Investimento d’impatto sociale: un aggiornamento dal campo
Si sente parlare in modo ricorrente di investimenti “a impatto sociale”. Di cosa si tratta? Crescono nel mondo guidati da alcune fondazioni erogative che li interpretano come strumenti per rispondere a nuove sfide sociali, generando cultura organizzativa e orientamento al risultato, cooperazione e massa critica che i meri grant, a fondo perduto, non producono. “Le sperimentazioni impact delle fondazioni possono rivelarsi cruciali per lo sviluppo della domanda di investimenti a impatto sociale, diffondendo un approccio culturale che misura i risultati ottenuti, richiede la sostenibilità economico finanziaria nel lungo periodo e promuove programmi integrati più efficaci.” Ne parlano Marco Ratti di Banca Prossima e Sara Seganti di Human Foundation
Quando gli investimenti si definiscono “a impatto sociale”? Se l’aspettativa di un rendimento (anche se modesto e/o differito) si aggiunge all’attesa che essi producano un effetto sociale positivo, che l’investitore ricerca ex ante e verifica ex post. Il tema interessa a fondazioni erogative, investitori privati e istituzionali, o corporates, interessati a produrre un effetto sociale. Tuttavia, per le fondazioni il tema è particolarmente importante: il capitale investito – a differenza di quello erogato – “torna indietro” (in parte, tutto, o qualcosa in più) e può essere leva per altri investimenti, concetto fondamentale in periodi di scarsità di risorse.
Già nel 2013, l’allora G8, sotto la presidenza inglese, aveva lanciato una riflessione internazionale sul tema. Ne ripercorriamo gli sviluppi recenti.
La riflessione globale
7.500 investimenti ad impatto sociale per un valore di 15,2 miliardi di dollari nel 2015, secondo l’ultimo rapporto del Global Impact Investing Network1. Complessivamente sono state 12.000 le transazioni ad impatto sociale dall’inizio del 2016: questo il dato condiviso durante l’ultima riunione plenaria del Global Social Impact Investment Steering Group (GSG) che ha preso il posto della Social Impact Investments Traskforce creata in ambito G7 per proseguirne e ampliarne il lavoro.
Questo settore che i dati raccontano come vivace e con buone prospettive di crescita è guidato in molti Paesi dalla leadership di alcune fondazioni erogative (Ford e Rockefeller negli Stati Uniti, Bertelsmann in Germania e Nippon in Giappone) che vedono negli investimenti ad impatto sociale e nella capacità di coniugarli con il ritorno economico, una possibilità aggiuntiva per incidere su quei bisogni sociali che non hanno ancora trovato risposte positive.
La strategia di erogazione tradizionale legata al grant (erogazione di finanziamenti a fondo perduto) ha mostrato dei limiti laddove l’eccessiva frammentazione delle donazioni sul territorio ha reso difficile sviluppare una visione di trasformazione profonda della società, disperdendo l’aiuto in molte organizzazioni sociali a discapito della valutazione dei risultati e della cooperazione tra le stesse realtà che sono in competizione per l’ottenimento dei fondi. In questo senso l’impact investing non si pone in antitesi alla filantropia, ma può assumere forme compatibili con la connaturata avversione al rischio che caratterizza le fondazioni erogative e formare una sommatoria capace di raggiungere risultati sociali positivi più ambiziosi, su larga scala e sostenibili nel tempo.
I nuovi strumenti hanno negli ultimi anni trovato spazio anche tra le fondazioni di origine bancaria italiane, dove sono molteplici gli esempi di apertura a questo genere di innovazioni.
Considerando le nuove e crescenti sfide sociali a cui il terzo settore deve rispondere, oggi più che mai, occorre esplorare e valorizzare queste nuove forme di erogazione che adottano soluzioni innovative finalizzate ad ottimizzare la governance delle iniziative e a raggiungere un equilibrio ottimale tra sostenibilità economica e impatto sociale.
Le fondazioni erogative hanno a disposizione un ampio ventaglio di strumenti per indirizzare la propria strategia in questa direzione che sono stati descritti nel Report “La Finanza che Include” risultato del lavoro collettivo dell’Advisory Board Italiano della Taskforce G8 sulla finanza ad impatto coordinato da Human Foundation nel 2014. Oggi è Social Impact Agenda per l’Italia, il network italiano degli investimenti ad impatto a proseguire questa attività di promozione dell’ecosistema impact in Italia.
Stato dell’arte e iniziative in corso in Italia
La riforma del Terzo Settore ha in parte rafforzato la possibilità di investimenti a impatto, p.es. con la possibilità per le imprese sociali di distribuire limitati profitti, ma ha lasciato diverse incognite, tra le quali il ruolo che occuperà la Fondazione Italia Sociale. Questo ente è stato creato “con lo scopo di sostenere, mediante l’apporto di risorse finanziarie e di competenze gestionali, la realizzazione e lo sviluppo di interventi innovativi da parte di enti del Terzo Settore, caratterizzati dalla produzione di beni e servizi con un elevato impatto sociale e occupazionale e rivolti, in particolare, ai territori e ai soggetti maggiormente svantaggiati.” La Fondazione dovrebbe raccogliere denaro filantropico e altre risorse, private e pubbliche, per promuovere iniziative a impatto sociale. Tuttavia, a parte il funding (per il 2016 è stato destinato un milione di euro), rimangono ancora da precisare per esempio gli obiettivi da raggiungere, gli strumenti in cui investire, la preferenza per investimenti diretti o indiretti, e soprattutto la governance.
Si stanno però anche muovendo varie acque nel comparto privato. Un passo necessario a perseguire una logica impact è la focalizzazione sugli outcome sociali: gli esiti per la vita dei beneficiari. Nella catena dell’impatto questo concetto sta a valle del risultato immediato (output), mentre precede logicamente l’impact, che è la parte di esito attribuibile all’intervento (che deve entrare necessariamente nella progettazione). L’orientamento agli outcome – inclusa la loro misurazione – non è riservato all’attività di investimento, ma pertiene anche a quella di contribuzione a fondo perduto. Da tempo la pratica erogativa sta evolvendo in questa direzione, anche nelle fondazioni di origine bancaria, alcune delle quali hanno una pratica stabile o addirittura un nucleo dedicato di valutazione; in alcuni casi c’è anche un tentativo di misurare direttamente gli impatti, impiegando una logica “controfattuale”. Il movimento verso la logica di outcome riguarda anche attori di media dimensione, alcuni dei quali hanno avviato programmi di aggiornamento delle loro valutazioni aperti anche ai beneficiari.
L’investimento d’impatto segue questa tendenza alla ricerca e documentazione degli impatti degli interventi; a differenza dei contributi, la persegue con l’intenzione che il capitale erogato venga restituito nel tempo dal beneficiario. Ciò è desiderabile per chi eroga, per impiegare con la massima efficienza i fondi disponibili. Vi sono però alcuni punti di attenzione.
In primis, tutti i beneficiari preferiscono il fondo perduto, ma soprattutto molti non ne possono fare a meno: vi sono comparti di attività sociale e culturale che in tutto il mondo “stanno in piedi” grazie a denaro che perviene loro a titolo definitivo, e che non può essere sostituito in toto da denaro che invece dev’essere restituito. In questi casi l’investimento è più un complemento dei contributi che un loro sostituto. Tuttavia molte organizzazioni nonprofit (e tra queste vari enti culturali) sono state finanziate, soprattutto a titolo di debito, ma anche in forma di capitale, per mettere in atto ammodernamenti in grado di produrre un impatto e un reddito futuro con cui ripagare chi ha investito del denaro in essi. In qualche caso si trattava di progetti sociali o culturali veri e propri, in altri di attività collaterali (p.es. il ristorante della Triennale).
Tra i punti di attenzione c’è poi una questione organizzativa: se internalizzato, l’investimento d’impatto richiede decisioni coordinate fra chi determina la strategia di impatto (l’organo che presiede alle erogazioni) e chi si occupa degli investimenti (il direttore finanziario). Non è sempre facile ottenere questa sintonia e ciò favorisce la costituzione di veicoli segregati, sia per minimizzare i rischi che per gestire più facilmente l’organizzazione interna. Terzo, l’investimento d’impatto richiede strumenti che non sempre sono possibili o facili da costruire, tra cui i social impact bonds; altri strumenti di investimento sarebbero però costruibili in scala e in breve tempo, p.es. la cartolarizzazione di crediti bancari a imprese sociali ampiamente intese.
Alcune fondazioni perseguono da tempo forme di investimento con scopi sociali (con investimenti diretti mission related, oppure attraverso fondazioni di comunità, operazioni di housing sociale e di microfinanza). L’investimento d’impatto sta oggi guadagnando l’interesse di fondazioni che ragionano sull’inclusione di questo tipo di attività nei loro piani strategici.
Per ora si vede l’inizio di un’attività concreta che mira a costruire veicoli che coinvolgono più investitori, alcuni dei quali già operativi. A un estremo ci sono aggiornamenti di fondi comuni: questi hanno un portafoglio liquido, che può mirare p.es. all’impatto ambientale o a generare erogazioni mirate, ma difficilmente investe significativamente in imprese sociali, troppo piccole per avere passività scambiate su un mercato attivo. All’altro estremo ci sono i fondi di social venture, quello “storico” di OltreVenture ora affiancato da uno (con la forma innovativa del fondo europeo di venture capital) in fase di raccolta; essi investono nell’equity di imprese (SpA, Srl …) con un obiettivo sociale.
L’area tra i due estremi è occupabile con altri strumenti (p.es.: che investano in debito oltre che in equity, abbiano target dimensionali intermedi, mischino investimenti in nonprofit e in imprese con obiettivi sociali) che sono in via di costruzione presso operatori come incubatori o acceleratori che hanno per loro natura uno stock di progetti investibili. Queste iniziative hanno tipicamente due problemi tra loro connessi: le loro pipeline – cioè i “magazzini” di progetti pronti a essere attivati – sono spesso sottili, ponendo così un dubbio sull’esistenza di una domanda di capitale sufficiente da parte di operatori sostenibili; inoltre le loro dimensioni sono limitate, il che implica un problema a sostenere i costi di setup di ogni iniziativa. La prima difficoltà potrebbe essere alleviata utilizzando input da parte di altri operatori specializzati, p.es. banche sociali; ma è comunque da attendersi, e crediamo auspicabile, che il problema più ampio venga affrontato ricercando una forma di collaborazione e condivisione tra operatori sia delle pipeline che dei costi fissi.
In generale, le sperimentazioni impact delle fondazioni possono rivelarsi cruciali per lo sviluppo della domanda di investimenti a impatto sociale, diffondendo un approccio culturale che misura i risultati ottenuti, richiede la sostenibilità economico finanziaria nel lungo periodo e promuove programmi integrati più efficaci.