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L’empatia creativa

  • Pubblicato il: 06/07/2016 - 11:02
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Articolo a cura di: 
Giulia Caffaro

Prosegue lo spazio alle giovani firme. Giulia Caffaro, membro della community ALL (il progetto della nostra testata madre-Il Giornale dell’Arte, dedicato ad avvicinare gli  studenti di Università e Accademie alla lettura critica  sul sistema dell’arte),  designer and arts specialist con una laurea Magistrale in Arti Visive all'Università di Bologna, si mette in ascolto dei grandi architetti che lavorano sui temi della sostenibilità. “La sostenibilità è un requisito fondamentale dell'architettura, questo termine tanto di moda è nato insieme all'architettura stessa. Parliamo piuttosto di “empatia creativa”. La parola a Mario Cucinella.
 
 
Mario Cucinella fonda nel 1992  lo studio MC Architects a Parigi. Nel 1999 a Bologna e nel 2012 dà vita ad un'organizzazione di nome “Building Green Futures” con la quale sperimenta soluzioni innovative in tutto il mondo attraverso architetture “verdi” e rigenerazione urbana. Oggi risponde alla domanda di definizioni con una riflessione profonda e personale sull'empatia creativa, condizione auspicabile per qualsiasi architettura che voglia comprendere il luogo in cui si insedia.
 
Architetto Cucinella, qual è la Sua definizione di “architettura sostenibile”? Integrazione con l'ambiente e ottimizzazione dello sfruttamento energetico. Sono questi i suoi concetti guida?
È tempo che cerco una definizione leggermente diversa per rispondere a questa domanda, cioè quella di “empatia creativa”, anche perché bisognerebbe uscire dai classici schemi e capire in quali termini parliamo di sostenibilità, se sono di natura economica, sociale o ambientale. L'architettura di per sé non è un'azione ecologica, è una trasformazione di materia attraverso un processo industriale, quindi preferisco usare altri termini. Per me la sostenibilità è una relazione con un luogo, non è solo una prestazione – altrimenti entreremmo nell'ottica prettamente ingegneristica - invece l'empatia è l'attitudine a comprendere un luogo, con tutta la sua complessità, e la creatività è lo strumento con cui arriviamo alla formazione di un progetto. La creatività è guidata dall'empatia, perché progettiamo in funzione di quello che abbiamo capito del luogo, che è fatto di clima, persone, rapporto tra edifici e tessuto urbano. Se gli edifici fossero empatici sarebbero forse meno estranei ai luoghi ospitanti. Il paradosso della sostenibilità a volte è proprio questo: edifici ad alte prestazioni energetiche ma esteticamente scarsi, poco funzionali, poco apprezzati e non certo specchio di ciò che hanno intorno, vincono battaglie in nome di quella parola.
 
Se gli edifici devono entrare in empatia con i luoghi, significa che cercano di rispondere a esigenze che sempre più diventano emergenze di natura ambientale, sociale ed economica. L'architettura ambisce quindi ad essere un bene comune, a migliorare la vita delle persone più che essere un monumento al valore del suo progettista. Lei ha sempre avuto questo pensiero?
Da quando ho iniziato a fare questo mestiere non mi sono mai chiesto se fossero utili o sostenibili le mie architetture, ho invece sempre pensato che realizzare un edificio brutto, non confortevole, non funzionale sia il paradosso del mio lavoro, perciò mi è sempre venuto naturale, fin dal 1992 quando ho iniziato, pensare che l'architettura fosse utile, dal punto di vista dell'uso, dell'immagine ma anche ambientale, diciamo che queste dovrebbero essere le basi. Siccome è uno sforzo tecnico, creativo ed economico ingente, non si può pensare di realizzare qualcosa che non funzioni, non mi sono mai neanche chiesto se ci fosse un'alternativa perché secondo me non esiste. Poi chiaramente l'alternativa, se vogliamo chiamarla così, è nata in un periodo in cui l'architettura si è trasformata in un'operazione glamour, estetica, dove i valori dell'architettura sono stati ridotti al minimo. Dagli anni Novanta ad oggi si è parlato più di Archistar che di architetture, questo processo molto legato alla comunicazione è il motore della svalutazione delle opere: si considera l'estetica e il consumo dell'immagine più del reale prodotto architettonico, le riviste sono piene di casi brillanti che nessuno ha mai visitato, ci basta vederle, ci basta l'immagine. La deriva di questa idea, porta alla vittoria della vista su tutti gli altri sensi. È come se avessimo impoverito l'architettura. Io mi sono sempre tenuto da parte in questo panorama, nel 1998 abbiamo partorito diverse proposte attente ai temi dell'energia, della luce naturale, argomenti che di fatto sono fondamenti dell'architettura in generalenon di quella sostenibile, sempre ritenuta una “figlia minore” rispetto a quella più grande, simbolica, scenografica, con la A maiuscola. Oggi finalmente tutta questa apparenza non c'è più e si torna a parlare della sostenibilità architettonica che di fatto non è altro che la vera architettura.
 
Il manifesto della Biennale riporta l'immagine di una donna su una scala in un paesaggio deserto, che guarda un orizzonte più o meno lontano. Tralasciando per il momento che si tratti dell’archeologa tedesca Maria Reiche, simbolo scelto da Aravena per identificare la mission di questa Biennale, Le ripropongo la stessa domanda a cui il Presidente Paolo Baratta ha cercato di rispondere nell'intervento di apertura. Che cosa vede, secondo Lei, la signora sulla scala?
Io credo che questa sia un'immagine provocatoria e quanto più legata alla comunicazione di un'idea. Se devo volgere uno sguardo all'orizzonte, personalmente, vedo un mondo di povertà, di disuguaglianze sociali ed edilizie. Non vedo architetture ecco, quello mi sembra il problema minore. Vedo che lo stesso mondo che ha generato risorse, economie e ricchezze sconfinate ha prodotto la più grande differenza sociale, la più grande discriminazione di sempre. Il tema della disuguaglianza deve essere affrontato, perché non basta sedersi ad un tavolo e provare a immaginare le case per i poveri. Il mondo che abbiamo davanti è un mondo difficile in cui c'è un sacco di lavoro da fare, in cui l'economia e il vivere sociale devono cambiare e c'è un'architettura che non deve solo rispondere alla legge del profitto. Se vogliamo proprio dire la verità, lo stesso modello economico che ha prodotto architetture da sogno ha prodotto i più tristi poveri. Io più che salire sulla scala e guardare l'orizzonte pieno di problemi mi metterei davanti ad un bivio e mi chiederei: qual è la strada che devo prendere? Ci vorrà tempo perché dobbiamo disabituarci alla logica del profitto, di cui l'architettura è il fiore all'occhiello. Lo sviluppo delle città è sicuramente una grande occasione sociale e tecnologica ma è soprattutto un gigantesco motore economico. Dobbiamo stare attenti proprio alle conseguenze, tra cui ad esempio il sempre maggiore arricchimento dei centri cittadini a discapito delle periferie, dove per altro sono costretti a migrare gli abitanti a causa dell'inaccessibilità economica degli immobili nel cuore urbano. I temi della pianificazione, del diritto all'abitare, della sostenibilità edilizia, del risparmio energetico, dell'ecologia, sono tutti sul tavolo ma ancora non abbiamo cominciato a lavorarci, nel concreto.
 
Come può l'architettura fare attenzione ai bisogni e alle necessità del territorio in cui si insedia e contemporaneamente soddisfare le leggi di mercato e le imposizioni politiche?
Gli architetti devono innanzitutto essere consapevoli che l'architettura può cambiare la vita delle persone. Questo è un atto di responsabilità a cui non tutti rispondono. Noi lanciammo dieci anni fa l'idea della casa a basso costo, la famosa “casa a 100.000 euro”, case prestanti e belle che costavano poco. Quest'idea era nuova, utile e non dava fastidio a nessuno politicamente. Il mercato doveva però ancora consolidare la richiesta di simili strutture. Abbiamo realizzato progetti anche in Paesi Esteri in cui l'architettura fa davvero la differenza, perché dà dignità, perché raccoglie l'acqua, perché crea isolamento termico, perché i ragazzi possono studiare in condizioni di confort. Questo significa rispondere ai bisogni del territorio. Poi attenzione, non possiamo avere la presunzione di operare ovunque, noi non siamo committenti siamo fornitori, gli architetti risolvono problemi ma è chiaro che c'è qualcuno che ce li pone. Dobbiamo rispettare queste dinamiche essendo propositivi. Devo dire che oggi anche le piccole amministrazioni stanno cominciando a porsi nuove domande, a correre nella nostra direzione, d'altra parte anche la popolazione sta lamentando nuove emergenze sanitarie, quella della qualità dell'aria ad esempio. Questo è il momento in cui sono cambiate le conoscenze, ora devono cambiare anche le coscienze.
 
7)L'architettura sostenibile si propone come “bene comune” in quanto dovrebbe portare beneficio al singolo e alla comunità, mettendo sullo stesso piano il fattore umano e quello ambientale. Pensa che si possa affrontare questo discorso su scala globale o ci siano invece terreni più fertili di altri?
Dal mio punto vista i Paesi che maggiormente reagiscono allo stimolo dell'architettura sono quelli
più poveri, o quantomeno quelli che hanno meno risorse. Quelli che l'Occidente chiama “Paesi del Terzo Mondo”, molti Paesi africani, una parte del Sud America o alcune zone del Sud-est asiatico, sono Paesi che per crescere devono fare uno sforzo e impiegare le risorse in maniera molto più intelligente di noi, che invece abbiamo sempre una risorsa sul tavolo e possiamo permetterci di far funzionare un'architettura a tutti i costi perché le forme di energia a nostra disposizione corrono ai ripari. I principi fondamentali dell'architettura vengono fuori nei luoghi in cui dobbiamo ritrovare un legame con l'ambiente per poi sfruttarne le potenzialità. In Occidente per quarant'anni abbiamo costruito edifici sigillati, dal microclima perfetto, di cui possiamo controllare tutto quello che c'è dentro ma assolutamente estranei al contesto. Se trovassimo un rapporto di complicità la tecnologia servirebbe molto di più. Quest'attitudine ce l'hanno i Paesi in cui le risorse sono sane, non noi. Lei sa che se non realizza un edificio energicamente performante ha perso 15 punti su 100? Sulla base di certificazioni che a volte si tarano sulla forza tecnologica? Il fattore umano e quello ambientale non sono sullo stesso piano, l'obiettivo è portarli ad esserlo.
 
Mi può parlare dell'organizzazione BGF (Building Green Futures)? Quali sono le linee guida che segue nella progettazione del futuro di qualcuno, specialmente nei Paesi in via di sviluppo?
“Building” vuol dire “edificio” ma vuol dire anche “costruire”. Questo gioco di parole indica la nostra volontà di costruire un futuro più verde, impiegando la conoscenza che abbiamo accumulato in questi anni nel costruire nuove possibilità per le persone. Abbiamo lavorato per l'Unesco o per l'ONU, abbiamo redatto le linee guida dell'Expo 2015 insieme alla Fondazione Ambiente Milano. BGF nasceva sostanzialmente sulla scia del progetto in Gaza, sposando l'idea della cooperazione come condivisione di conoscenza. La sperimentazione sul campo era la priorità e così è stato. In alcuni paesi portiamo conoscenze e tecnologia ma riceviamo sempre qualcosa, è sempre uno scambio alla pari. Molte competenze riguardo la già citata empatia tra architettura e ambiente provengono proprio da questi Paesi, che insegnano a noi cose che ci sono sfuggite.
 
Lo scorso 19 Aprile il Ministero dell’Istruzione - Università e Ricerca, unitamente a ENEA e al Ministero dell’Ambiente, ha pubblicato la prima guida all’efficienza energetica degli edifici scolastici. Parliamo del suo progetto “The Kuwait School in Gaza”. Quali benefici porterebbe questo edificio in termini ambientali, energetici e sociali?
La maggior parte degli edifici scolastici in Gaza sono costruiti con materiali economici, parliamo di costi intorno ai 350 dollari al mq al massimo. Le risorse sono quelle. Noi abbiamo interpretato questo limite come un'opportunità: le poche risorse possono fornire delle risposte. Nessun edificio ad esempio raccoglie l'acqua piovana, nonostante la scarsità di acqua. Noi l'abbiamo realizzato. Abbiamo impiegato un'antica tecnica di ventilazione che costringe l'aria a passare nelle fondamenta dell'edificio, raffreddandosi, per poi essere richiamata in superficie attraverso un camino solare, aumentando così la saturazione dell'aria nelle aule. Le statistiche parlano chiaro: i bambini imparano meglio se sono in condizioni di confort. Con 45 gradi chiunque farebbe fatica a mantenere l'attenzione. Il cambiamento sta nella tecnologia hardware ma sta anche nel software. Il vero problema è il cambiamento culturale, che implica il cambiamento di conoscenza. Se vogliamo imparare il nuovo e impiegarlo nell'immediato futuro dobbiamo abbandonare quello che abbiamo imparato venti o trent'anni fa. Cambiare le conoscenze sull'impiantistica, sulla ventilazione, le abitudini sanitarie o culinarie, genera una difficoltà enorme. Questa è la sfida che le nuove generazioni hanno colto più della mia, o quanto meno in età più precoce.