Investendo 2 milioni generiamo un flusso di 20
Non lontano dalla chiesa di San Mercuriale, simbolo di Forlì, la sede della Fondazione della Cassa dei Risparmi, rimodernata da poco, è tra i rari edifici antichi sopravvissuti in città: un palazzo rinascimentale del 1514, costruito per ospitare quel Santo Monte dei Pegni che ha svolto nei secoli una funzione «benefica» di aiuto e solidarietà.
Forlì è una città di 120mila abitanti, prima agricola e poi industriale, quasi priva di attrattive turistiche. Eppure in pochi anni, a partire dal 2005, le importanti mostre finanziate e realizzate dalla Fondazione nel magnifico complesso ristrutturato del convento di San Domenico, hanno portato nelle sue sale 450mila visitatori. Una svolta profonda che ha prodotto ricchezza e legato Forlì a una nuova immagine di città d’arte facendola uscire dal «cono d’ombra» al quale sembrava destinata. Un esempio, forse un modello. Certamente quello di Forlì è un «caso». Investire in cultura è stata l’intuizione di Piergiuseppe Dolcini, avvocato, specialista in diritto del lavoro, Presidente della Fondazione da quando esiste.
Avvocato Dolcini, qual è il ruolo della Fondazione a Forlì e quali i suoi obiettivi?
Ogni fondazione, e anche la nostra, è la sto- ria di un patrimonio che si è formato con il risparmio, il lavoro di un’intera comunità. Per questo le fondazioni devono fare in modo che obiettivi e risultati delle loro iniziative s’inseriscano in modo virtuoso nello sviluppo del territorio, dando risposte agli interessi generali. Penso che questa si possa definire una funzione di carattere politico, nel senso più alto della parola. La decisione più importante della Fondazione è stata quella di vendere la sua Banca. Il passaggio definitivo è avvenuto nel 2007. La proprietà della Cassa dei Risparmi di Forlì è stata ceduta al gruppo Intesa SanPaolo. Il patrimonio è salito a oltre 400 milioni di euro e questo ha consentito alla Fondazione di sviluppare nuove importanti iniziative.
Come avete impostato i rapporti con le istituzioni locali, innanzitutto con il Comune?
In una società, oltre alle istituzioni pubbliche, esistono organizzazioni come la nostra Fondazione che si muovono in ambito privatistico, ma hanno lo stesso obiettivo delle istituzioni: il «bene comune». Con l’amministrazione comunale abbiamo cercato di dividerci i compiti. Il Comune ha obiettivi e compiti istituzionali come garantire la viabilità in ambito cittadino. La Fondazione realizza qualcosa alla quale l’amministrazione comunale non ha pensato o per la quale non ha le risorse. Un esempio: stiamo migliorando il sistema di illuminazione delle strade che portano al complesso del San Domenico che ospita i Musei e le grandi mostre. Questo si collega all’altro obiettivo congiunto della Fondazione e dell’amministrazione comunale: dare grande risalto e prospettive di sviluppo culturale al San Domenico.
Qual è il rapporto tra Fondazione e Comune per la gestione del complesso del San Domenico?
Paghiamo un affitto al Comune, proprietario del complesso e diamo un notevole contributo per la gestione, i servizi, le mostre. Senza la Fondazione il Comune non avrebbe fondi ed energie sufficienti per il complesso.
Non c’è stato o non c’è il rischio che la Fondazione, con la sua forza economica, con la sua influenza, possa prevaricare funzioni e poteri del Comune, soprattutto in una città piccola come Forlì?
C’è un principio base: l’attività della Fondazione non può essere mai sostitutiva o surrogatoria rispetto al Comune. È vero che la Fondazione ha un potere economico rilevante anche perché i Comuni vivono una situazione di marcata crisi finanziaria. È evidente che questo può generare problemi difficili da governare. Le amministrazioni comunali potrebbero strumentalizzare le fondazioni dicendo: «Non abbiamo fondi, provvedete». Ma noi dobbiamo mantenere una funzione autonoma, anche se coordinata con l’amministrazione pubblica.
Nella piccola Forlì il ruolo della Fondazione è diventato centrale per la comunità.
È la Fondazione che fa le grandi mostre, seppure nel bellissimo spazio del Comune. Le mostre danno grande visibilità. Questa è anche la preoccupazione maggiore: se venissero meno la nostra capacità finanziaria o lo stimolo delle idee, quali sarebbero le conseguenze per Forlì, che non ha altro da questo punto di vista? Ci penso molto. L’idea è stata di fare una mostra all’anno con l’intento di valorizzare l’identità locale. Nel caso della mostra in corso, quella sul forlivese Melozzo, enfatizziamo la presenza di questo artista collegandolo ai grandi del Rinascimento, da Piero della Francesca a Raffaello. Ma se questo filone si esaurisse?
E intanto quali programmi per le prossime mostre?
Il 2012 e 2013 li dedicheremo al Novecento forlivese. Tra gli anni venti e trenta ci fu il tentativo di fare di Forlì «la città del Duce». Era il razionalismo europeo che in architettura e in urbanistica cercava di modellare la città. Ci restano ancora molti richiami a questo disegno. Collegheremo il Novecento locale col novecento europeo, il secolo delle guerre, delle dittature, ma anche della democrazia e della socialità. È un modo per mantenere il nostro progetto culturale: locale e globale insieme.
E dopo, per il 2013, a che cosa state pensando?
È questa la difficoltà. Dobbiamo abbinare l’interesse primario verso la nostra memoria storica con altre esperienze artistiche. C’è un aspetto che forse dovremo affrontare. Penso all’arte del secondo Novecento. E poi una parte della città ci chiede con insistenza di interessarci al contemporaneo.
Quanto pesano le mostre sulle erogazioni della Fondazione?
Quest’anno pensiamo di arrivare a erogare in tutto quasi 11 milioni di euro, dei quali 3,150 per le attività artistico-culturali. Il costo medio di ogni mostra, detratti i 600-700mila euro di incassi della biglietteria, royalties, sponsor, è di circa un milione e mezzo. C’è stato un picco di spesa per la mostra del 2009 su Canova, ma abbiamo raggiunto il nostro record: 151mila visitatori.
E quali sono le previsioni per la mostra in corso su Melozzo?
Dovremmo arrivare a 100mila visitatori: quindi anche quest’anno quella di Forlì è una delle grandi mostre del panorama italiano.
Avete esaminato la ricaduta economica di queste mostre sul territorio forlivese?
Certo, risulta che se investiamo due milioni di euro per una mostra, otteniamo un flusso di denaro che arriva sul territorio, di circa 20 milioni: un rapporto di 1 a 10. È molto e potrebbe aumentare. Manca la ricettività e poi non tutti i forlivesi hanno ancora capito che queste mostre sono una grande occasione. Siamo al centro dell’interesse di tante persone da tutta Italia e oltre. Purtroppo chi viene da noi la domenica, esce dalla mostra e trova una città in gran parte chiusa: bar e ristoranti compresi.
La Fondazione interviene anche in altri settori della cultura. Per Forlì Lei ha parlato della creazione di un «super luogo» per i giovani. Che cosa vuol dire?
L’associazionismo culturale giovanile è l’aspetto vivo, magmatico, interessante, di Forlì. Complessi di musica classica, compagnie teatrali che fanno spettacoli d’avanguardia accanto a una buona stagione teatrale, iniziative per la letteratura. Quando parlo di un «super luogo» per i giovani, intendo una città che realizzi una sintesi virtuosa, una convergenza tra le tante iniziative culturali non istituzionali, quelle del Comune e della Fondazione. Abbiamo un’ottima Università, con la presenza locale dell’Alma Mater bolognese, che ha dato risultati molto positivi. Adesso il problema è cosa diventerà con la legge Gelmini. Il nostro obiettivo, concordi amministrazioni pubbliche e Fondazione, è stringere un accordo con l’Alma Mater di Bologna che riconosca ai forlivesi la capacità di proporre autonome esperienze universitarie. La valida formazione locale è fondamentale perché una parte di questi giovani possa diventare una buona classe dirigente.
Negli ultimi dieci anni e soprattutto dopo il 2005, con l’avvio del vostro programma di mostre, Forlì è cambiata?
È cambiata e sta cambiando per tre cose. È diventata sede universitaria. Abbiamo 17mila studenti e facoltà interessanti, che fanno ricerca. La sanità si è scoperta di eccellenza grazie a lungimiranza e bravura di grandi medici e agli investimenti della Fondazione in ricerca e attrezzature mediche di alta tecnologia. E poi le grandi mostre. A Forlì, bastano questi tre elementi per crescere e svilupparsi? Qualcuno sostiene che deve esserci soprattutto uno sviluppo quantitativo, deve cioè aumentare il prodotto. Altri sono convinti, come me, dell’importanza della cultura, che con la sua ricaduta economica è una risorsa anche quando altri settori sono in crisi.
Dunque questa è la vostra scelta per la crescita della città?
È il vero ruolo politico della Fondazione. Non escludiamo altri tipi di sviluppo, ma credo che così stiamo contribuendo alla sua crescita. Mi piace definirla la nostra «utopia forlivese». È un’idea di città, di comunità. Essere utopisti è un mestiere affascinante.
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(X Rapporto Annuale Fondazioni)