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Istituti di cultura e comunità migranti. Il ruolo interculturale del Goethe-Institut fra i “nuovi tedeschi” di casa propria

  • Pubblicato il: 14/12/2016 - 19:02
Autore/i: 
Rubrica: 
CULTURA E WELFARE
Articolo a cura di: 
Amerigo Nutolo

Come cambia il ruolo di un istituto di cultura nazionale nell'epoca delle migrazioni, quando le identità si ridefiniscono a partire dalle periferie e dall'interazione fra comunità locali di diversa provenienza? Rispondono le incaricate del Goethe-Institut in occasione nel format di interventi urbani Performing Architecture, a Venezia, realizzato in occasione della Biennale di Architettura: complemento performativo e relazionale all'impianto teorico e statistico del Padiglione tedesco, dedicato alle migrazioni. Per la Germania l’inclusione parte dalla conoscenza della lingua, necessaria per permanere nel paese. “Nelle ultime ondate migratorie si sta sollevando il problema della presenza di molti analfabeti o soggetti che non conoscono neppure la propria lingua”. Ma il Goethe-Institut ha anche un ruolo culturale di rilievo, per questi “nuovi tedeschi”. “Si può sconfiggere la paura solo con la reciproca conoscenza

Il Goethe-Institut, in occasione della Biennale di Architettura, ha promosso il format di interventi urbani Performing Architecture, a Venezia: complemento performativo e relazionale all'impianto teorico e statistico del Padiglione tedesco, dedicato alle migrazioni.
Per il Goethe Institut abbiamo incontrato Rosina Franzé, Assistente Programmi Culturali e addetta alla Segreteria del direttore della sede milanese, Chiara Sermoneta, Assistente ai Programmi Culturali, addetta alla Consulenza Didattica e Comunicazione – sempre di Milano – e Isabel Hölzl, Responsabile del Settore Danza e Teatro della Sede centrale di Monaco, confrontandoci sull’evoluzione dell’istituto di cultura nell'epoca delle migrazioni, quando le identità locali e nazionali future si ridefiniscono a partire dalle periferie e dall'interazione fra comunità locali di diversa provenienza. Un'azione interculturale “a scala variabile” che attraverso una rete estesa in 160 città, mette in relazione quartieri di diversa cultura e culture di diverso tipo nei quartieri.

Quale è il profilo del Goethe-Institut in questo frangente delle migrazioni? Che cambio di approccio e compiti istituzionali sta sopraggiungendo?
R.F. Il Goethe nasce come associazione privata di diritto pubblico, nel secondo dopoguerra, per far conoscere di nuovo la Germania come paese di grande cultura, e riceve dalla Repubblica Federale l’incarico di diffondere la lingua e la cultura tedesca all’estero. Ci sono accordi, linee guida condivise con lo Stato ma siamo autonomi nella selezione dei progetti culturali. Tra gli incarichi c’è anche quello di occuparci di immigrazione e asilo. Per restare in Germania devi sostenere un esame di tedesco. Nelle ultime ondate migratorie si sta sollevando il problema della presenza di molti analfabeti o soggetti che non conoscono neppure la propria lingua. Abbiamo un ruolo di rilievo nell’insegnamento a questi “nuovi tedeschi”.
C.S. Nella cooperazione didattica, provvediamo allo sviluppo di materiali nuovi per gli immigrati in Germania. Ho lavorato per anni con gli Istituti italiani di Cultura in Germania: una differenza è che essi non esistono in Italia, invece il Goethe è diffuso su tutto il territorio nazionale tedesco, dove si occupa, oltre che di formazione per stranieri, anche di programmi scolastici, soggiorno all’estero, formazione e aggiornamento (linguistico e metodologico-didattico) per insegnanti di lingua che vogliono operare all’estero. Il nuovo settore è l’insegnamento e la certificazione linguistica per gli immigrati in arrivo.
R.F. I progetti culturali ultimamente hanno assunto anche un aspetto socialmente rilevante, toccando l’aspetto della reciproca conoscenza culturale. Siamo presenti in 160 città nel mondo e in ogni paese cerchiamo di instaurare un dialogo fra componente culturale tedesca e popolazione locale. Ma molti progetti vengono anche presentati in Germania. La figura del mediatore culturale, in Italia, riguarda amministrazioni pubbliche ed organizzazioni volontarie. Sta, però, ora, cambiando la politica di programmazione culturale: oltre a promuovere la cultura di nicchia che da sola difficilmente riuscirebbe a trovare i propri spazi, negli ultimi anni si promuove anche molta progettualità dal risvolto sociale, legata alla comprensione fra comunità. Comunque la realtà tedesca è partita con questo concetto di integrazione molto prima dell’Italia. Molti dei nostri artisti e protagonisti culturali hanno studiato o sono cresciuti in Germania, ma sono di origine non tedesca: parliamo infatti oramai in genere di cultura “dalla Germania” e non di cultura “tedesca”.

Già dagli anni ’50-’60 la Germania è stato paese di immigrazione. Si è già formata una generazione di tedeschi di origine non tedesca.
R.F. Non ridisegniamo l'identità tedesca: la presentiamo com'è. Molte espressioni artistiche nascono da una coabitazione.
C.S. Tante volte da un conflitto. Dipende poi dalle regioni e dalle città. Vi sono corsi di aggiornamento con colleghi che lavorano in zone del mondo diverse: le differenze sono importantissime fra chi lavora in Occidente o in Europa, come noi, capaci di finanziamento progettuale, e chi lavora in Sud America o in paesi asiatici o dell’ex blocco sovietico e si confronta con dittature o retaggi di dittature.
R.F. Costruiamo il progetto con i partner locali. La flessibilità e libertà di progettazione viene dall’ascolto della comunità in cui ci troviamo. Siamo uno spazio di espressione per artisti locali, pur, come sempre, nel rispetto della cultura del luogo.

Per statuto siete molto liberi rispetto a un istituto di cultura nazionale legato al Consolato che è tenuto a seguire una linea ministeriale.
R.F. Il Goethe-Institut si avvale di una struttura settoriale, con aree corrispondenti alle diverse discipline che possono far riferimento al settore corrispondente della sede centrale, dove ogni direttore di sezione si avvale a sua volta di comitati scientifici composti da operatori competenti che ogni sei mesi si riuniscono per aggiornare l’istituzione sulle nuove tendenze e i protagonisti emergenti del rispettivo ambito. C’è un rapporto a doppio nodo con le sedi centrali sia per l’arte che per gli interventi sociali. E negli ultimi anni ci si sta specializzando, fra direttori di sezione, nelle diverse discipline. Il Goethe-Institut riesce a lavorare con dipendenti propri: ha una formazione interna.
I.H. Nel caso degli istituti di cultura di tipo spagnolo o italiano, tutto dipende dai cambi di governo, con cui mutano le linee guida dei ministeri e degli ambasciatori, fissando obiettivi diversi. Un ambasciatore probabilmente non avrebbe portato avanti un progetto come questo di Veddel. Per noi è fondamentale. Siamo indipendenti.

Veddel, periferia di Amburgo di 5000 abitanti da 60 paesi, ha visto l’iniziativa e investimento del Teatro Statale, e di Comunità religiose, Città, fondazioni (di ogni tipo): con un programma culturale pluriennale costruito sul posto, da e con gli abitanti, si è operato il riconoscimento della sua identità “speciale”, simbolo della Nuova Amburgo. Voi avete poi promosso questo caso da Venezia, in Performing Architecture, fino alla vostra sede di Roma (un incontro col quartiere Torpignattara) per uno scambio internazionale. Cosa manca all’Italia per poter generare una progettazione come quella di New Hamburg, sperimentata a Veddel?
C.S. Manca – e anche noi del Goethe possiamo lavorare su questo punto – una cura adeguata della comunicazione. In Italia si fanno molte cose, ma ci si ferma poi di fronte ai limiti di soldi e si finisce per non avere mai tempo per fare un lavoro di diffusione. Si dovrebbe far conoscere quello che fai. Ci sono una infinità di buoni interventi, ma sono conosciuti solo dagli addetti ai lavori e non si va oltre questo livello. L’Italia ha una pessima opinione e immagine di sé e la diffonde. Ci si preclude il fatto di potersi informare, cercare, andare a vedere ciò che si sta facendo di buono: questo lede l’interesse del cittadino italiano.

Quale ruolo e sensibilità hanno i figli delle ondate migratorie dei decenni precedenti (anche italiane) nei processi di integrazione attuali?
I.H. Ci sono ondate molto differenti fra loro, molte persone non sanno neppure se potranno restare. L’immigrazione italiana arrivata negli anni '60 con gli accordi bilaterali, è un caso diverso. Sono spesso professionisti, ora, assimilati alla popolazione locale.
C.S. Ho avuto modo di conoscere l’eterogeneità della migrazione italiana. Nel Sud, ad esempio, e nel bacino di Stoccarda c’era una emigrazione legata alla catena di montaggio e al lavoro operaio. Un aspetto culturale diverso, legato inizialmente anche all’analfabetismo diffuso e alla dialettalità. I loro figli sono tedeschi in tutto e per tutto, ma la prima generazione è passata attraverso grossi conflitti, la seconda molto meno. Ad Amburgo e nel nord, l’italiano è arrivato negli ultimi anni, è specializzato, ed è percepito in maniera diversa.
I.H. Anche nel fenomeno dell'ultradestra di Alternative für Deutschland, contraria all'immigrazione, si nota che il partito è disseminato di iscritti appartenenti a terze generazioni di migranti, contrari alle nuove migrazioni.
R.F. A volte si tratta di temere che una volta accettato tu possa essere sostituito e minacciato da una immigrazione nuova, magari anche più preparata. Nella fascia medio-bassa della popolazione le cose stanno diversamente. E' avvenuto con la militanza meridionale in movimenti come quello leghista, ai tempi delle espressioni politiche antimeridionali: una contraddizione che rispecchiava però una realtà.
I.H. Klaus [n.d.r. politico appartenente all'amministrazione locale del quartiere di Veddel] dice sempre questa cosa di interessante: “Per difendere questo tipo di progetto – interculturale – nel quartiere, è necessario capire che questo è il nostro futuro.” La Germania è avviata verso questo futuro. Non si può tornare indietro.
I.H. Un futuro che è stato già un nostro passato, anche tedesco, europeo. E’ un problema che ha a che fare con la paura. Si può sconfiggere solo con la reciproca conoscenza. Parliamo di singoli, in mezzo a noi, non di gruppi. Performing Architecture, ad esempio, si è voluto distinguere dal padiglione nazionale, basato sulle tesi di Doug Sanders: a fronte di quest'idea di heimat, abbiamo voluto presentare Veddel, un arrivo reale, con persone vere, reali, che hanno fatto del quartiere la loro patria. Volevamo portare la parte umana, che va oltre i numeri. Ci sono queste persone che vivono insieme.

Da problema amministrativo a soluzione relazionale… un’impostazione circolare del progetto...molto hegeliana!
R.F. Adesso, a te chiudere il cerchio!

© Riproduzione riservata

foto: Confronto fra rifugiati tedeschi e italiani (Afghanistan) - Veddel Embassy, Abbazia della Misericordia, Venezia - Ph. Christian Bartsch

Link utili:
Padiglione tedesco 15ma Biennale di Architettura di Venezia http://www.makingheimat.de/en
Performing Architecture https://www.goethe.de/ins/it/it/kul/sup/arc.html
Veddel Embassy (Venezia) https://www.goethe.de/ins/it/it/kul/sup/arc/ved.html
Amburgo (Veddel) meet Roma (Torpignattara) https://www.youtube.com/watch?v=pFJQKThX3mo