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L’Unesco ha 40 anni: successo o fallimento?

  • Pubblicato il: 07/12/2012 - 10:49
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DAL MONDO
Articolo a cura di: 
Rob Bevan, membro dell’Icomos
L’Unesco non ha evitato la distruzione del ponte di Mostar

Parigi. Dopo la devastazione dei suk medievali di Aleppo in Siria (cfr. n. 324, ott. ’12, p. 1) e degli antichi luoghi sacri sufi di Timbuctù (Mali), vale la pena ricordare le parole della scrittrice croata Slavenka Drakulic che nel 1993, parlando della distruzione del ponte ottomano di Mostar, disse: «Perché proviamo un dolore più grande di fronte del ponte distrutto di Mostar che alla vista di tutta quella gente massacrata?». Perché sappiamo che la gente è mortale, suggerì la stessa Drakulic, ma «la distruzione di un monumento della nostra civiltà è una cosa diversa. Il ponte era un tentativo di raggiungere l’eternità che trascende il nostro destino individuale».
Le parole di Drakulic riassumono l’importanza del patrimonio per comprendere il luogo dove viviamo e la nostra identità nel mondo. Oggi sembra un concetto scontato eppure le sue origini sono recenti. L’idea moderna di patrimonio affonda le radici nei danni causati ai monumenti durante la Rivoluzione francese. Per i successivi 200 anni il patrimonio è stato protagonista soprattutto per l’incapacità di salvaguardarlo durante le guerre. Solo nel 1972 la Conferenza generale dell’Unesco approvò la Convenzione per la tutela del Patrimonio mondiale culturale e naturale per l’identificazione, la protezione e la conservazione del patrimonio culturale e naturale considerato di importanza per tutta l’umanità. Questa stabilì una «non belligeranza» per quei luoghi di «valore universale eccezionale» per l’umanità.
Il punto di partenza fu la campagna per salvare Abu Simbel e altri siti nubiani dalle acque del lago Nasser in seguito alla costruzione della diga di Assuan. La ricollocazione dei blocchi del tempio iniziò nel 1964: il tempio di Dendur, smontato e donato dall’Egitto agli Stati Uniti per l’aiuto prestato, è ora esposto al Metropolitan Museum of Art di New York, mentre iltempietto rupestre di Ellesija nel 1965 venne smontato e donato all’Italia ed è ora al Museo Egizio di Torino.
La Convenzione, insieme ad altri accordi internazionali, secondo l’ambientalista John Hurd, va vista anche come un prodotto della guerra. «Dopo la seconda guerra mondiale si viveva in un clima di paura e sospetto culturale. La Convenzione fu siglata per la sicurezza della pace mondiale ed evidenziò differenze e punti in comune. Questo aspetto è ancora importante e le Nazioni Unite ne discutono costantemente».
L’adozione nel 1972 della Convenzione del Patrimonio mondiale mise per la prima volta insieme i concetti di salvaguardia della natura e del patrimonio culturale, entrambi patrimonio dell’umanità. Responsabile della Convenzione è il Comitato del Patrimonio mondiale Unesco(World Heritage Committee), composto da rappresentanti dei Paesi membri, con sede a Parigi. Offrono la loro consulenza a titolo volontario esperti di organizzazioni non governative, in particolare l’Icomos (International Council on Monuments and Sites) per le questioni culturali e l’Icun (International Union for Conservation of Nature) per i siti naturali. Primo sito entrato a far parte del Patrimonio dell’umanità furono le isole Galápagos nel 1978. Quattordici anni dopo erano 377 i siti classificati.
I padri fondatori della Convenzione avevano in mente 100 icone mondiali, che oggi sono salite a quasi 1.000, di cui 745 siti culturali, 189 naturali e 29 «misti». Ultimo Paese ad aderire alla Convenzione in ordine di tempo, il 190mo, è stato Singapore.

Politiche e guerra
Un enorme successo quindi. Ma l’Unesco è sempre più esposta a critiche per la gestione del suo programma di tutela del patrimonio; da parte delle lobby di costruttori e investitori finanziari nel mondo occidentale e da parte dell’associazionismo culturale e ambientalista che la accusa di essere impotente (anche perché senza soldi) di fronte ai conflitti che devastano il patrimonio culturale, dalla Siria a Timbuctù, e accusano di politicizzazione il processo di selezione dei siti.
Paul Finch, ex presidente della Commissione per l’Architettura e l’Ambiente costruito (Cabe) inglese, ha recentemente lanciato un violento attacco sulle pagine dell’«Architects’ Journal» sotto il titolo «È ora che l’Unesco, francese e prepotente, la smetta di interferire nel nostro patrimonio culturale», in particolare quello di Londra e Liverpool, concludendo: «Ricordate Waterloo!».
L’archistar olandese Rem Koolhaas ha girato il mondo insieme al suo Oma (Office for metropolitan architecture) con una mostra che ha criticato i controlli sul patrimonio. «Un’ampia porzione del nostro mondo (circa il 12%), dichiara l’Oma, è ormai off limits, sottoposta a regimi che non conosciamo e non possiamo influenzare... I siti del Patrimonio dell’umanità potrebbero diventare un arcipelago di Stati sempre più numeroso».
I dati sono ingannevoli e comprendono vaste aree situate in mare (come la Grande barriera corallina, ad esempio), ma il dibattito ha toccato un nervo scoperto.
Tutte le parti coinvolte ammettono che la lista originaria dei siti culturali rifletteva i valori culturali dell’Occidente e comprendeva monumenti simbolo appartenuti a re e vescovi, ma non era sufficientemente rappresentativa dei siti significativi per la vita quotidiana delle persone o di quelli appartenenti a Paesi in via di sviluppo. Quasi tutti concordano col fatto che oggi la situazione è migliorata, ma le cose devono cambiare ulteriormente dal momento che sempre più Paesi hanno la capacità di nominare e gestire nuovi siti. Si è poi sviluppata unamaggiore consapevolezza riguardo al patrimonio intangibile, come la musica o i rituali religiosi, e del bisogno di garantire l’autenticità del patrimonio, accanto però alla mancanza di accordo su quanto estesa debba essere questa lista e quanto essa si debba ampliare anche a siti non di «valore universale eccezionale».

Turismo e siti
John Hurd, presidente del comitato di consulenza dell’Icomos e direttore della conservazione per il Global Heritage Fund, afferma che il totale equivale a circa cinque siti per Paese membro: l’Italia ne ha 47, il Burkina Faso solo uno: «I padri fondatori sarebbero stati felici di vedere i siti raggiungere quota mille. Già nel 1972 si pensava di dover arrivare a 3mila siti». Hurd ammette tuttavia che il processo di selezione è ormai troppo politicizzato, e le lobby premono per la classificazione dei siti anche contro il parere degli esperti, spesso con l’unica motivazione di fare soldi grazie al turismo.
Susan MacDonald, direttore dei progetti di settore al Getty Conservation Institute di Los Angeles, è d’accordo: «Il comitato di consulenza è più politicizzato rispetto a un tempo. Piuttosto che esperti del patrimonio, i suoi rappresentanti spesso sono amministratori locali». Senza dubbio ci sono stati anche casi di corruzione: un esempio per tutti è quello di politici malesiani in combutta con i costruttori di un resort nel Gunung Mulu National Park.
Al di là alla pubblicità negativa, dal punto di vista concreto l’Unesco non ha la possibilità di imporre sanzioni particolari. Può spostare un sito nella sua Lista del Patrimonio mondiale in pericolo o minacciare di toglierne uno dal Patrimonio dell’umanità. Quest’ultima evenienza si è verificata in due sole occasioni: Dresda, dopo la costruzione del ponte sull’Elba, e il Santuario dell’orice (un’antilope africana) in Oman, dopo che il Governo ha deciso di ridurne la superficie del 90%. Ma è quando i rappresentanti della Convenzione si trovano in aperto conflitto con i progetti di sviluppo urbano delle città occidentali che nascono forti sentimenti anti Unesco. In Gran Bretagna, ad esempio, l’Unesco ha lanciato un monito contro i progetti di riqualificazione della zona portuale di Liverpool e, in particolare, contro Londra, per la costruzione di un complesso di uffici vicino alla Tower of London e di torri nella zona della Waterloo Station, che secondo gli oppositori avranno conseguenze negative sulla qualifica di sito Patrimonio dell’umanità dell’area di Westminster nella capitale britannica.
Paul Finch, direttore editoriale dell’«Architects’ Journal», sostiene che cercare di tutelare contesti così ampi in una città come Londra porterebbe a un blocco nello sviluppo urbano e che l’Unesco è un ente antidemocratico che vuole farla da padrone: «Questa mentalità trasformerebbe città dinamiche come Londra in aree morte». E aggiunge che l’Unesco avrebbe rivolto la sua attenzione all’Occidente distogliendola invece dai Paesi in via di sviluppo.
Francesco Bandarin, per dieci anni direttore del World Heritage Centre e ora promosso vicedirettore aggiunto per la Cultura dell’Unesco, respinge le accuse: «Non facciamo distinzioni. Quando il patrimonio è minacciato interveniamo, che sia in un Paese sviluppato o “emergente”. I Paesi con sistemi più moderni dovrebbero avere meno problemi a tutelare il loro patrimonio, ma è sempre vero? Abbiamo avuto casi critici a Vienna, Londra, Colonia, Siviglia, San Pietroburgo, Riga, per citarne solo alcuni. Siamo fermamente contrari a uno scontro tra conservazione e sviluppo. Prendiamo sempre in considerazione le esigenze delle città e delle comunità e di recente abbiamo adottato nuove linee guida sul paesaggio storico urbano per conciliare le esigenze di tutela con quelle dello sviluppo urbano. Far parte della Lista del Patrimonio dell’umanità non è un obbligo, ma una scelta delle comunità e dei governi. È questo che dà credibilità alla Lista». In una lotta in cui la cattiva pubblicità è l’unica arma disponibile (non ci sono altri poteri legali per tutelare i siti della Lista nei vari Paesi), Sue Miller, presidente del Comitato internazionale per il turismo culturale dell’Icomos, teme che per il patrimonio il peggio debba ancora arrivare: «Dobbiamo diventare negoziatori di alto livello e non essere percepiti come “quelli che dicono sempre no”. A Londra il tessuto urbano intorno alla Tower of London è in costante mutamento e lo è stato per secoli, quindi voler ostacolare la costruzione di grattacieli è assurdo, mentre Westminster invece va protetta. La causa della protezione del patrimonio spesso è danneggiata da chi assume posizioni poco realistiche».
In parte le difficoltà dei siti Unesco sono legate al successo stesso dell’iniziativa.  Entrare a far parte della Lista Unesco significa anche un aumento dei turisti, la cui presenza può danneggiare i siti. Spesso vengono citati casi come Angkor Vat, ma è difficile riconoscere le conseguenze della designazione nella Lista Unesco rispetto alla generale crescita mondiale del turismo culturale. «Molti tentativi di risolvere questo problema sono falliti, come il progetto per Angkor, per lo scarso impegno a livello locale, afferma Vince Michael, funzionario per la conservazione della sede statunitense del Global Heritage Fund. Avere più siti nella Lista significherebbe probabilmente una miglior suddivisione del turismo che ora è concentrato solo su poche specifiche località. Ci sono siti in Cambogia e Perù interessanti tanto quanto Angkor e Machu Picchu ma trascurati perché non fanno parte del Patrimonio dell’umanità».
Sue Miller colloca il turismo adeguatamente gestito al centro di qualsiasi strategia per la sopravvivenza del patrimonio culturale: «L’impegno dei visitatori nella comprensione dell’unicità di questi luoghi è cruciale per la conservazione del nostro patrimonio. Gli introiti del turismo finanziano le attività di tutela». Bandarin definisce il turismo «la principale sfida per la tutela del patrimonio nel XXI secolo», affermando che questo è cresciuto esponenzialmente e che pur essendo importante da un punto di vista economico, può rivelarsi distruttivo. Per questo ha proposto all’Unesco di mettere a punto linee guida sul rapporto tra patrimonio e turismo, utili per le politiche dei singoli Paesi.

Tagli al budget
Un ostacolo per il successo della Convenzione è l’aspetto economico. L’anno scorso, dopo l’ingresso della Palestina tra gli Stati membri, gli Usa hanno sospeso il proprio finanziamento annuo di 80 milioni di dollari, un quarto dell’intero budget. Gran parte del lavoro dell’ente sul campo è condotto da volontari. L’Unesco è determinata a far sì che gli Stati membri si occupino dei propri siti. «Molti pensavano che una volta entrati nella Lista sarebbe stata l’Unesco a occuparsi di tutto, e non sarebbe rimasto loro null’altro da fare se non mungere le casse centrali», afferma John Hurd. Gli obiettivi della Convenzione sono ancora pertinenti oggi come lo erano quarant’anni fa? «», è la risposta, ma è in corso un riesame del modus operandi dell’organizzazione, con un congresso in programma a inizio 2013 per discutere i risultati. Hurd vuole che gli Stati membri si assumano maggiori responsabilità e i comitati nazionali lavorino d’intesa tra loro; Miller auspica che le linee guida operative della Convenzione prendano in considerazione anche il turismo (che al momento non è menzionato).
Il futuro
Forse l’importanza della Convenzione si riconosce davvero solo quando fallisce nella sua missione. Che cosa fare ad esempio quando i Buddha di Bamiyan vengono distrutti? L’intervento dell’Unesco è irrilevante quando si ha a che fare con iconoclasti o dittatori. «Questa è la domanda che tutti si pongono, dichiara Hurd. Non possiamo fare niente se gruppi armati distruggono i beni culturali. Non siamo in possesso di un esercito per il patrimonio».  Ma ci sono anche successi, come in Libia durante la guerra recente: «Sono pochi i siti ad aver subito i danni dei bombardamenti e grazie al processo di classificazione condotto dall’Unesco la gente del posto ha iniziato a difendere il suo patrimonio sul campo. Stiamo facendo la stessa cosa in Siria e nel Mali, classificando tutti i beni culturali, anche quelli meno importanti. Non possiamo fare altro».
Il solo fatto che oggi ci si occupi diffusamente del patrimonio culturale e naturale è un successo della Convenzione. La reazione del mondo a fatti come quelli di Mostar, Bamiyan, Aleppo e del Mali, non sarebbe concepibile senza la Convenzione.

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da Il Giornale dell'Arte numero 326, dicembre 2012