L’arte ha bisogno dei banchieri?
Firenze. La forte congiunzione tra arte, denaro ed eventi sociali non è diventata evidente solo nel settembre 2008, quando Damien Hirst ha dichiarato il guadagno di 111 milioni di sterline dalla vendita della sua asta personale a Sotheby’s mentre Lehman Brothers falliva, scatenando la crisi finanziaria che ci affligge ancora oggi.
Il mese scorso, mentre il nuovo governo tecnocratico italiano faticava a mettersi in piedi, 100 finanzieri, imprenditori, collezionisti, curatori, operatori e accademici si sono riuniti presso Palazzo Strozzi a Firenze per una conferenza privata sul futuro del rapporto tra arte e finanza. Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, dirigenti della Banca Centrale Europea, della Federal Reserve, della Banca Nazionale Svizzera, l'amministratore delegato di Sotheby 's Bill Ruprecht, l’ex direttore del Guggenheim Thomas Krens, che ora gestisce il proprio Global Cultural Asset Management, sono solo alcune delle influenti personalità che hanno speso 24 ore per condividere la loro saggezza in termini di finanza e la loro preoccupazione per il mercato dell'arte.
Lo spunto è stata, giustamente, l’ultima grandiosa mostra di Palazzo Strozzi «Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli, e il falò delle vanità». Il suo occhiello: «Senza banchieri, nessun Rinascimento» è stato un sottotesto adatto al forum organizzato da James Bradburne, il dinamico direttore della Fondazione Palazzo Strozzi. La mostra racconta elegantemente la storia dell'ascesa di Firenze come centro finanziario e la sua fioritura parallela come centro artistico. Qui non c’era alcun dubbio rispetto al connubio tra arte e denaro, ma il torvo ritratto del sacerdote Savonarola condannato a morte, ci ricorda che anche i Medici affrontarono la loro crisi. A Firenze è stata inventata la lettera di cambio, un complesso strumento finanziario derivato, per aggirare l’opinione della Chiesa secondo cui fare soldi dai soldi significava usura: un pensiero fortemente attuale.
Dal momento che il convegno è stato a porte chiuse, non posso riportare chi ha detto cosa, ma è certo che Firenze non sia più la potenza culturale e finanziaria che è stata nel XV secolo. La preoccupazione di oggi è rappresentata dal fatto che il potere finanziario e culturale sta passando da ovest verso est. La Cina è diventata il più grande mercato per l'arte, sia asiatica sia occidentale, ma anche il Golfo, l’India, Singapore e Taiwan hanno liquidità e potere culturale. Il dibattito si è sviluppato dunque sulla questione se i centri finanziari divengano necessariamente anche centri culturali. Per dirla con le parole di un delegato (che certamente sapeva di cosa stava parlando) tutti sono stati d’accordo sul fatto che «l’arte traccia il denaro e il potere».
I piani di Abu Dhabi possono essere messi in attesa, ma non vi è alcun dubbio circa la crescita della Cina. Questo è stato confermato dal collezionista di Pechino Li Guochang, titolare del privato Wall Art Museum e della rivista che ha opportunamente intitolato «Art Bank». Avevamo già sentito della riforma culturale del governo cinese lanciata all’inizio dell’anno per rendere la cultura un «un nuovo settore pilastro» dell’economia cinese, destinato a più che raddoppiare il contributo delle industrie culturali al 5% del PIL della Cina entro il 2016. In sala c’era un certo scetticismo circa le condizioni per stimolare la creatività in Cina (pensiamo al caso di Ai Weiwei), ma almeno un delegato asiatico era pronto a sfidare «l'arroganza culturale nella stanza». Il successo di mercato non è garanzia di qualità artistica (la reputazione di Damien Hirst è stata a lungo discussa), e in ogni caso i modelli occidentali non sono automaticamente quelli corretti.
A parte l’evidente preoccupazione sulla Cina, all’incontro sembra ci sia stato un certo autocompiacimento sul modo di operare in Occidente. Si è discusso ben poco di quali siano i veri meccanismi del mercato internazionale dell'arte. Ma c'era un delegato pronto a essere un «Savonarola», e di andare, solo, a fondo della questione. Bijan Kherzi, residente in Svizzera, è un finanziere e un appassionato collezionista d'arte contemporanea. Questo ha dato un peso alle sue parole che raramente i critici accademici possono avere. Secondo Kherzi il mondo dell'arte «è stato dirottato dalle stesse forze che hanno avvelenato il mondo della finanza: l'avidità, l’ottica di breve termine che porta a inflazionare il bene, la collusione di mercato, la mancanza di sostanza e troppi individui padroni di sé».
Diversi collezionisti hanno messo in chiaro che collezionano per passione, non per investimento, ma la presenza di così tanti «uomini di denaro» potrebbe spiegare perché la discussione intorno ai finanziamenti pubblici per la cultura (che si traduce nella domanda «Come il finanziamento pubblico può sostenere gli investimenti privati nell’arte?») non è andata molto lontano.
Ora è chiaro che i finanziamenti pubblici stiano vivendo un declino inevitabile, e che necessitiamo di nuovi modelli. Questa è stata l'occasione per James Bradburne di puntare i fari sulla posizione unica in Italia della Fondazione Palazzo Strozzi. Fondata nel 2006, è frutto di un partenariato pubblico-privato tra il Comune e la Provincia di Firenze, la Camera di Commercio e un gruppo di finanziatori privati, istituito per rianimare gli spazi espositivi e la programmazione di Palazzo Strozzi, che ospita anche altre tre istituzioni culturali. Bradburne ha sottolineato che, caso strano per l'Italia, la Fondazione opera a debita distanza dai suoi finanziatori pubblici, come un vero laboratorio culturale per la città.
Anche qui, naturalmente, bisogna leggere tra le righe. Firenze ha perso quote di mercato come destinazione turistica, e la missione della città è quella di migliorare la vita dei suoi cittadini, allontanandosi dal turismo di massa «mordi e fuggi» che affligge, per esempio, Venezia. Rendendo la città migliore per chi ci vive, i turisti vorranno rimanere più a lungo e tornare più spesso.
La Fondazione Palazzo Strozzi (che in questo periodo espone anche la stimolante mostra contemporanea «La democrazia in declino: ripensare la democrazia tra utopia e partecipazione») intende riportare Firenze al centro. Questo è stato dimostrato in modo chiaro dalla celebrazione a Palazzo Vecchio di Ted Turner come primo «uomo rinascimentale dell’anno», il premio istituito dalla Fondazione Palazzo Strozzi-USA. Turner, il fondatore della CNN, l'uomo che ha pagato i contributi statunitensi alle Nazioni Unite, il marinaio, il proprietario di catene di ristoranti e protettore dei bisonti, ha fatto un discorso appassionato sul bilancio militare del pianeta, invocando «un nuovo Rinascimento» di saggezza ecologica, e ha concluso il suo discorso con la serenata «Old Kentucky My Home».
Ci si chiede cosa Savonarola avrebbe pensato di tutto questo.
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da The Art Newspaper, edizione online 24 novembre 2011
Robert Hewison è professore di politica culturale e studi di leadership alla City University di Londra
Traduzione di Chiara Tinonin