancora il monologo di Antonio dal Giulio Cesare di Shakespeare recitato da Vincent Gallo nel più piccolo dei due cavedi del palazzo, due installazioni dello stesso Curi e la nuova illuminazione permanente dell’Arco di Giano, regalata da Fendi alla città e firmata da Vittorio Storaro insieme alla figlia Francesca.

Il programma a seguire è un canovaccio d’intenti destinato a rimanere aperto e flessibile, con ogni anno tre interventi principali e altri più piccoli, «niente di fermo, perché così noi pensiamo sia l’arte oggi», dice la Fendi. Curi rivela di aver pensato a luce e colori («Mi piacerebbe trattare tutti i pittori che si smarriscono nella materia della luce: Nicolas De Staël, Willem de Kooning e il Maestro dell’Osservanza», un protagonista della scuola senese del XV secolo), ma anche «al grigio dell’inverno e al bianco e nero di Man Ray, del quale sono stato assistente» (con tre capolavori di Ingmar Bergman: «La fontana della Vergine», «Il settimo sigillo» e «Il posto delle fragole»), a una rassegna intitolata «Come d’estate in una chiesa d’oro» («andiamo nel Sud America, con l’oro, il caldo, il sole, quando ci si rifugia nelle chiese per sentire un po’ di fresco. E porteremo Gustave Moreau»), infine a che cosa succede dove c’è la guerra, la tirannia, l’Isis, luoghi come la Siria e l’Afghanistan, «dove non sappiamo più niente dell’arte, dove si distruggono monumenti e musei. Quando c’è sofferenza quasi sempre nascono virgulti fantastici».
Niente di italiano, perché, sostengono, c’è già troppo e gli artisti da noi tendono a essere viziati.

Alda Fendi, perché Rhinoceros?
Anticamente i Romani lo usavano come simbolo di forza, e poi si scrive e pronuncia allo stesso modo in tre lingue: latino, francese e inglese. Il palazzo si chiama così, ma la vera protagonista è la Fondazione. È la nuova sede, dopo tanti anni, ma non lasciamo la galleria al Foro Traiano.

Come l’avete concepita?
È stato creato un format nuovo, insieme a Jean Nouvel: un quartiere dentro la città, un po’ come i vecchi «passage» di Walter Benjamin a Parigi, un luogo dove succede tutto, dove si può dormire, mangiare, parlare, incontrarsi, dove ci sono negozi, il tutto mischiato all’arte. Le persone che vivono qui (artisti, mecenati, collezionisti e semplici appassionati) s’incontrano e si scontrano con tutto ciò che succede ai piani. L’arte avviene dappertutto, una galleria spalmata su quattro livelli, più altri due di terrazze con vista panoramica unica al mondo, a partire dal Palatino che sembra quasi di poter toccare.

Come userete le terrazze?
Sono il ristoro della galleria, affidato a Caviar Kaspia, ristorante francese specializzato in caviale e in salmone, che farà un menu adatto per l’Italia e sono convinta che avrà un grande successo.

Ci sono anche appartamenti?
Sono 24 in affitto, ognuno con un progetto diverso ma elementi in comune: un blocco centrale in acciaio, che contiene tutti i servizi, e pannelli oscuranti per le finestre con le foto dei palinsesti murari di prima dei lavori. Un appartamento lo teniamo noi a uso foresteria per gli artisti, degli altri se ne occuperà un imprenditore spagnolo. La nostra è una Fondazione senza scopi di lucro, ci occupiamo solo delle due gallerie e di tutta la parte artistica, che si espanderà ovunque, in tutti gli spazi comuni, corridoi, ascensori e scale compresi. Al piano terra ci saranno anche negozi e temporary shop.

Quali saranno le vostre relazioni con le istituzioni della città che si occupano di contemporaneo? 
Nessun legame, perché il format che ho inventato e voluto realizzare è del tutto diverso dagli altri. Da noi, per esempio, non vi è nessuna programmazione, la troviamo noiosa, non moderna. È la vita sociale, è ciò che succede che ci dice che cosa dobbiamo fare. Perché l’arte moderna è questo: un modo di seguire la società, le città, il mondo. Inventiamo, diamo la linea, sperimentiamo, chiamiamo via via personalità sempre nuove, con spirito d’avanguardia, niente di tradizionale. Le persone amano le cose che non comprendono, gli enigmi. Per dirla con Karl Kraus: «Artista è soltanto chi sa fare di una soluzione un enigma».

Lei ci tiene molto alla sua città.
Sono orgogliosa di fare qualcosa di nuovo per Roma, è una città che mi sta nel cuore, che non potrei mai abbandonare. Cerco in tutti i modi di farla vivere, ho questa presunzione che Roma non stia ferma, che questo palazzo trascini dietro di sé mille altre iniziative. Nel 2001 ho regalato alla città 400 metri quadrati di pavimento in marmi colorati della Basilica Ulpia, il più importante ritrovamento degli ultimi cinquant’anni, come lo ha definito Adriano La Regina, scavati a mano nella galleria al Foro Traiano e finanziati da me. Oggi dono la nuova l’illuminazione dell’Arco di Giano firmata da Storaro e una nuova cabina elettrica per il quartiere. Riqualifico una zona tanto preziosa quanto abbandonata da anni, mal illuminata, diventata un parcheggio.

 
Federico Castelli Gattinara, da Il Giornale dell'Arte numero 390, ottobre 2018