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L’Arte in gioco

  • Pubblicato il: 16/12/2018 - 10:00
Autore/i: 
Rubrica: 
MUSEO QUO VADIS?
Articolo a cura di: 
Catterina Seia

L’arte è un gioco
Il gioco dello spirito
Il maggior gioco dell’uomo
Jean Dubuffet, 1945

 
A margine dei convegni si fanno incontri spesso sorprendenti. A Lucca, dopo una conferenza su Cultura e Welfare al Lubec, il Presidente della Fondazione Palazzo Magnani di Reggio Emilia, Davide Zanichelli mi avvicina “Ci vogliono delle alleanze tra discipline. Lavorare nella frammentazione, con un pensiero riduzionista rispetto alla complessità, arroccati nella presunta autonomia dei saperi, ha determinato la disgregazione dell’idea dell’uomo come unità di senso. Il benessere non è disgiunto dalla formazione, dall’educazione. Secondo me la grande sfida delle istituzioni culturali, in particolare noi che ci occupiamo di arte, è proprio quella di riuscire a riunificare i saperi. Come istituzioni culturali dobbiamo essere piattaforma di innovazione sociale, in rete con altri soggetti che si occupano di welfare. Per un unico progetto di territorio”. Confortante. Ci confrontiamo con lui nel corso della splendida mostra su Jean Dubuffet, “L’arte in gioco”, la prima grande retrospettiva completa sull’autore, dopo trent’anni.
Rubrica in collaborazione con la Fondazione Marino Marini di Firenze
Reggio Emilia. La Fondazione Palazzo Magnani ci regala l’arte totale di Jean Dubuffet (1901-1985) con una grande mostra curata da Martina Mazzotta e Frédéric Jaeger. 140 i lavori presentati, realizzati dall’autore oltre a quelli da lui attentamente collezionati, prodotti da malati di mente (scelti dallo psichiatra Giorgio Bedoni). Una raccolta di “arte degli innocenti” avviata dopo le distruzioni umane e spirituali della seconda guerra mondiale, donata da Dubuffet nel 1971 alla città di Losanna: un primo nucleo di un museo dell’Art Brut voluto da un “homme-orchestre”, come dicono i francesi, in grado di suonare più strumenti e farli suonare insieme. Artista tardivo -iniziò a 41 anni- fu cultore della filosofia, della poesia, della letteratura e della musica. Pitture, sculture, architetture, scenografia, perfomance come Cou-cou Bazar. Opere primordiali dapprima incomprese, definite da Michel Tapié, “art autre”, arte che si mette in gioco,anticipando di decenni la libertà della street art. Perché una mostra di Art Brut a Reggio Emilia? Ne parliamo con Davide Zanichelli, Presidente della Fondazione Palazzo Magnani.
 
Sul vostro sito siete chiari in un posizionamento forte. Uno statement. “Reggio Emilia è già da tempo posizionata a livello nazionale come una delle città più attente alla persona, alle sue necessità nelle diverse fasi della vita, alle fragilità che la segnano, permanentemente (come le persone disabili) o temporaneamente (come i migranti). Crediamo che l’arte debba avere un ruolo importante nel percorso di supporto, recupero o trasformazione del disagio”.
Scegliamo i contenuti in relazione alla strategia di sviluppo del territorio portando una specificità di linguaggio e contenuto. Non ospitiamo mostre preconfezionate. Le produciamo. Abbiamo scelto Dubuffet per il suo lavoro su bambini e creatività, sui linguaggi e soprattutto sui linguaggi della differenza, dei differenti, dei marginali, degli outsider. Reggio ha una vicinanza al tema. Il Centro di documentazione e storia della psichiatria è uno dei più importanti d'Europa di storia e di ricerca sulla connessione tra creatività e psichiatria. All’ospedale di S. Lazzaro hanno lavorato i più grandi psichiatri tra ‘800 e ‘900, come Giovanni Jervis, con Franco Basaglia protagonista di quella grande battaglia di civiltà che fu la chiusura dei manicomi. Sono circa25mila le opere di arte outsider in corso di catalogazione. Portare in città Dubuffet è stata una conseguenza diretta della volontà di lavorare su un patrimonio territoriale, di valenza nazionale, utile a leggere la contemporaneità. Abbiamo trovato un'equipe di curatori in grado di produrre una mostra di caratura internazionale su Jean Dubuffet che non vedevamo in Italia, così ricca, da trent’anni. La qualità è un pre-requisito.
Questa mostra ci consente di lavorare con la città sulla relazione tra istituzioni e creatività, sulla creazione di un contesto fecondo per i giovani creativi. Sono riflessioni che Dubuffet ha avviato, in modo provocatorio e critico, ma che ci offrono attualissimi argomenti di discussione.
 
Come avete ingaggiato il territorio?
Condividiamo la visione con la pubblica amministrazione e con i soggetti che si occupano di welfare. In primis con le Farmacie Comunali Riunite
, l’azienda speciale che gestisce 30 farmacie e servizi di welfare territoriale. E’ presieduta da una vera forza della natura, Annalisa Rabitti, una manager che viene dal mondo del design, scesa nel campo del bene comune. La risposta è stata immediata. Il progetto “Reggio Città senza Barriere”, di cui Rabitti è anima, sta generando una rivoluzione culturale, sta ribaltando il punto di vista sulla fragilità in città con percorsi di autonomia che sono dirompenti rispetto all’approccio prestazionale dominante.
 
Una città  senza barriere significa qualità della vita per tutti. Siamo stati ospiti a La Polveriera,un luogo immaginifico di elaborazione di una nuova cultura sociale, di aggregazione,che sorge da un progetto di rigenerazione urbana, al quale dedicheremo approfondimenti.
Perno della progettualità è il “design for all”. Prodotti e servizi migliori per tutti, per i più deboli ma anche per una popolazione che invecchia. Prima o poi ognuno di incontra la fragilità nel corso della sua vita.

La Polveriera fa parte del progetto strategico di rigenerazione urbana delineato dal Comune di Reggio per il quartiere Mirabello. Questo “spazio alla portata di tutti” è nato dal Consorzio Oscar Romero e delle cooperative sociali Coress–Il Piccolo Principe, L’Ovile, Elfo, Dimora d’Abramo, Anemos, Nuovo Raccolto, insieme ad altre imprese, associazioni ed enti del territorio.
Oggi, dopo solo due anni e le naturali resistenze iniziali, è un luogo che ospita una miriade di realtà, simbolo della coesistenza, un caleidoscopio di esperienze, di attori, nel quale operano associazioni e cittadini, cooperative sociali che si occupano di empowerment delle persone fragili: anziani, disabili, migranti, donne vittime di tratta, detenuti, inserendoli al lavoro e nella società attraverso la creatività. In un unico luogo rinato convivono ristorante, bookshop, atelier, sartoria in cui operano, stimolati da designer e stilisti che garantiscono la qualità, persone che non pensavano di essere una risorsa. Un luogo aperto alla città, al servizio dei cittadini e in modo particolare alle fasce deboli di prossimità. Un luogo in cui le arti sono di casa. E oggi, da luogo evitato che era, è diventato molto “cool.
 
E’ un nuovo modo di pensare e progettare.
Un esempio concreto sono le mostre di Palazzo Magnani. Abbiamo lavorato su tre livelli. Il primo è quello, basic, dell’accessibilità degli spazi. Difficile, non perfetta come potrebbe esserlo in un edificio di nuova edificazione, ma non impossibile, anche in palazzi antichi come il nostro. Il secondo livello riguarda l’accessibilità dei contenuti: didascalie “tradotte” nel linguaggio della Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) grazie alla collaborazione con una associazione di genitori del territorio (GIS Genitori per l’inclusione sociale), didascalie pensate per bambini, opere tattili progettate insieme all’Unione Italiana Ciechi. Il terzo prevede l’inserimento lavorativo di persone fragili, a partire da disabili e migranti, nello staff di mostra. Il quarto, infine, quello più innovativo, l’attivazione di processi di co-design. Nel caso della mostra di Jean Dubuffet, insieme a Città Senza Barriere, abbiamo attivato, in un ambiente di Palazzo Magnani, il progetto “Io sono fuori”, dove ogni settimana ragazzi con diversi problemi, coordinati da un professionista della comunicazione e da un artista, lavorano a stretto contatto con le opere dell’artista francese. Un grande lavoro sulla maschera e sull’identità personale è stato il primo concreto risultato ottenuto nei primi giorni.
 
A Reggio opera anche l’artista relazionale Luca Santiago Mora, con il dipartimento di neuropsichiatria infantile e ora con gli adulti con MaxMara, l’azienda di Maramotti. Una vera scultura sociale. Siete riconosciuti internazionalmente per l’educazione. L’approccio Reggio Children della scuola dell’infanzia è diffuso nel mondo.
La Fondazione Reggio Children ha l’approccio di ricerca che ci appartiene e collaboriamo soprattutto sui laboratori. La mostra su Dubuffet offre molti spunti di lavoro per le scuole, a partire dall’utilizzo delle materie povere e dimenticate. Questa mostra sarà allestita per tre mesi ma è già una grande risorsa per gli educatori e per gli operatori del socio-assistenziali. Per loro e per coloro di cui si occupano. Oltre naturalmente che per le famiglie.
 
Persone con disabilità, educazione e famiglie. Prossimi passi?
La popolazione anziana. Ci metteremo presto in rete con le istituzioni che si occupano di servizi per gli anziani. Partiremo ora con un progetto pilota sull'Alzheimer seguendo la metodologia di Palazzo Strozzi. Abbiamo in staff una persona dedicata a questo progetto che si muoverà con l’Associazione Italiana Malati di Alzheimer di Reggio Emilia, con i loro psichiatri, psicologi, facilitatori. Ma dobbiamo farlo con una formazione specifica che Palazzo Strozzi è già in grado di erogare. E vogliamo strutturarci sempre meglio su questi temi.
Il nostro approccio guarda ai principi della salutogenesi: alle forze che aiutano la salute a mantenersi e a svilupparsi e non solo alla patologia che deve essere curata.
Intendiamo essere piattaforma, co-progettando per creare capitale sociale, mettendo a disposizione del territorio il portato simbolico, valoriale e metaforico, creativo delle opere che accogliamo temporaneamente.
 
Cultura per un nuovo Welfare. Lavorate anche sulla produzione contemporanea.
Parallelamente alla mostra su Dubuffet, in un altro spazio gestito da noi, il bellissimo Palazzo da Mosto, del ‘400 datoci in gestione la Fondazione di origine bancaria Manodori, lavoriamo con laboratori condotti da otto artiste contemporanee, tra le quali Claudia Losi. Allo stesso tempo con Martina Mazzotta e lo psichiatra Giorgio Bedoni, che ha curato la parte di Art Brut nella  mostra di Dubuffet, e con il coinvolgimento di Johann Feilacher, direttore del museo Gugging di Vienna, abbiamo portato valore un altro dei progetti di Annalisa Rabitti: B. Diritto alla Bellezza.
 
Tante risorse in campo, tutte connesse.
Oggi abbiamo una duplice urgenza. Una metodologia per osservare ciò che stiamo mettendo in atto e fare una valutazione. A Reggio inoltre partirà a gennaio una nuova operazione. Un laboratorio di innovazione sociale a base culturale, promosso dal Comune di Reggio Emilia. Un progetto frutto di un percorso partecipato che il comune ha attivato con tutti i soggetti che sul territorio si occupano di sociale e di innovazione per capire come possano emergere progetti e servizi, proposte che poi l'amministrazione farà diventare politiche. Come Fondazione Palazzo Magnani cercheremo di legare i temi della cultura e dell'arte a una linea di lavoro di questo laboratorio, che sarà contiguo alla nuova sede espositiva nei Chiostri di San Pietro, nei quali prende corpo il festival della Fotografia Europea. Avremo quindi risorse, persone e luoghi per fare osservazione. Leggere i risultati.
 
Siete uno strumento di attuazione di politiche integrate territoriali.
La Fondazione Palazzo Magnani nei fatti supera a livello di governance e missione le divisioni del passato
. Il Palazzo, del XV secolo, è stato donato nel 1917 dal collezionista e musicologo Luigi Magnani alla Provincia che ha costituito una Fondazione. L’Ente è oggi partecipato anche dal Comune e dalla Provincia e da alcune delle principali forze economiche del territorio, in particolare Iren. Il Cda è in carica dal 2016 e ha lavorato per aggregare le principali progettualità legate alle arti visive,di cui il Festival Fotografia Europea è una delle più significative. Stiamo lavorando alla XIV edizione che si terrà nel 2019, con il Giappone paese ospite. La nostra struttura organizzativa è snella, ma l’abbiamo potenziata. E’ passata da 4 persone nel 2016 a 13 e da un budget di circa 800mila euro a 2 milioni di euro. Il settore pubblico ne copre la metà. Il pareggio si ottiene da contributi, sponsorizzazioni, incassi – sia da biglietteria che da bookshop.
 
Un investimento pubblico che ha ricadute territoriali. Abbiamo visto i risultati della ricerca commissionata al Dipartimento di Economia della Cultura dell’Università di Modena e Reggio.
Ogni euro speso dalla Fondazione ne genera 4.11 come impatto diretto.
 
Ci racconta della sua organizzazione? Non c’è un direttore. Lei è un “presidente generale”. Qual è il suo background?
Da vent’anni mi occupo, con una mia azienda, Kalimera, di comunicazione digitale e integrata. Negli ultimi anni ho fatto- e sto facendo- un'esperienza di organizzazione educativa. Sono Presidente dell’Associazione per la Pedagogia Steineriana di Reggio Emilia, realtà con 250 bambini e ragazzi iscritti, in forte crescita.
Alla Fondazione Palazzo Magnani abbiamo fatto un percorso supportati dalla consulenza di Peoplerise, lavorando sulla dialettica sempre mobile tra motivazione individuale e necessità dell’organizzazione, attraverso i principi della leadership orizzontale. Non esiste una struttura gerarchica come nei vecchi organigrammi. La vera sfida è quella di non avere un direttore monocratico, ma un coordinatore e tanti direttori di singoli processi integrati. Ognuno è responsabile (nel bene e nel male), è il leader della propria area di competenza.
 
La forza è il team.
Assolutamente. Io sono in sede mediamente un giorno la settimana e la macchina operativa sta rispondendo al nuovo indirizzo. Investiamo sulla formazione. Persone giuste al posto giusto che vedono prospettive di crescita personale ma nel rispetto dei tempi e dei modi dell’organizzazione, secondo processi che loro stesse hanno disegnato.
 
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