Italia Non Profit - Ti guida nel Terzo Settore

L’antipedagogia incontra l’Arte

  • Pubblicato il: 16/01/2017 - 00:20
Autore/i: 
Rubrica: 
CONSIGLI DI LETTURA
Articolo a cura di: 
Fiorenzo Alfieri

Francesco De Bartolomeis, 99 anni, insignito ad honorem dall’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, la città nella quale vive. Fiorenzo Alfieri, presidente dell’istituzione, commenta l’ultimo libro del grande pedagogo, un libro “con orizzonti culturali enormi, la cui lettura richiede impegno, dedizione e una certa complicità”, strutturato con un’intervista condotta e introdotta da Tiziana Iaquinta-2016, edizioni ANICIA. Un autore che afferma la rilevanza dell’arte per l’esperienza di apprendimento, avverso alla “didattica dell'arte. Con schemi immagina percorsi lineari che sono miseri e falsi, estranei ai modi di funzionare della mente e nel nostro caso, ai modi di produrre fatti artistici. La didattica è nemica dell'arte e di chi vuole capirla e praticarla. I percorsi conoscitivi e produttivi non sono lineari ma sistemici, reticolari con molte incognite e irregolarità. Chi pratica l'arte per scopi educativi generali si comporta come gli artisti”


 

La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo.
Noi abbiamo creato una società che onora il servo
e ha dimenticato il dono.
Albert Einstein

Una breve premessa di natura personale. Torino alla fine degli anni 50 e all'inizio degli anni 60 era una città dove potevi, frequentando l'Istituto Magistrale, avere come docente di italiano per tre anni di seguito un personaggio come Claudio Gorlier e, frequentando poi il corso di laurea di pedagogia presso la Facoltà di Magistero, avere come docente di pedagogia e psicologia un personaggio come Francesco De Bartolomeis.
Per me, per mia moglie Maria Teresa (che ho conosciuto in terza magistrale quando Gorlier era il nostro insegnante e con la quale ho scritto la tesi di laurea per De Bartolomeis) e per altri compagni è stata una grande fortuna. Entrambi possedevano una forte personalità - non era sempre facile intendersi con loro - ma avevano come metodo di insegnamento un non-metodo, quello che poi De Bartolomeis chiamò “antipedagogia”.
In tre anni non sono mai stato interrogato da Gorlier. Pensava che fosse umiliante per un certo tipo di studente avere bisogno di ricatti per impegnarsi nel suo lavoro. Lo mandava però in Biblioteca Nazionale a svolgere ricerche in gruppo, lo stimolava ad abbonarsi al Teatro Stabile, gli lasciava nella portineria di casa sua i biglietti per i concerti degli Amici della Musica, lo lanciava nella corsa a chi leggeva di più. Lo strumento per questo tipo di gara erano i libri della BUR (60 lire le tragedie di Shakespeare, 120 lire i romanzi francesi dell'800, 180 quelli russi); l'implicito invito era a leggere tutti i testi pubblicati in una certa epoca, in una certa area geografica. Per tutta la vita successiva quella gara ci ha fatto molto comodo...
Con De Bartolomeis è stata più o meno la stessa cosa anche se in un campo apparentemente più specifico: quello della pedagogia. Ma solo apparentemente!
In questa fotografia siamo un gruppo di studenti a casa del professore; l'anno era il '63. Non stiamo parlando di pedagogia; il professore sta sfogliando un libro d'arte dedicato a Piero della Francesca, un artista da lui molto amato che ancora oggi, per noi ex studenti, è uno dei punti di riferimento nei nostri incontri con l'arte.
Gorlier e De Bartolomeis erano entrambi “laboratoriali” con gli studenti: più che fare lezione ci mostravano come prendere confidenza con la cultura, come maneggiarla, dandoci qualche volta la possibilità di fare gli apprendisti. In un passo del libro di cui parlerò brevemente subito dopo questa premessa, De Bartolomeis scrive:
Le lezioni sono il carcere della cultura. Un carcere dal quale è facile evadere. Gli studenti perché dovrebbero essere diligenti ascoltatori, fermarsi alle parole degli insegnanti, non essere consultati su ciò che merita di essere approfondito? Il loro atteggiamento cambierebbe se fossero chiamati a fare ricerche, a usare strumenti tecnologici, a costruire conoscenze, spiegazioni, prodotti, a lavorare in gruppo, a conoscere sul campo problemi reali”.

Quando ho conosciuto De Bartolomeis era l'anno accademico '62-63. Avevo da poco compiuto 19 anni e avevo avuto la fortuna di vincere un posto di ruolo nella scuola elementare Nino Costa di Torino. Sapendo che ero uno studente già “in produzione” il professore mi propose di frequentare il gruppo di lavoro sulle tecniche Freinet che si riuniva settimanalmente sotto la guida di un direttore didattico aostano, Giovanni Pezzoli. La frequentazione di questo gruppo ebbe tre principali conseguenze: l'abbonamento alla rivista “Cooperazione Educativa” pubblicata dal Movimento omonimo che aveva lo scopo di diffondere in Italia, con i dovuti adattamenti, le tecniche Freinet; l'avvio della sperimentazione di quelle tecniche nella mia scuola in cooperazione con un gruppo di giovani colleghi molto motivati; la partecipazione al congresso annuale del M.C.E. che nelle vacanze natalizie tra il '63 e il '64 si teneva a Castiglioncello. Maestri sperimentatori come Giuseppe Tamagnini, Aldo Pettini, Bruno Ciari, Mario Lodi stimolarono me e i colleghi che erano con me a creare a Torino un gruppo MCE che fu particolarmente attivo per almeno un ventennio e che continua la sua strada ancora oggi.

Completamente assorbito da quella avventura didattica non feci vita universitaria se non quella necessaria a conseguire la laurea con una tesi sull'educazione matematico-scientifica nella scuola primaria che preparai in gruppo con mia moglie, con Silvana Mosca e con Sergio Bosonetto, aostano anche lui come Giovanni Pezzoli. Ci laureammo felicemente con De Bartolomeis nel '70.

Accennerò ad altri momenti di incontro con il pensiero di De Bartolomeis nel mio lavoro successivo nella scuola, nell'amministrazione comunale e in questa stessa Accademia nel corso delle considerazioni che sto per fare sul più recente libro pubblicato da De Bartolomeis, con introduzione e intervista di Tiziana Iaquinta.

Dico subito che si tratta di un libro con orizzonti culturali enormi, la cui lettura richiede impegno, dedizione e una certa complicità, come i tanti che lo hanno preceduto. In questo De Bartolomeis mi ricorda Luca Ronconi quando una volta mi disse: “L'acquisto del biglietto non autorizza lo spettatore a pretendere che io scenda dal palcoscenico e vada a sedergli in grembo. Il grande lavoro che io svolgo, senza risparmio di fatica, per allestire uno spettacolo merita che lo spettatore faccia lo sforzo di alzarsi dalla sua poltrona per incontrarmi almeno a metà della sala”.
De Bartolomeis tocca questo aspetto relativo allo sforzo che il lettore deve fare per entrare nella sua scrittura quando dice “Alcuni hanno notato che spesso le mie parole si avvicinano alla poesia. … Alla combinazione poetica delle parole ci sono arrivato senza allontanarmi dalla strada di pedagogista e di critico d'arte. […] M'interessa la necessità di ricorrere, quando ci si spinge oltre spiegazioni univoche, a connessioni di parole che in alcuni casi, anche per coloriture emotive, raggiungono efficacia poetica. Emergono aspetti essenziali proprio per le loro approssimazioni e incertezze. […] Scaviamo in noi stessi, negli altri, nei fatti di natura, negli eventi, nelle opere di poesia, di narrativa, d'arte. La comprensione cresce ma a un certo momento non riusciamo ad andare avanti. Avvertiamo per accenni rivelazioni oscure di profondità che si sforzano di trattenere qualcosa di indefinito e di essenziale”.

Prima di procedere devo confessare che mi è risultato molto arduo svolgere qualche considerazione su questo libro. Il brano che ho appena citato credo faccia immaginare quanto forte sia stata la tentazione di attingere direttamente alla scrittura di De Bartolomeis, che presenta una originalità e una sofisticata fantasia che sono molto più piacevoli di qualsiasi “considerazione su”.
Cominciamo dal titolo del libro, “L'antipedagogia incontra l'arte”, richiama una medaglia a due facce: su una faccia troviamo la pedagogia, anzi l'antipedagogia, e sull'altra l'arte. Penso sia evidente il motivo per cui il Consiglio Accademico ha deliberato di assegnare questo titolo a una figura come quella di Francesco De Bartolomeis. Questa Accademia cerca infatti, non senza fatica, di sviluppare una pedagogia che guardi al di fuori delle mura accademiche e che fondi gran parte della sua attività sull'utilizzo di laboratori; proprio nella logica che ha portato De Bartolomeis a parlare di antipedagogia; e contestualmente considera l'arte , come fa lui, il mezzo migliore per passare dalla pedagogia all'antipedagogia.

Perché è necessario uscire dalla pedagogia per trasmigrare nell'antipedagogia? Cito di nuovo:
E' irritante l'ottimismo di quasi tutta la pedagogia. Essa scambia l'artificio di un'organizzazione didattica per una reale situazione di esperienza: prospetta immancabili progressi, parla di sviluppo spirituale, di formazione armonica, di integrazione individuo-ambiente come di facili operazioni”.Si esce dalla pedagogia innanzitutto considerando la scuola come parte integrante di un sistema formativo che comprenda tutta la comunità in cui si vive e richieda la predominanza dell'attitudine alla ricerca. “[...] la ricerca prima di essere una metodologia differenziata nei vari settori culturali e adattata ai diversi livelli di età è un modo di comportarsi strutturale della mente; una necessità anche per elementari comportamenti adattivi, perciò è da curare fin dall'inizio, già nelle attività nel periodo dell'infanzia”.

Per dirigersi verso questa prospettiva bisogna allungare il tempo della scuola (tempo pieno) e allargare lo spazio all'intero ambiente di vita con tutte le sue risorse. Perciò “[...] la pedagogia ha bisogno di lavorare sui ponti che la congiungono a una varietà di competenze.”
In questo senso si parla di antipedagogia: per dire chiaramente che la scuola non può agire isolata, deve essere una palestra del fare ricerca, deve poter disporre di competenze che si trovano al di fuori di essa, le quali devono essere sfruttate in modo diretto senza troppe mediazioni scolasticistiche.

Tante iniziative che sono state portate avanti in questa Città da circa mezzo secolo affondano le loro radici in questa idea di antipedagogia. Le scuole che hanno applicato le tecniche Freinet a partire dai primi anni '60, dove pullulavano gli allievi di De Bartolomeis, riuscirono nell'anno scolastico '70-71 a ottenere dallo Stato le risorse umane ed economiche per mettere in piedi 80 classi a tempo pieno distribuite in cinque scuole, tutte di periferia. A seguito del successo di questo esperimento l'anno successivo entrò in vigore una legge nazionale che permetteva di sperimentare il tempo pieno in tutto il territorio nazionale, là dove ne veniva fatta richiesta. Dopo le elezioni amministrative del '75, il Comune di Torino amministrato da Diego Novelli mise a disposizione insegnanti per estendere ulteriormente il tempo pieno e, iniziativa del tutto nuova, per dare “la Città ai ragazzi” e cioè per mettere a disposizione delle scuole dell'obbligo l'infinita varietà delle componenti di un sistema urbano, comprese quelle più “dure” e strutturali. A proposito di allungamento del tempo e di estensione dello spazio, in quegli anni prese piede un vasto programma di attività estive che permetteva di agire in modo molto più libero di quanto si potesse fare a scuola, mettendo ancor di più a contatto diretto, “caldo potremmo dire, i bambini e i ragazzi con l'intero sistema-città insieme ai suoi addetti, i suoi decisori, i suoi controllori.

Proseguiamo nella nostra analisi di cosa intende de Bartolomeis per antipedagogia affrontando il concetto di laboratorio, così famigliare per questa Accademia.
Negli anni immediatamente successivi alla mia laurea in pedagogia, quindi nei primi anni '70, De Bartolomeis rivoluzionò il suo modo di insegnare uscendo dalle aule universitarie e incontrando i suoi studenti in un sistema di laboratori collocati in una struttura del tutto esterna. “All'università non c'erano “miei” corsi, perché non c'erano mie lezioni. Agli studenti offrivo innanzitutto la possibilità di avere un nuovo rapporto con se stessi, con i propri interessi, con i modi di apprendere. Questo molto prima degli anni Settanta, quando le ricerche sul campo non avevano l'ancoraggio della struttura di laboratori che ho creato più tardi, nel 1972, con strumenti e un'organizzazione impossibili nei tentativi iniziati tra molte difficoltà in anni lontani. Ogni allievo un centro di iniziativa, i laboratori un terreno favorevole a sviluppare capacità creative, gusto della scoperta. La ricerca, fitta rete di rapporti e di scambi nei gruppi, è vissuta come necessità naturale per costruire cultura. Si lavorava a progettare e a elaborare, si usciva dai laboratori per appropriarsi di una materia (i “problemi a dimensione reale”) che si poteva osservare soltanto sul campo. […] Nella struttura di laboratori (estensione extramoenia dell'istituto di pedagogia) c'erano, oltre la biblioteca, sale polivalenti per le riunioni di gruppi e per attività artistiche, un laboratorio misto (ferro, legno, materiali plastici), un forno ceramico professionale, un gabinetto per la fotografia, una cinepresa, una fotocopiatrice, un elementare computer (siamo in anni precedenti gli sviluppi dell'informatica). Per attività che non trovavano competenze interne, si ricorreva a esperti esterni di sicuro valore lieti di essere coinvolti in nuove esperienze.”
Al suo metodo laboratoriale De Bartolomeis ha assegnato la denominazione di “valutazione produttiva”. Oggi a quelli storici si sono aggiunti quelli che utilizzano le nuove tecnologie, alle quali De Bartolomeis dedica questo passaggio “Gli attuali sviluppi verso le classi ( o meglio cl@ssi) digitali 2.0 (lavagne interattive multimediale touch screen, netbook tablet) e le classi robotiche per passare dall'informatica d'uso a abilità di programmazione, sono soltanto innovazioni tecniche se non si lavora a un quadro formativo sensibile a metodologie di ricerca capaci di fare presa su problemi reali.”
Prima di passare al secondo motivo della lunga citazione voglio cogliere l'occasione per esprimere una convinzione, a proposito di quanto appena detto da De Bartolomeis, che mi sta molto a cuore. Le già citate tecniche Freinet fra cui il testo libero e la sua messa a punto collettiva, la stampa a scuola, il giornale scolastico, la corrispondenza interscolastica, la ricerca d'ambiente profetizzavano nuove tecnologie come il trattamento testi, le email, la rete Internet. Noi disponevamo di bellissime tecniche didattiche ma non di questi media; perciò eravamo costretti a un super lavoro che pochi erano disposti a sobbarcarsi. Oggi la situazione si è rovesciata: ci sono i mezzi, ma nella scuola non si parla più di “come fare”, ma solo di sicurezza e di un modello di valutazione che rischia di essere fine a se stessa. Non possiamo che auspicare una vera riforma capace di formare gli insegnanti della scuola di base affinché sappiano praticare quelle nostre tecniche, disponendo finalmente degli strumenti che le rendono applicabili da parte non solo di pochi eroi ma della grande maggioranza degli insegnanti.
La seconda faccia della medaglia di cui parlavo all'inizio riguarda i ponti necessari alla pedagogia di cui parla De Bartolomeis “Uno di questi mi ha portato all'arte (…) Alla mia attività come studioso e critico d'arte va legato il lavoro come teorico e pratico nel campo dell'educazione artistica. Il metodo della valutazione produttiva non ha niente di normativo. Nel laboratorio il pedagogista/critico d'arte è affiancato da un artista di buon livello e con sensibilità per rapporti che non impongano stili e procedimenti. La creatività degli esperti è in funzione della creatività dei partecipanti.”

C'è uno scatto di De Bartolomeis, uno dei tanti che rendono molto vivace questo libro, che dice:
Non mi interessa la didattica dell'arte. Con schemi immagina percorsi lineari che sono miseri e falsi, estranei ai modi di funzionare della mente e nel nostro caso, ai modi di produrre fatti artistici. La didattica è nemica dell'arte e di chi vuole capirla e praticarla. I percorsi conoscitivi e produttivi non sono lineari ma sistemici, reticolari con molte incognite e irregolarità. Chi pratica l'arte per scopi educativi generali si comporta come gli artisti. La didattica è incapace di fronteggiare la variabilità, di mettersi su percorsi creativi.1
Molte pagine del libro di cui stiamo parlando sono dedicate a che cosa è l'arte per il suo autore.
Per varietà di tipologie, di simboli, di caratteri stilistici, per collegamenti con una molteplicità di aree culturali, l'arte ha grandi potenzialità nel contribuire allo sviluppo dell'intelligenza e della sensibilità; ha forte potere di transfer quale sia l'area di problemi cui ci si applica. L'arte sovverte stereotipie percettive e rappresentative, è esperienza di enigmi, si addentra in strati di profondità fino allora nel buio, e non destinati a illuminarsi permanentemente; apre a nuovi punti di vista sulla realtà”. Leggiamo ancora un passaggio:
Ma l'artista come si comporta? Se non si limita all'uso di abilità consolidate e gli interessa fare qualcosa di nuovo, inevitabilmente affronta difficoltà che comportano tentativi, variazioni. La ricerca assume una particolare fisionomia secondo i materiali e i procedimenti, e lo stile proprio di ogni artista. E' sempre misterioso il rapporto tra idee, emozioni, sensazioni e la loro espressione.” C'è una bella scatola cinese di citazioni dove De Bartolomeis cita George Bernard Shaw che a sua volta cita Wagner “Come può un artista pretendere che gli altri abbiano la visione chiara di cose che egli per primo non ha fatto che sentire intuitivamente: dal momento che egli stesso, in presenza dell'opera sua – se opera di Arte vera – si sente di fronte a un indovinello, sul quale potrebbe anche lui avere delle idee sbagliate, né più né meno degli altri?” (poi prosegue il solo Shaw) “Quello che Wagner chiama “Arte vera” è l'attività di un istinto, che è cieco come tutti gli istinti. Mozart a chi gli domandava una spiegazione delle sue opere, rispondeva: “Cosa ne so io? (…) L'arte o è poesia o non è arte. […] Poesia per dire che l'arte, alla soglia di indecifrabili rivelazioni, ci immerge non meno nella nostra interiorità che nella natura. […] L'arte è sogno, desiderio paura, ossessione, illusione; è umile e ambiziosa. Un'opera d'arte, come un amico o una persona che si ama o che interessa, si ha bisogno di rivederla, e a ogni incontro l'esperienza si rinnova. Io non desidero vedere La Fontana o Ruota di bicicletta di Duchamp. Conosco le ragioni della loro nascita e non ne voglio sapere di più. Altra cosa è Il grande vetro, opera di poetica intelligenza alogica e di significati mai del tutto sondabili”.

Rispetto all'arte dei nostri giorni va detto che De Bartolomeis è molto esplicito nel non accettare certe forme che vanno per la maggiore. Ecco qualche esempio Quanto alle variamente arroganti opere concettuali mancano di qualità anche soltanto esteriori. Si affidano a etichette con arbitrarie didascalie. Il presunto valore resta nella mente imperscrutabile dei produttori o è espresso con la scrittura. Si parla addirittura di morte dell'arte. D'accordo, se si tratta dell'arte nata morta, anche se vive artificiosamente come arte contemporanea in esclusiva per l'alleanza tra critici, mercanti e finanza con il sostegno delle istituzioni pubbliche.
Mostre che accolgono prodotti assegnati all'arte per nomina e collocazione dalla critica padrona e serva sono frequentate con distrazione e indifferenza. Non s'incontra niente di nuovo per qualità. Solo rivisitazioni, trasposizioni di oggetti senza elaborazione creativa, bizzarrie gratuite e banali. Puro spreco In limine di Giuseppe Penone, una sorta di portale di ingresso alla GAM, un albero di bronzo su una grande base di marmo; un dispendio economico in assenza di arte in contrasto con la GAM che ci accoglie con opere di Riccardo Cordero, Luigi Mainolfi, Franco Garelli, Fausto Melotti.”

Inutile dire che su simili affermazioni ci sono persone in questa Accademia, docenti e studenti, che sarebbero disposte a discutere. Sarebbe interessante che l'incontro di oggi non fosse un evento isolato e che risultasse possibile organizzare momenti di incontro, anche laboratoriali con Francesco De Bartolomeis per discutere di arte contemporanea e di tante altre cose ovviamente!
Una componente fondamentale dell'antipedagogia, che interessa molto anche a questa Accademia, con la quale vorrei concludere questa riflessione è la produttività, il vero e proprio lavoro.”Su questo tema ho cominciato a insistere alla fine degli anni '50, in tempi in cui ogni accostamento di formazione generale e di formazione professionale era respinto come contaminazione. Lo stesso è da dire dell'importanza data alle tecnologie, ai laboratori, alle conoscenze delle realtà produttive e dei servizi. Si accettava il rapporto con i beni artistici e culturali ma secondo procedure tradizionali: visite, sezioni didattiche che nella grande maggioranza si limitavano a informazioni superficiali e a attività incapaci di portare a una vera comprensione . La mia tesi mi faceva passare per inquinatore della cultura disinteressata. (…) Insistevo sulla necessità di studiare i temi del lavoro per comprendere l'organizzazione sociale e mi spingevo oltre: stages in aziende nel corso degli studi, alternanza studio-lavoro, entrata professionale nel mondo del lavoro orientato al rinnovamento.”

Dicevo che si tratta di un argomento fondamentale per questa Accademia. Non è certo facile prevedere con una qualche sicurezza gli sbocchi professionali di coloro che oggi la frequentano. Per questo motivo si sono moltiplicati a dismisura gli insegnamenti rispetto a quelli più antichi. Qualche esempio, ma ne potrei fare molti altri: computer grafic, design, grafica editoriale, grafica d'arte, illustrazione scientifica, linguaggi e tecniche dell'audiovisivo, metodi e tecniche dell'arte-terapia, metodologie e tecniche della comunicazione, museologia, regia, tecniche grafiche speciali, teoria e metodo dei mass media, trucco e maschera teatrali, web design, illuminotecnica, fashion design, sartoria. I laboratori in cui si lavora intorno a questi argomenti sono in genere produttivi e i docenti che se ne occupano sono anche dei professionisti che operano sul mercato.
Arriveremo presto, me lo auguro, a produrre per vendere allo scopo anche di aiutare sia l'economia personale degli studenti sia il bilancio dell'Accademia che si aggira sui due milioni dei quali poco più di 80.000 euro arrivano dal Ministero. Ma non si tratta solo di produttività interna.
Particolarmente preziosa è la produttività che si attiva per partecipare a importanti iniziative esterne. Ve ne cito soltanto una: il prossimo 17 aprile alle ore 20 al Teatro Regio debutterà l'opera di Antonio Vivaldi “L'incoronazione di Dario”, le cui scene e costumi sono ad opera dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino”.

© Riproduzione riservata
 

1op. cit. pp. 67-68