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Il posto delle fondazioni nelle trasformazioni del welfare

  • Pubblicato il: 28/06/2016 - 11:01
Rubrica: 
OPINIONI E CONVERSAZIONI
Articolo a cura di: 
Giulia Maria Cavaletto

Dal 30 giugno al 2 luglio, prenderà corpo nel Castello di San Giorgio Canavese, “Expoelette 2016- 1° Forum internazionale delle donne al governo della politica e dell’economia”, appuntamento che si pone l’obiettivo di far conoscere il punto di vista dele donne in posizioni decisionali nelle istituzioni, nell’economia e in ciò che è d’interesse nella vita civile e sociale. Tra i seminari proposti, un focus sarà su “ Le donne nel governo della Finanza e della moderna Filantropia”, che vedrà tra i relatori la prof. Giulia Maria Cavaletto, docente di Sociologia della Famiglia dell’Università di Torino della quale presentiamo un contributo sul ruolo strategico della Filantropia istituzionale per un nuovo welfare, ruolo cruciale nella “gestione di una transizione che si prefigura come più lunga e complessa del previsto e rispetto alla quale il soggetto pubblico non ha ancora predisposto adeguate soluzioni”

L’attuale scenario economico e sociale sta sfidando da ormai molti anni (e senza rassicuranti segnali di inversione di tendenza) i sistemi di protezione sociale tradizionali. La recessione ha incrementato quantitativamente e diversificato qualitativamente i bisogni sociali, imprimendo un’accelerazione vistosa alla crisi dei sistemi di welfare, già fortemente piegati nell’ultimo ventennio da mutati andamenti occupazionali, contributivi, demografici e migratori (Ferrera, 2008; Ascoli, 2011). In uno scenario di complessivo anacronismo dei sistemi di welfare dell’Europa mediterranea, l’Italia è riuscita a restare in bilico, senza affondare del tutto, grazie alla solidarietà intergenerazionale all’interno delle famiglie, alla rete del volontariato e dell’associazionismo e alla presenza di attori economicamente equipaggiati di risorse come le Fondazioni (Barbetta, 2013; Cavaletto, 2015). Queste ultime si stanno configurando come un soggetto sempre più rilevante non solo per colmare, sebbene in misura ovviamente marginale, le emergenze più evidenti nelle comunità locali, ma per proporre nuove forme di progettazione dei sistemi di protezione sociale. Il nesso quindi tra welfare e Fondazioni non soltanto è cruciale, ma strategico per la gestione di una transizione che si prefigura come più lunga e complessa del previsto e rispetto alla quale il soggetto pubblico non ha ancora predisposto adeguate soluzioni.
Non soltanto è evidente l’esigenza di ripensare, riprogettare e ricalibrare il welfare pubblico, ma di farlo all’interno di uno scenario in cui la protezione sociale non sia più ideata, programmata ed erogata in modo esclusivo dal soggetto pubblico, secondo logiche di secondo welfare (Ferrera e Maino, 2011; 2012) o di welfare generativo (Fondazione Zancan, 2012; 2013), o di welfare aziendale (Mallone, 2013), o ancora secondo logiche di welfare market, cui è necessariamente connessa una aggiuntiva quota di disuguaglianza derivante dalla capacità di spesa dei cittadini per acquistare prestazioni aggiuntive o sostitutive rispetto a quelle pubbliche. Ma accanto ai soggetti privati che intravedono nel depotenziamento del welfare state un’occasione di “business sociale”, si collocano altri attori che appartengono, a diverso titolo, alla sfera della cosiddetta “nuova filantropia”. Le Fondazioni in particolare, specie quando in possesso di ingenti patrimoni, sono gli attori di snodo per la ri-costruzione e la tenuta delle “comunità” locali. Se si pensa alle fondazioni di origine bancaria (FOB), una peculiarità tutta italiana, con patrimoni senza dubbio ingenti, all’estremo opposto le fondazioni di comunità, definite come “scopi in cerca di patrimoni”; nel mezzo, almeno per capacità erogativa, le fondazioni corporate e quelle private, di individui o grandi famiglie. Tutte sono accomunate, pur a fronte di differenti livelli di complessità organizzativa, dal fatto di essere strutture “snelle”, decisionalmente efficaci e rapide, interventiste, capaci di intercettare i bisogni di una comunità, della quale fanno parte, e darvi risposta. Le FOB, 88 in Italia, mostrano recentemente segnali evolutivi dal punto di vista qualitativo e del network interno (soprattutto tra le FOB di piccole e medie dimensioni); le altre sono in espansione quantitativa, e presentano ancora ampi margini di sviluppo in senso progettuale, cooperativo (tra fondazioni) e concertativo (con altri attori istituzionali territorialmente situati). Se quindi le Fondazioni, di qualsiasi tipo esse siano, svolgono un ruolo progettuale ed erogativo fondamentale, sebbene mai sostitutivo del soggetto pubblico, tuttavia esse sono anche incolpevoli vettori di disuguaglianza: legate profondamente ai territori, sensibili rilevatori dei bisogni locali, esse presentano nel paese una dislocazione geografica che ancora una volta favorisce il Nord e penalizza il Sud: tra Piemonte e Lombardia si concentra più della metà delle Fondazioni di origine bancaria italiane, e nel Nod sono presenti le maggiori fondazioni di impresa e di grandi famiglie private. E sempre nel nord si sono sviluppate le prime fondazioni di comunità, come emanazione di Fondazione Cariplo. Negli stessi territori già agiscono le fondazioni di minori dimensioni, bancarie e non, attraverso una rete capillare che sta inizindoa muovere i primi passi con progetti di più ampio respiro attraverso la cooperazione in network.
Per queste ragioni, dal punto di vista delle istituzioni che tentano di riprogettare un nuovo welfare le Fondazioni stanno assumendo un ruolo crescente: grazie alla loro capacità (e prerogativa distintiva) di fare sperimentazione e innovazione con un grado di rischio sostenibile, in ragione di un raggio d’azione limitato, possono offrire al sistema pubblico nuovi strumenti, nuovi modelli da incorporare nei sistemi di protezione sociale di più ampia portata. Esse hanno la capacità di intercettare i bisogni e le urgenze di un territorio e predisporre misure di intervento ad hoc, con maggiore rapidità ed efficacia, proprio perché si tratta di interventi a corto raggio e calibrati sui singoli casi. Infine l’azione delle Fondazioni si esplica secondo un modello di trasparenza nella rendicontazione alla comunità nella quale opera: questo meccanismo rafforza la relazione fiduciaria con i cittadini, elemento questo di cui il sistema pubblico è gravemente sprovvisto, nonostante la recente normativa anticorruzione nelle Pubbliche Amministrazioni. A livello sociale le Fondazioni mobilitano risorse e le rendono disponibili attraverso la cooperazione con il terzo settore, il mondo dell’associazionismo e del non profit: creano lavoro, sia al loro interno sia nell’indotto operativo; costruiscono reti; progettano, realizzano e rendicontano interventi secondo logiche multi stakeholder; agiscono su obiettivi circoscritti ma con il massimo dell’efficacia e con azioni di monitoraggio in itinere e a conclusione del progetto. Esse sono, per tutte queste ragioni, definibili come vere e proprie infrastrutture sociali, produttori di capitale sociale e innovatori sociali (Goldsmith, 2010). Quanto all’elemento cruciale del capitale sociale, esse riescono sempre più a creare reti stabili di interazione coope­rativa fra attori diversi dello sviluppo locale, siano essi pubblici o privati o del mondo del non profit. Inoltre, in qualità di innovatori sociali, le Fondazioni agiscono non già per risolvere definitivamente o stabilmente i problemi che una co­munità locale si trova ad affrontare, ma in modo tale da mettere in campo “azioni dimostrative”, utili a indicare come i problemi e le emergenze possano essere affrontati con strumenti e policies più efficaci rispetto a quelli che i sistemi pubblici hanno predisposto fino a quel momento.
La Fondazione non ha dunque la pretesa di risolvere i problemi ma può mostrare come i problemi possono essere risolti meglio, affidando poi ad altri soggetti l’adozione su scala ampia delle soluzioni identificate. Le Fondazioni sono per questo attori protagonisti della transizione verso un nuovo assetto sociale, di cui ora si immaginano soltanto i contorni, e che è ancora di là da venire. Sono quindi soggetti sociali anticipatori, innovatori e precursori. E riescono in questo tentativo di interpretare tempestivamente i bisogni perché (ed è questa la migliore eredità che le Fondazioni possano lasciare ai sistemi di welfare pubblico) sono flessibili e dispongono delle risorse (umane, culturali prima ancora che economiche) per intercettare le situazioni emergenziali. Non lavorano secondo un approccio ritualista burocratico, che troppo spesso invece caratterizza l’intervento pubblico, ma secondo logiche di efficacia (e di costeffectiveness, ossia di sostenibilità anche economica dell’intervento rispetto al bisogno), efficienza e continuo adattamento dell’intervento in base all’evoluzione dei bisogni. Quanto le Fondazioni stanno facendo oggi potrebbe essere interpretato come la gestione di una transizione: una transizione lunga, e di cui si stenta a vedere la fine, ma il loro ruolo è esattamente quello di “attori del cambiamento e dentro il cambiamento”.
Giulia Maria Cavaletto

Bibliografia
Ascoli U. (2011), Il welfare in Italia, il Mulino, Bologna.
Barbetta G. P. (2013), Le fondazioni, Bologna, il Mulino.
Borzaga C. e Cafaggi F. (a cura di) (1999), Le fondazioni bancarie. Un patrimonio in cerca di uno scopo, Roma, Donzelli
Cavaletto G. M. (2015), Il welfare in transizione. Esperienze di innovazione attraverso le fondazioni, Giappichelli editore, Torino.
Ferrera (2008), The European Welfare State: Golden Achievement, Silver Prospects, in West European Politics, n. 31, pp. 81-107.
Ferrera M. e Maino F. (2011), Il «secondo welfare» in Italia: sfide e prospettive, «Italianieuropei», n. 3, pp. 17-22.
Ferrera M. e Maino F. (2012), Quali prospettive per il Secondo Welfare?, in M. Bray e M. Granata (a cura di), L’economia sociale: una risposta alla crisi, Solaris, Roma, pp. 125-134.
Fondazione Emanuela Zancan (2013), Rigenerare capacità e risorse. La lotta alla povertà. Rapporto 2013, Bologna, Il Mulino.
Fondazione Emanuela Zancan (2012), Vincere la povertà con un welfare generativo. La lotta alla povertà. Rapporto 2012, Bologna, il Mulino.
Goldsmith S. (2010), The Power of Social Innovation, Jossey-Bass, San Francisco.
Mallone G. (2013), Il secondo welfare in Italia: esperienze di welfare aziendale a confronto, working paper 2WEL, n.3, disponibile all’indirizzo: http://www.secondowelfare.it/allegati/2w_mallone_wp3-2013.pdf

 
Giulia Maria Cavaletto è Sociologa della famiglia e del lavoro presso l’università di Torino, è componente del Centro Dipartimentale di Documentazione e Ricerca su Fondazioni, Capitale Sociale e Società Civile nel Dipartimento di Culture, Politica e Società. Fa inoltre parte del Cirsde presso lo stesso Dipartimento. E’ dal 2016 Consigliera di parità della Regione Piemonte. Tra le sue ultime pubblicazioni: Il welfare in transizione. Esperienze di innovazione attraverso le fondazioni (Giappichelli editore,Torino, 2015).