L’arte non è un angelo, semmai una talpa
L’anno si apre con una lunga conversazione con Flavio Favelli, artista fiorentino, ma bolognese di adozione. La sua idea di Arte è intima e personale, quasi una autobiografia impersonale, ma così forte ed evocativa in dialogo con immagini che si esprimono sia nelle sue opere che nelle sue parole
Le immagini che si accumulano e diventano ingombranti, i ricordi troppo importanti per lasciarli scivolare nell’oblio: un’Arte personale che sceglie volta per volta come esprimersi liberamente, priva di finalità e condizionamenti e ricostruisce spazi di intimità che parlano una lingua universale. Conversare con Flavio Favelli è vivere un momento di risonanza. Il tempo è secondario a fronte dello spazio delle immagini parlanti che scrivono una grammatica esistenziale.
L’ultima volta che ci siamo visti eravamo ad Artissima dove sei stato impegnato nell’area Per4Form con Tango, ispirata a Diego Armando Maradona. Ti abbiamo visto in un veste insolita rispetto al tuo percorso di ricerca, su un palco con un’azione dal vivo, e non solo con la presenza di opere nello stand delle gallerie che ti rappresentano. A latere, hai fatto una riflessione molto importante sul senso e l’evoluzione delle fiere di arte contemporanea che vorrei che tu riprendessi qui.
Sì, ricordo che all’inizio le fiere di arte contemporanea erano più semplici ed immediate. Non c’era l’idea dell’evento pieno di manifestazioni come adesso. Oggi le fiere stanno diventando più importanti delle mostre in galleria e nei musei. Il mondo dell’arte si dà appuntamento in queste occasioni. Tutti hanno sempre meno tempo e vanno alle fiere dove si vede tutto in una volta sola. La sovra-esposizione delle opere in fiera non è mirata a una corretta fruizione del lavoro e conoscenza dell’artista, bensì alla quantità e disponibilità degli oggetti per moltiplicare le occasioni di acquisti: è il fine della fiera, ma sembra che esista solo quello.
Negli anni ho raccolto le mappe degli stand che mi danno le gallerie prima di ogni fiera, che sono sempre rettangolari e a volte quadrate, sempre poco prima dell’apertura… Le mie opere sono allestite diversamente da come le ho pensate. Qui in fiera ho trovato una luce diffusa che disturba la mia opera luminosa. Certo si poteva oscurare lo stand, ma non volevo una specie di cappella col sancta sanctorum. Si scende in qualche modo a un compromesso. Ma temo purtroppo che la leggibilità dell’opera, oltre che la sua autonomia, sono da tempo messe in discussione, sotto le pressioni dell’evento.
Nelle tue parole percepisco un’intenzione di militanza, che si oppone alle logiche del sistema di accreditamento e commercializzazione. È così?
No, non è così, non mi oppongo. E’ importante essere consapevoli. Faccio opere d’arte perché le vedo nella mia mente. Quando sono nel ruolo di artista non ho questioni etiche e morali, non me le pongo e sono diventato artista perché le immagini che avevo e i ricordi erano troppo grandi, troppo importanti, mi ci dovevo mettere. Quindi alla fine non sono né militante, perché non ho eserciti e né compagnie e nemmeno mi oppongo al sistema. Diciamo che scelgo volta per volta. Alla fine le mie questioni sono sempre personali.
L’arte è una questione parallela alla mia vita di cittadino. Per me non esiste un’arte buona o positiva, l’arte è se stessa e, come dice Perniola, è insieme una meta-arte e anti-arte. Non c’è né bene né male nell’arte. L’arte che serve per un fine, non mi piace e spesso mi inquieta. Si rischia poi di andare nel senso della religione, sempre alla ricerca di un senso positivo, di un bene. Ma da tempo, qualcuno ha detto, l’arte non è un angelo, semmai è una talpa.
Un’analogia forte di questi tempi... Cosa intendi esattamente?
Vedo che l’Arte Pubblica la fa da padrone, sono tutti a chiedere oltre la relazione col contesto un senso preciso, una direzione, che abbia a che fare con un bene diffuso, comune. L’opera deve servire a qualcosa, deve essere compresa dal pubblico. Se poi non si dialoga con la città, che in Italia vuole dire Storia dell’Arte, non si va da nessuna parte. Guarda Firenze, in grande spolvero, tutta l’arte contemporanea a relazionarsi col suo grande Passato. A Bologna è ancora in corso una mostra, che ho commentato con un articolo “l’Arte ossequiosa”, su La Repubblica edizione di Bologna, di Nicola Samorì “Gare du Sud” all’interno del Teatro anatomico dell’Archiginnasio. Il comunicato stampa mi ha sorpreso. Si parlava del progetto con riflessioni di uno storico del cristianesimo, uno storico della medicina e alcune righe di Jean Clair, e a corredo c’era una foto della sala, invece che dell’opera d’arte. L’opera stessa si era dissolta per dare rilevanza al Teatro anatomico. Ecco, questo è un buon esempio di come si vive l’arte contemporanea oggi in Italia. L’artista contemporaneo si presta ad attivare un’azione rivolta alla rilettura di uno spazio storico, in questo caso di una sorta di cattedrale laica che sposa Arte e Scienza, a discapito del senso e autonomia della sua opera, che dovrebbe emergere invece con forza. L’Arte dunque dovrebbe relazionarsi con fare ossequioso nel confronto con il Passato, tanto da diventare secondaria se non pretestuosa. Sembrerebbe che l’unica arte contemporanea ammissibile debba necessariamente relazionarsi al Passato, diventando strumentale per valorizzare questa tradizione, invece che leggere il presente.
Quanto pesa la tradizione nel tuo percorso di ricerca?
Sono nato a Firenze, nella Parrocchia di San Lorenzo, sono cresciuto con l’arte italiana. Se penso a Firenze nelle foto degli anni Venti e le confronto con una panoramica di oggi, non vedo in certi luoghi tanti cambiamento nel profilo della città. Nessuna evoluzione o trasformazione. Come San Pietro a Roma, uno dei pochi luoghi –spazi al mondo rimasto uguale, quando vado fra le due fontane mi sembra di avere sette anni, la prima volta che mio padre mi portò a Roma.
Vedo che poco fa hanno proiettato sulla basilica delle immagini della Natura che sta scomparendo, le uniche immagini ammesse (su San Pietro!) sono utilitaristiche.
Cresco fra due figure che interpretano il Passato, mia madre, professoressa di Lettere appassionata d’Arte, e mio padre, ferroviere, visionario e innovatore. I conflitti familiari che mascheravano altre problematiche intime, si inscenavano intorno a discussioni politiche e artistiche, dimensioni che porto indissolubilmente nella mia opera. Fin da bambino ho visitato le mostre e tutti i principali musei di Arte europei. Invece che giocare a pallone come molti miei coetanei, seguivo mia madre nei suoi viaggi di istruzione. Nel 1980 mi ha portato addirittura a Mosca, passando per una comunista pur di andare in Russia.
Fino al 1993-’94 pensavo di stare in Università e continuare gli studi orientali come ricercatore, ricordo bene una mia recensione sugli Annali di Ca’ Foscari, molto tecnici e specifici, per amore dello studio. L’Arte per me dunque è una ricerca mai slegata dalla mia vita che è stata segnata da eventi familiari molto forti dove l’Arte ha un peso e che ho vissuto in modo ambiguo. Ad un certo punto ho avuto l’esigenza di mettere ordine a tutte queste immagini e ricordi così densi e tentare comprendere meglio il tutto e vedo che non mi sta bastando una vita. Lavoro a tempo pieno, ma più che lavoro (non mi è mai piaciuto chiamare lavoro l’opera) è un’occupazione metafisica. Cioè posso dire che vivo la mia realtà, le mie urgenze, il mio punto di vista come assoluto. Prima di tutto ci sono le mie immagini che sono solo apparentemente relative alla mia esperienza personale e diventano assolute; voglio dire che un collage con una tabella di latta di gelati da spiaggia oltre ad essere un punto di vista su un mio ricordo e sulle immagini suadenti degli anni settanta e ottanta, in fondo è un’operazione che rovista fra i desideri di staccarci dalla radiazione, dai legami familiari, dalla voglia di trasgredire, un bastoncino di legno con del ghiaccio chimico colorato ci faceva sentire più liberi. Le immagini seducono e cambiano la storia. La gente voleva i prodotti, voleva vivere una nuova vita con dei nuovi prodotti. A volte penso e parlo come gli slogan della pubblicità degli anni settanta e ottanta, sono immagini e suoni che trascendono, sono più veri di qualsiasi altra cosa. Cosa ci può essere dopo un proclama che si chiama TV Sorrisi e Canzoni?
In quanto artista cerchi la tua personale storia delle immagini, raccogliendo, assemblando e re-interpretando gli oggetti negli spazi, per restituire significati nuovi, inediti. Ma parli anche di esperienze di scrittura. Che valore hanno la scrittura, la letteratura dal tuo punto di vista?
Considero la pratica della scrittura come parte della mia opera.
Recentemente ho scritto un testo in una specie di strana guida di Rosarno, - c’è anche un testo di Salvatore Settis- con il tentativo di restituire una complessa immagine della cittadina, e lo considero un’opera d’arte per il fatto che uso lo stesso procedimento di quando ho in mente un’opera d’arte visiva. Mi ricordo bene un testo, su un mio progetto permanente a Venezia, che scrisse Mario Fortunato, che indagava anche il rapporto con mio padre. Il committente, l’Anas, ritenne necessario chiedere la presenza di uno storico dell’arte all’interno della pubblicazione; la sua presenza era richiesta come garanzia che il progetto fosse Arte e quindi con una certa continuità con la sua storia…
Non so se la Letteratura sia più…sovversiva dell’Arte. Le parole forse hanno un potere evocativo ancora più forte delle immagini (una volta l’ha detto Emanuele Trevi in un incontro pubblico che abbiamo avuto). Forse è per questo che ho fatto opere con scritte e insegne…
Dicevo dello stesso procedimento: quando scrivo e quando penso ad un’opera attuo un simile processo di ricerca delle immagini che sono come sospese e mi accompagnano, le considero quasi increate, sono quelle della mia infanzia.
Che cosa rappresentano gli oggetti per te?
Fra il 2003 e 2004 ho realizzato una mostra alla Galleria Maze di Torino.
Si chiamava La mia casa è la mia mente e tracciava subito dei confini precisi della mostra e del mio punto di vista. Nella mostra avevo agito una serie di trasformazioni ambientali, cambiando anche l’illuminazione della galleria, cercando di ricreare un’idea, un qualcosa che avesse a che fare con quei lampi che a volte mi attraversano, quei ricordi così amari e dolci allo stesso tempo.
L’oggetto è la manifestazione di un potere veramente inesauribile, ma forse perché da figlio unico, solo in case stracolme di cose ho sempre parlato con loro perché non c’era nessun altro e le vicende che ho vissuto sono state accompagnate da questi oggetti diventandone delle nuove realtà della psiche.
E’ tutto psicologico, è tutto un gioco di specchi e immagini con a volte timbri di voce che non si possono più dimenticare; ma fare opere con questa scia magica vuole dire anche fare di ricordi di ricordi che diventano nuove cose e deteriorano quelli originali, ammesso che se ne possano avere.
La mia ossessione per i lampadari e i pavimenti, ho scoperto negli anni, non è altro che la traccia di un’esperienza vissuta quando ero bambino: cioè che stava in messo non era sopportabile, il mio sguardo si rifugiava in alto o in basso.
Borges diceva che il lavoro creativo è sospeso tra la memoria e l’oblio. Quanto pesa la memoria nel tuo lavoro così carico di significati della nostra storia recente?
Più che memoria, io parlo di ricordo, perché sono legato a questo, la memoria ha una valenza collettiva da cui sono forse distante. Ma la forza dell’opera sta nella sua ampiezza e nell’imprevedibilità del suo significato. Ad esempio il grande pannello Gli Angeli degli Eroi che ho presentato al MAXXI e che contiene tutti i nomi dei militari caduti all’estero nel periodo della Repubblica Italiana, deve al mio ricordo di alcune foto di mio nonno in abbigliamento militare. La seduzione di quella compostezza, la forma e i significati inquietanti legati a quella divisa, che rimandano alla guerra, mi ha fatto pensare ad un’opera che ruotasse attorno
a questo mondo incommensurabile, così distante, ma così decisivo. L’opera è stata esposta in piazza del Quirinale e commemorata dal Presidente della Repubblica per la cerimonia del 4 Novembre scorso e ho incontrato i familiari delle vittime in contesto ufficiale. Il mondo militare, l’ordine, l’equilibrio, l’ambiguità che si sposano con la forma, l’estetica, l’Arte. Da un’immagine privata è venuta fuori un’opera pubblica scelta per rappresentare lo spirito di una nazione.
Quale l’ambiguità a cui ti riferisci?
L’ambiguità è che pensiamo che siamo il bene, con la nostra cultura, la nostra civiltà, la nostra arte e invece è proprio l’arte, il bello che è un ingrediente immancabile nella guerra che ci accompagna dalla Bibbia e dall’Iliade, i testi su cui ci siamo formati. L’arte del Novecento, poi, ha uno spirito rivoluzionario e anche l’arte contemporanea lo sembrerebbe per natura.
Tutti gli artisti di oggi recitano il ruolo di un certo antagonismo verso il potere politico e istituzionale (ma non quello economico, come le fondazioni…); l’artista si sente in qualche modo impegnato e ama un ruolo un po’ da intellettuale e da figura dell’intellighenzia, anche se partecipa con grande passione al mondo del mercato e rivendica una certa militanza anche se sembra sempre un atteggiamento, più che una presa di posizione. Il mondo militare rappresenta ovviamente il potere più arcaico e conservatore che ha grande difficoltà ad incontrarsi con gli ideali civili della contemporaneità, anche se poi di fatto fa un lavoro sotterrano e sporco che ci permette, soprattutto in questi ultimi tempi, di percepirlo come una sicurezza. Ma per me che come artista non mi pongo nessuna questione davanti alle mie necessità, mettere le mani in queste zone grigie significa continuare a scandire fino in fondo l’ambiente dove sono nato e vissuto: quello della borghesia. Quando indago temi collettivi che segnano la storia del Paese (Missioni di Pace dell’Esercito e Strage di Ustica) non sono mosso da nessun interesse generale, storico, ma da un motivo personale che attraversa poi questi eventi. In questi casi è la mia poetica che da questione privata -io e il mondo militare, io e quella foto nera vista insieme a miei nonni sul Resto del Carlino del 29 giugno 1980- diventa questione più ampia e non autoreferenziale perché è questo il ruolo dell’artista: in certi casi una questione intima ha il potere di rappresentare la collettività.
Inaspettatamente Gli Angeli degli Eroi ha interessato il Ministero della Difesa e mi ha portato quel 4 Novembre a stringere tante mani callose come non ne avevo mai incontrato: le famiglie delle vittime sono composte da semplici lavoratori e braccianti. Segni antichi che si intrecciano con usi attuali: molte persone indicavano con la mano il nome del defunto sull’opera e posavano per una foto ricordo (tragico!) fatta con lo smartphone.
Torniamo alle immagini e alle parole. Prima facevi un’analogia fra Arte e Religione…
E’ che l’arte cerca delle finalità, come la ricerca dell’uomo clero religioso.
Non dico umanità religiosa, perché riconosco che la questione è complessa, sebbene io senta di essere distante dal mondo religioso (a pensare bene, poi, passare esistenza fra lattine, barattoli, specchi, lampadari, soprammobili, ceramiche, francobolli, adesivi e mattonelle, cos’è?)
Finalità alte, utili. L’opera invece va difesa. L’opera parla di per sé senza intermediazioni. Bisogna difendere l’immagine che è così molteplice, con livelli di lettura complessi e articolati, bisogna mettersi ad ascoltare l’opera. Non è possibile che la critica oggi faccia come la politica che chiede insistentemente: a cosa serve?
Da ambienti intimi a azioni pubbliche sui muri. Dove trovi il filo conduttore?
Ho memoria visiva, amo le insegne, le scritte al neon, le marche.
Mi piace vedere in grande le scritte e le immagini pensate per la mia città ideale, personale ed esclusiva. Come se fosse una città vuota, è uno spazio dell'intelletto, solo che la città non può essere personale ed esclusiva e quindi poi mi devo relazionare con chi ci abita o banalmente con chi passa per la strada. Ho fatto degli interventi su muri ultimamente a Rosarno, Iglesias e Cosenza.
E un modo più che di operare di pensare e di vivere l’arte, alla fine porto il mio mondo, insomma il vero lavoro è portare il proprio mondo interno all’esterno.
Quanto pesa la ricerca dell’alterità nel tuo lavoro?
Quando studiavo Storia Orientale avevo scelto di orientarmi sul Medio Oriente, perché Giappone e Cina non mi interessavano. Specialmente su Israele anche per la presenza di temi culturali robusti. Ora sono immagini lontane, ma non del tutto assenti nel mio lavoro. L’esotismo poi è da sempre una grande tema dell’arte e andare a cercare immagini lontane forse non era per il forte interesse che loro mi destavano, ma per il grande bisogno di andare in qualche modo lontano, perché il vicino era troppo pesante. Il Sud Italia è un grande terreno di alterità e infatti è una meta che frequento spesso. Amo la desolazione ordinata, quel degrado composto con pochi colori che ha solo immagini aperte e che trovo solo al Sud.
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L’età dell’estremismo di Marco Belpoliti.
Flavio Favelli, La Vetrina dell’Ostensione VI, Oratorio San Filippo Neri- Bologna, 2014, foto Dario Lasagni
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